Una colonna sonora
«La vita dell’orsa JJ4 non ci restituirà nostro figlio. Troppo comodo cercare di chiudere questa tragedia eliminando un animale, a cui non può essere imputata la volontà di uccidere. Non ci interessano i trofei della politica: noi pretendiamo che ad Andrea venga restituita dignità e riconosciuta giustizia. […] Le istituzioni non hanno fatto niente per spiegare alla gente come comportarsi con un numero così alto di orsi: cosa fare per prevenire incontri, quali zone non frequentare, come reagire a un attacco. […] Hanno lasciato tutti ignoranti e tranquilli, senza nemmeno installare i cassonetti anti-orso in tutti i paesi a rischio»
Così si è espresso Carlo Papi riguardo alla morte di suo figlio Andrea, ucciso dall’orsa JJ4 mentre transitava su una strada forestale del Monte Peller.
L’orso, una storia tra etimologia e immaginario
Abbiamo atteso affinché la tragedia occorsa potesse decantare. Ci siamo sforzati di farlo, nonostante l’enormità del dibattito che ne è scaturito.
Purtroppo nemmeno la forza delle parole dei familiari di Andrea Papi sono riuscite a sgombrare il campo dalle troppe distorsioni, a raddrizzare una discussione nata storta. Ora, dopo esserci costretti a strozzare il fiato nella speranza malriposta che potesse svilupparsi un discorso che prendesse le mosse dai dati di realtà, vorremmo provare a collocare a modo nostro i tempi, e lo spazio e gli esseri di – e in– questa storia. A intervenire con gli attrezzi che sappiamo maneggiare per provare a mettere a fuoco le prospettive, distanti dalle troppe tossicità che registriamo di continuo.
Quanto accaduto coinvolge chiunque, tanto chi in montagna ci vive quanto chi la vive per le più svariate ragioni e a noi pare che assumere la giusta distanza sia il modo, la prossemica imprescindibile per rapportarci con animali, selvatici o meno che siano. Che percepiamo come pericolosi oppure no. Una distanza – variabile da specie a specie, da esemplare a esemplare – emotiva ed analitica, resa difficile dal deflagrare sguaiato di retoriche contrastanti solo in apparenza, ma di fatto convergenti.
Il dibattito pubblico intorno alla questione orso a cui da qualche giorno assistiamo è infatti intriso di frasi fatte: purtroppo come ogni altro dibattito della contemporaneità si esaurisce in una falsa alternativa, tra posizioni che paiono avere come scopo quello di contrapporsi, ma che non fanno altro, in realtà, che alimentarsi a vicenda avvitandosi su sé stesse. Proviamo allora a riavvolgere il nastro, per poi trarre qualche considerazione a mente fredda.
I fatti, la natura (dentro e fuori)
La notizia di cui stavolta si è nutrito il tritacarne social-mediatico è quella di uno sportivo, Andrea Papi, aggredito e ucciso da un orso mentre attraversava un bosco[1].
Tutto questo a nostro avviso tende nervi che vanno molto al di là della paura degli animali selvatici e toccano argomenti molto vasti – che non approfondiremo ora – come rischio e sicurezza. Argomenti che associati alla montagna fanno tremare versanti e crollare seracchi. Negli ultimi decenni, con un’accelerazione ulteriore nel corso del periodo pandemico ci si è avvitati – rileviamo tra l’altro il riemergere del termine runner – intorno a una finta rincorsa al rischio zero in ogni ambito. O meglio: il sistema economico, sociale e politico in cui siamo immersi, che spinge quotidianamente il mondo per come lo conosciamo verso la catastrofe, ci dice che – allo stesso tempo – lavora per ridurre il fattore di rischio nella nostra vita. E lo fa attraverso una miscela di deresponsabilizzazione e colpevolizzazione individuali, in favore della definizione di regimi normativi accomunati dal dover essere profittevoli. Questo, associato a una visione del turismo sempre più aggressiva, ci fa stupire – e di converso lo stupore consente a chi legifera di reagire contro – in montagna e negli ambienti considerati “naturali” ogni qualvolta assistiamo a un incidente, a un alpinista che precipita, a un’aggressione da parte di animali selvatici, a una pietra che cade in testa a una persona su un sentiero e via discorrendo. Situazioni appunto “naturali”, (mettiamo la parola natura fra virgolette per segnalare che siamo in presenza di una costruzione culturale, nel momento in cui noi animali umani ci chiudiamo dentro i nostri confini – muri di casa, recinti, filo spinato – creiamo in modo automatico e ancestrale il fuori).
Chiamiamo “natura” ciò che consideriamo fuori ma noi non ne siamo estranei, siamo parte di questa “natura” che pretendiamo via via più addomesticata, finta. A prescindere dal fatto che l’animale sia oggetto di un progetto di introduzione per salvaguardarne la popolazione o che la pietra cada per il versante indebolito dai cambiamenti climatici o che l’alpinista sia un turista della domenica.
Queste situazioni sono “naturali”, nel senso che chi va in montagna, come chi va ovunque, sceglie di esporsi a potenziali situazioni di rischio. Non stiamo parlando di artefatti umani a cui sono stati tolti i dispositivi di sicurezza per aumentare la produzione, stiamo parlando di ciò che sta fuori i confini che abbiamo costruito e in cui ci pensiamo al sicuro. La condanna a morte degli animali che hanno infranto le regole del vivere civile (farebbe ridere se non fosse vero) evoca una volontà morale e sembra far percolare, al di là dell’umano, atteggiamenti di repressione e colpevolizzazione. Come nel caso del Casteller, una sorta lager per fauna in ergastolo ostativo, stiamo assistendo impotenti all’estensione del 41bis oltre ogni limite, stiamo applicando la pena di morte mentre ci illudiamo di salvare il pianeta legiferando intorno al comportamento dei cinghiali. Ma ora parliamo di orsi.
Premessa: abbiamo scritto dell’orso “oggetto di un progetto di introduzione per salvaguardarne la popolazione decimata”, proprio per evitare un termine che consideriamo un tranello bell’e buono: “reintroduzione”.
Il termine “reintroduzione” è funzionale – e infatti vi si accompagna in maniera insistente – alla narrazione luna park per cui il plantigrado sterminato dalle sagge vecchie generazioni sarebbe stato re-inserito in un contesto in equilibrio fragile, incapace di accoglierlo e per giunta a mero uso turistico, come se il resto della montagna trentina non fosse anch’essa asservita al turismo.
Se è poi vero che alcuni orsi sono stati immessi attraverso un progetto europeo – Life Ursus, avente scopo di rimpinguarne l’estenuata popolazione nativa del Brenta – lo è altrettanto il fatto che la specie non era sparita dalle Alpi centrali, così come continua a sconfinare dalle aree balcaniche sulle Alpi orientali.
Life Ursus
Life Ursus non è quindi etichettabile come progetto di reintroduzione tout court proprio perché, sottigliezza piccola solo in apparenza, non è tecnicamente possibile reintrodurre ciò che estinto non è. Ce n’erano pochi esemplari, vero, tre o quattro maschi superstiti in Brenta, come acclarato da progetti di monitoraggio dei primissimi anni ‘90. Ma, per quanto una popolazione non fertile sia senza futuro, non si può parlare (ancora) di una specie (Ursus Arctos) estinta.
E in assenza di estinzione parlare di reintroduzione prima ancora che prestarsi a fallacie logiche è scorretto, propedeutico alla creazione di immaginari distorti.
Immaginari come quello che pretende – a ricalco dei nazionalismi – orsi sloveni diversi dagli orsi nostrani, e che merita senza dubbio un accenno. Se è vero che ogni sottopopolazione è oggetto di “deriva genetica”, tanto maggiore quanto maggiore è il suo isolamento, immaginare che gli orsi trentini fossero diversi da quelli sloveni – una sottospecie univoca come l’orso marsicano – è una fandonia.
Da sempre la popolazione di orso è la stessa, che viva sulle Alpi Occitane così come in Grecia o nei boschi dinarico-balcanici. Inoltre l’orso, essendo un animale solitario, non acquisisce imprinting di gruppo diverso da quello dettato dall’istinto.
Il progetto Life Ursus ha dunque introdotto esemplari prima che la specie sparisse completamente dall’areale in questione, con l’obbiettivo dichiarato di non farne svanire la tenue memoria culturale presso le stesse popolazioni che abitano quei territori (in cui erano nel frattempo state costruite aree destinate alla tutela della fauna, plantigradi compresi, dei quali è dal 1939 vietato l’abbattimento).
Il Parco Nazionale dello Stelvio dal 1935, quello Adamello-Brenta dal 1967, quello regionale dell’Adamello dal 1983, costituiscono assieme al Parco Nazionale Svizzero (1914) un unico sistema di protezione della fauna territorialmente contiguo che valica i confini statali. Dal 1976 inoltre la Provincia Autonoma di Trento si è dotata di una legge finalizzata a prevenire ed indennizzare i danni da orso.
La crescita di popolazione degli orsi ci consente di affermare che Life Ursus è stato un successo e avviene con una dinamica nota: a difesa delle fasi che vanno dalla gestazione allo svezzamento (facciamo notare che il tasso di mortalità dei cuccioli nel primo anno di vita è del 75%) la femmina stabilisce un’area nucleo che i cuccioli abbandoneranno soltanto quando saranno indipendenti. Le giovani femmine della cucciolata replicheranno poi il comportamento materno, stabilendo nuovi perimetri entro i quali va prestata ogni cautela onde evitare situazioni di pericolo.
[1] Si scoprirà poi che l’orso “colpevole” dell’aggressione è l’esemplare JJ4, catturata mediante trappola a tubo il 19 aprile assieme a due dei suoi tre cuccioli, subito liberati perché già potenzialmente autonomi.
Danza di Capodanno degli orsi a Comănești (Romania)
Pseudo-conflitto fra narrazioni
La narrazione che vorrebbe l’assoluta intoccabilità delle specie – una convivenza pressoché mistica, regolata dal divino e percepita come appannaggio dei “cittadini” – si è solo in apparenza contrapposta all’altra, quella del montanaro pragmatico e depositario unico del sapere della montagna, padrone a casa sua.
In realtà a noi pare che le due “visioni” si sostengano a vicenda e che concorrano a un unico esito: banalizzare il dibattito trincerandosi a monte nelle rispettive certezze e mettendo la sordina ad analisi che scavino nel profondo, forti di dati reali e circostanziati. Argomentazioni che si autoalimentano traendo vicendevolmente linfa velenosa: sacralizzare da un lato “la Natura” e dall’altro “l’Uomo” impedisce infatti la problematizzazione della questione: la natura cessa di essere quel corpo vivo e in mutamento per farsi oggetto sacro, intoccabile. “L’uomo”, per contro, assurge a quell’idea suprema di forza e controllo, sempre e comunque. L’animale umano, che non solo si è autodefinito sapiens-sapiens e messo al vertice di una piramide in cui ha posizionato, via via più in basso, gli animali non umani che hanno meno in comune con lui, si considera super partes sia quando predica l’intoccabilità del globo che quando ne teorizza lo stravolgimento. Ciò che viene a mancare è insomma la consapevolezza che permetterebbe all’umano di essere specie tra le specie, con il rispetto necessario nei confronti dell’ambiente in cui vive e la valorizzazione della sua capacità/peculiarità di raccogliere, accogliere e contemplare le varie angolature della questione, dopo averle fatte accuratamente decantare.
A proposito dei concetti appena espressi segnaliamo questo articolo che chiarisce sì i meccanismi mediatici in atto, quelli delle due narrazioni contrapposte, ma che a nostro avviso è monco: rappresenta una buona premessa polemica ma è lacunoso nella sua pars costruens, manca di profondità.
Il contesto
Se proviamo a inquadrare il contesto, uno dei sotto-temi ricorrenti è l’antropizzazione della provincia di Trento, fatta di paesi in espansione dove non ci sarebbe più spazio per gli orsi, discorso saldato al leitmotiv “se i nostri nonni li hanno sterminati ci sarà ben un motivo. A maggior ragione oggi, coi paesi in crescita, la convivenza è impossibile”. Tocca rilevare che il concetto di antropizzazione introdotto è distorcente. In provincia di Trento, come in tutti i luoghi montani, assistiamo a un pressoché costante spopolamento. Caldes, il paese dell’attacco dell’orsa JJ4, ha oggi due terzi circa degli abitanti rispetto a quelli degli anni venti del novecento. Rabbi, luogo di un precedente attacco in marzo da parte di MJ5 ai danni del fratello del Sindaco del paese, li ha addirittura dimezzati.
Censimenti della popolazione della provincia di Trento
Basta poi un veloce colpo d’occhio per notare che a crescere sono i comuni-divertimentificio, quelli degli impianti che è facile immaginare si spopoleranno a fine stagione.
Ma soprattutto a crescere sono da una parte la superficie boschiva per abbandono umano dello “scomodo” e, dall’altra l’urbanizzazione dei fondivalle anche nella forma della messa in produzione agricola, dello sfruttamento intensivo, della monocoltura, basti pensare a quella dei meleti.
Una montagna che poco ha a che vedere con quella dei tempi in cui ogni metro quadro era messo in produzione per il mero sostentamento, in cui lo sterminio dell’orso non era messo in atto da singoli montanari che prendevano il fucile, ma a colpi di taglie pagate a cacciatori professionisti che agivano a colpi di “lacci e trabocchetti”. Taglie guarda caso maggiori per esemplari femmine.
La (mala)gestione politica
Ma torniamo a Life Ursus. Scegliere di avviare un progetto del genere, farlo a partire da un territorio sfruttato e pieno di ostacoli antropici – industrie, infrastrutture, autostrade, colture – sarebbe quantomeno bizzarro se non fosse perché, appunto, in questo stesso territorio vivessero gli ultimi orsi delle alpi centrali.
È immaginabile ora che un progetto del genere possa convivere con l’opposizione della politica alla progettazione di corridoi faunistici che consentirebbero l’espansione dell’areale degli orsi, spalmandone la presenza, diluendone le criticità?
Si contestano Life Ursus e il PACOBACE che individuano puntualmente le azioni da effettuare per sostenere la presenza del plantigrado, ma si tace della pessima gestione trentina in generale, attaccando lontani e immaginari burocrati che avrebbero deciso di reinserire l’orso nel suo habitat a scapito della sicurezza e della salute dei locali. A questo proposito facciamo notare che le comunità interessate dall’arrivo di nuovi plantigradi sono state consultate, esprimendosi favorevolmente in larga misura (76%). Il progetto Life Ursus ha inoltre avuto una gestazione quasi decennale (1992-1999) e ha richiesto almeno tre passaggi fra Provincia Autonoma di Trento, Ministero dell’Ambiente, Stati e Regioni confinanti, dato che l’obbiettivo era non di ripopolare il Trentino ma tutte le Alpi Centrali.
Da un lato una politica che non governa i meccanismi di attuazione del progetto e infiamma gli animi della cittadinanza additando gli orsi, dall’altro la stessa che tace – evitando di affrontare problemi ben più preoccupanti e concreti – dei fitofarmaci impiegati nella tanto decantata coltura intensiva delle mele, marchio sacro e intoccabile quanto quello dei vitigni.
Accusare il progetto Life Ursus – una serie di intenzioni – confondendolo con la mala gestione politica dello stesso è colpevolmente sbagliato.
Sembra accertato infatti che i due attacchi recenti (2020 e quello mortale di pochi giorni fa) di JJ4 siano avvenuti nel suo proprio e da tempo noto areale. Spazio occupato dall’orsa, conosciuto dalla politica provinciale almeno dal 2021, anno in cui è stato pubblicato l’ultimo Rapporto Grandi Carnivori disponibile (pag. 17).
Stando alla ricostruzione di Alessandro Ghezzer, entrambi gli attacchi di JJ4 sono avvenuti entro il perimetro noto, da lei frequentato. Sappiamo inoltre che l’orsa ha dei cuccioli e che gli unici cartelli d’avviso sono piuttosto superficiali, sembrano generici pannelli turistici piuttosto che reali passi informativi, recanti pericoli e disposizioni ad hoc.
Alessandro Ghezzer – i 2 attacchi di JJ4 (i due asterischi rossi) nel suo perimetro vitale (la forma trapezoidale viola)
Cartelli ufficiali e non
Areale, ricostruzione di spostamenti, compilazione di mappe resi possibili perché a JJ4 è stato messo un radiocollare che però ha smesso di funzionare nell’agosto 2022.
Non si sono approntate misure, si è poco o per nulla informato, e ora si utilizza l’argomento “radiocollare” come ennesima giustificazione autoassolutoria. A quanto leggiamo infatti, il suo funzionamento “non avrebbe evitato la morte di Andrea Papi”.
Quel che per noi è certo è che non siano state prese né misure preventive né tantomeno informative, nonostante l’acclarata potenziale pericolosità di orse con i cuccioli. Rammentiamo che anche solo tra le azioni di prevenzioni leggere associate al PACOBACE, è sempre prevista “l’intensificazione del monitoraggio” e “l’informazione ai possibili frequentatori dell’area”.
Quali di queste specifiche azioni ha attuato la provincia, a fronte di una situazione nota?
Non solo: nel 2020 il TAR di Trento impedì la soppressione di JJ4, disposta a causa dell’attacco ai danni di due cacciatori, perché era in compagnia di tre cuccioli. Stando al rapporto stilato all’epoca “si è trattato, con ogni probabilità, di un comportamento di attacco (con contatto fisico) per difendere i piccoli”.
In sostanza entrambi gli attacchi dell’orsa (2020 e 2023) sono avvenuti in presenza di cucciolate.
Lo troviamo un dato estremamente interessante, non tanto perché allora non fu abbattuta e stavolta il giudizio sia sospeso, ma proprio perché la relazione ci dice dell’etologia dell’orso e smonta la narrazione della “bestia feroce”.
L’orsa non ha mai attaccato perché confidente e fattasi violenta (comportamento che in burocratese si definirebbe tipico di un “orso problematico”, cioè un esemplare che ha perso la diffidenza con l’uomo): semplicemente, etologicamente, difendeva la prole. Etologicamente gli orsi non sono animali sociali: vivono in isolamento salvo la fase dello svezzamento. Ciò rende le madri orso particolarmente aggressive in caso di percezione di pericolo, perché è documentata la predazione/uccisione di cuccioli non propri da parte di orsi maschi.
Imbattersi a distanza ravvicinata in un’orsa con i cuccioli o su un orso/a intento a cibarsi di una carcassa (predata o meno) è sfortuna.
Nonostante sia l’ente tenuto a farsi carico della gestione del selvatico, la Provincia presieduta da Fugatti che ora olia gli schioppi e affila i coltelli (un tempo anche da cucina, a uso gastronomico) ha trascurato il fatto che l’orsa fosse in compagnia di cuccioli, non l’ha comunicato, mettendo a rischio i frequentatori del bosco, Papi in primis, che è morto.
Perché l’istituzione gestisce male la questione al punto da offrire come unica soluzione quella del tipo “L’orso attacca? Abbattiamolo”, in una spirale tanto folle da sembrare quasi un riflesso pavloviano?
Un’ istituzione che non informa e, pur autonoma, ricalca il perfetto gusto italiano per la perenne emergenza. Una provincia che non delega la gestione degli orsi a esperti – ai parchi, alla comunità scientifica ecc. – ma preferisce affidarla a funzionari interni per poi sottrargliela in favore della Protezione Civile – caso unico al mondo, pare – in un crescendo di autoreferenzialità. Tutto ciò nonostante le reiterate richieste di gestione da parte del Parco Adamello Brenta, motore primo della ricomparsa degli orsi in Trentino.
La percezione del problema – i confini, i montanari, il ruolo umano
Un ulteriore dato di interesse, a nostro avviso, è il fatto che i gruppi montuosi dell’Adamello e del Brenta siano appiccicati – non a caso il parco nazionale è Adamello Brenta – e infatti, trovandosi sbarrati altri luoghi di sconfino, gli orsi “trentini” arrivano spesso nel bresciano, in Valle Camonica, in Val Sabbia e sul Garda.
Dato di interesse dicevamo, perché rileviamo con curiosità che oltrepassato il confine – e cioè una convenzione umana – l’orso non ha mai creato problemi particolari, eccezion fatta per predazioni di alveari, roccoli ed allevamenti. E parliamo verosimilmente degli stessi identici esemplari, proprio quelli accusati d’essere violenti e assassini al di là di questa linea arbitraria.
Il parco regionale dell’Adamello (stesso gruppo e altro parco, stavolta camuno, perché in Italia non ci si fa mancare nulla) ha addirittura documentato il caso di un orso che quasi tutti i giorni di primavera-estate transitava sui monti della bassa Valle Camonica per scendere a fino al lago di Iseo a fare il bagno. Partenza di notte, tuffo all’alba e rientro. Essere che non ha mai sfiorato nessuno, e ci risulta davvero difficile credere che in una zona turistica e frequentata non si sia mai imbattuto, anche solo a distanza, con qualche umano.
Di certo in questione è oggi quindi il modo di chi abita quei luoghi e in quei luoghi ci vive, a prescindere probabilmente dal loro uso turistico. Sappiamo infatti che – altro dato da fissare nella memoria – in un’altra zona a alta frequentazione turistica, intensiva e spalmata lungo il corso di tutto l’anno quale il Trentino, la totalità degli attacchi è stata a danno dei residenti. Non si registra un singolo caso di criticità ai danni dei frequentatori per turismo. Alpinisti in trasferta, trekker, paesaggisti, fotografi, naturalisti, visitatori di malghe e alpeggi (…) non risultano essere mai stati toccati. Dato che pare confermato in astratto anche dallo studio MUSE sugli attacchi degli orsi nel mondo (fig. 3 nel quadro degli attacchi dei carnivori a livello mondiale), studio che dimostra inoltre che gli ursidi attaccano per difesa.
Per contro, quando si leggono ovunque, specie in questi giorni, affermazioni tanto generiche quanto vuote, come “il colpevole della morte di Andrea Papi non è certo l’orso, colpevole solo di essere un orso con la sua natura e i suoi istinti, ma come per tutte le degenerazioni ambientali il colpevole è l’uomo” ci si sta confrontando con qualcosa di vero ma parziale, monco. Perché dal discorso è epurato il dato storico culturale, e cioè quale sia il ruolo che ha giocato e tuttora gioca l’uomo, soprattutto quella porzione di società che pretende di possedere la cultura montanara e l’esperienza necessaria: l’abitante delle vallate. Che ruolo ha giocato e sta giocando il primo convivente con le cose della natura, in questo caso l’abitante delle valli trentine?
Verrebbe da rispondere che l’asserzione fattasi dominante in ambito locale – quella per cui i montanari che nel territorio ci vivono siano i soli depositari del sapere, che in Trentino il bosco sia letteralmente dietro casa e che così non si possa più vivere perché si è fatto rischioso spostarsi, uscire in cortile, andare a lavorare – si squagli di fronte a una piccola, altrove e altrimenti innocua, pratica: andare a correre dentro l’areale di un’orsa con cuccioli, farlo anche se questo areale lambisce il paese o se è il teatro delle nostre attività quotidiane, per giunta all’imbrunire.
In sostanza, e per tornare all’inizio di quanto abbiamo scritto, la retorica cittadino-ambientalista/montanaro-conoscitore si smonta da sé. Chi raramente rispetta le regole basilari di convivenza pare essere proprio il montanaro, non sappiamo se per arroganza, per incompetenza, per mancata comunicazione politica, resta il fatto che sia così.
Senza nessun intento di colpevolizzare Papi, sia ben chiaro, vittima certa di un attacco e soprattutto di una pessima gestione e informazione.
Lupo e orso – le consonanze di due dinamiche correlate
Chiudiamo introducendo un ulteriore argomento, solo in apparenza diverso, che però troviamo strettamente correlato, interconnesso: il lupo.
Abbiamo in passato scritto attorno a Le conseguenze del ritorno, titolo di un saggio di Luca Giunti che si occupa della ricomparsa di quest’altro predatore nell’arco alpino, dopo che ha risalito la dorsale appenninica. Un ritorno diverso, non dovuto ad un rinfoltimento della popolazione a opera dell’uomo bensì a un suo fisiologico riappropriarsi di territori dall’uomo abbandonati. Se mediaticamente questo fenomeno è più sotto traccia rispetto alla vicenda dei plantigradi è solo perché, fino a ora, non ci sono stati incidenti importanti con umani.
Ma esistono comunque consonanze.
I lupi debbono nutrirsi, e spesso lo fanno – soprattutto gli esemplari giovani – con ovini al pascolo, il che fa molto arrabbiare gli allevatori.
In alcune aree, ad esempio la val Susa, stanno poi prendendo confidenza con l’uomo, non disdegnano di attraversare borgate e centri abitati a fondovalle e tendendo a non scappare anche se avvistano persone, probabilmente perché la penuria idrica – altro punto fondamentale nell’attuale contesto ambientale – li obbliga ad avvicinarsi agli abitati.
Che sia per sentimento atavico, per reale rischio, o per ragioni altre, una parte della popolazione locale si è polarizzata sul discorso “uccidiamoli tutti, sono assassini!”, un’altra parte su quello “amiamo i lupi, sono meglio degli umani”, riflessi pavloviani consonanti con la vicenda orso; si attribuiscono caratteristiche morali agli animali, in un ragionamento antropocentrico che, per quanto comprensibile, non è funzionale. Il rischio che noi in quanto umani corriamo è di definire le qualità degli animali non umani in base a ciò che pensiamo di noi stessi e di rafforzare così la piramide di cui scrivevamo sopra. Raccontare e raccontarci che gli animali sono simili a noi non gli rende giustizia. Siamo diversi e – come afferma il filosofo Felice Cimatti in questa lezione – “affinché un discorso sugli animali sia all’altezza dei problemi deve partire dall’idea che i viventi sono tanti e tutti diversi fra loro. E se c’è senso è a partire da questa diversità”.
Occorre, anche qui, provare a muoversi con raziocinio: accettare la presenza del lupo, anche dei danni che crea e creerà (Giunti nel suo scritto arriva a sostenere come plausibili anche futuri infanticidi), perché è corretto dal punto di vista etico, naturalistico e di diritto, nell’accezione più ampia del termine. Affinché quella con il selvatico possa essere una co-esistenza, però, sarà fondamentale la nostra capacità di stabilire e mantenere una sana distanza.
Bisognerebbe infine, e siamo consapevoli che la cosa è difficile, provare a porsi ad esempio dalla parte dell’orsa JJ4 e della sua visione del territorio, che è diversa dalla nostra che andiamo a passeggiare per boschi. Provare a comprendere perché la sua reazione a un possibile invasione del territorio abbia avuto le conseguenze che ha avuto e iniziare – di conseguenza – a costruire un rapporto diverso con gli animali non umani. Tenere conto della differenza fra gli animali, senza farla diventare gerarchia, è un esercizio che può fare paura ma è anche da lì che passa un movimento di liberazione del nostro essere animali.
Alpinismo molotov – sbatti l’orso in prima pagina – StopCasteller
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[…] Originariamente apparso su https://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2023/04/28/sbatti-lorso-in-prima-pagina/ […]
Sbatti l'orso in prima pagina - GognaBlog
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[…] l’orso in prima pagina A cura della Redazione di Alpinismo Molotov (pubblicato su Alpinismo Molotov il 28 aprile […]
Redazione_am
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Si apprende in queste ore da molti media che a proposito della morte di Andrea Papi circola una perizia dalla Lega Antivivisezione (Leal).
Ribadiamo che secondo noi il problema non è genetico, di DNA dell’orso, di dentatura maschile piuttosto che femminile.
Il garbuglio è proprio relativo alla narrazione e all’immaginario: il mostro reo. La dinamica distorta sta proprio qui: perizie e articoli che insistono a seguire la pista umanizzante, proto-ponderata.
Non sappiamo come sono andate le cose. Non sapremo mai lo svolgimento della faccenda, le emozioni e sensazioni che l’animale non umano ha provato. E mai sapremo nemmeno quelle dell’animale umano, come invece la perizia in questione sembra suggerire, quasi a cercare “chi ha cominciato prima”, quando invece dovremmo guardare oltre al fatto in sé, e cioè (ancora una volta) a cosa ha e non ha fatto chi aveva il compito, la responsabilità di gestire la convivenza. Non sappiamo in sostanza perché l’orso si sia fatto attore o comunque, suo malgrado, abbia partecipato allo sceneggiato che pretendiamo di cucirgli addosso. Quello che ci preme ri-affermare con forza è che termini quali assassino, colpevole, innocente ecc. sono sbagliati. Lo sono in quanto categorie umane, afferenti all’etica o alla morale, e nulla hanno a che vedere col mondo animale. Anche perché etica e morale valgono solo dove e quando sono condivise tra tutti coloro alle quali si applicano, quindi sono un problema solo umano – e nemmeno di tutto il genere che popola la terra contemporaneamente – con tutta banale evidenza.
Non si può comprendere – figurarsi giudicare! – un comportamento selvatico-animale con lenti antropocentriche, non lo si può ammantare di un surplus narrativo fatto di astrazioni quali meccanismi di colpa, indecorosità, quieto o civil vivere, animali serial killer. Questa narrazione non porterà da nessuna parte, non aiuterà a osservare il problema dalla giusta angolazione e, di conseguenza, non sarà affatto utile a uno sguardo distensivo, lucido, risolutivo.
Si continua a voler imputare ad animali non umani un comportamento umano, costruendo ancora una volta una barriera, nella pretesa di una naturalità – finta – che schiaccia noi (l’essere animale umano) prima ancora che la “mostruosa” alterità delle cose.