Per superare la soglia della propria abitazione e attraversare piccole frazioni dello spazio pubblico c’era da arrabattarsi tra modulistica in continuo (diciamo così) aggiornamento: le nostre evasioni rimanevano una necessità nonostante le si dovesse “autocertificare”. Non potevano però più dirsi normalissime. La finalità inizialmente individuata di «raccontare le nostre escursioni […] nel tentativo di inquadrare da prospettive oblique quel che ci circonda e restituire ex post, almeno nel racconto, la dimensione collettiva di quel procedere a passo oratorio che oggi ci è negata» era, ci pareva sempre più chiaro, una forma di resistenza di cui noi – e non solo noi – non potevamo privarci. Le nostre (e vostre) evasioni divennero “cospiranti”: cospirare nel senso di «unirsi per conseguire uno scopo comune», e lo scopo comune era non rimanere schiacciate e schiacciati – tra ansia, depressione e senso d’impotenza – dalla condizione di confinamento e segregazione sociale.
In attesa di ritrovarci, nelle strade e lungo i sentieri.
La storia di F1
All’inizio andavo solo a fare la spesa quando non avevo più nulla. Il fatto di sgattaiolare fuori, alle 8 meno 5 del mattino, evitando l’ascensore, il signore delle pulizie e la concierge, e poi di acquattarsi rasomuro, ogni volta che incrociavo una signora col cane sullo stesso marciapiede semideserto, tutta quest’aura d’avventura postapocalittica che circondava la routine della spesa, devo dire che non mi dispiaceva.
Ora che ho superato la fase di adattamento e fare la spesa è meno avvincente, esco tutti i giorni a fare una corsa o una passeggiata, e a dir la verità cerco di rispettare le regole, nonostante abbia già un po’ sforato a nord un giorno che avevo la testa tra le nuvole. Qui in Francia possiamo uscire per brevi spostamenti nel raggio di un chilometro dal domicilio. Esistono numerose applicazioni gratuite che calcolano la superficie che corrisponde al raggio di un chilometro. Questo cerchio è la parte di mondo a cui ho diritto in questo momento:
Non è male perché posso sconfinare in ben due altri comuni, Bagnolet e Montreuil (anche se non sono sicura che sia davvero permesso andare in un altro comune, ma mi fido di quello che dice il cerchio). Inoltre il quadrante nord-ovest è piacevole e ricco di verde Anche se quell’angolo tutto verde nella figura, che fa parte del cimitero del Père Lachaise, non mi è accessibile, almeno in vita. I cimiteri sono aperti solo per i servizi funebri e sono ammesse al massimo venti persone per funerale.
Mi sono data come obiettivo di esplorare tutte le vie e i vicoli del cerchio entro la fine del confinamento. Oggi, per esempio, ho scoperto una passerella pedonale che scavalca il boulevard périphérique, la tangenziale di Parigi, a nord della porte de Montreuil. In realtà sapevo che esisteva ma pensavo fosse chiusa. È stata una bella sorpresa, perché volevo appunto fare qualche foto al périph deserto, ma non avevo ancora osato andare fino a Montreuil passando dalla strada principale per paura della polizia. Oltre al problema del confine tra comuni, non sono certa infatti che la mia autocertificazione scritta a mano in cui ogni volta cancello data e ora che riscrivo poi a matita, sia del tutto valida.
Il racconto di G1
Butto due pensieri, nel giorno della Pasqua del Signore 2020.
Un mese fa il Vecio mi chiama: guarda che faccio il capretto, come faccio a portartelo?
Papà cazzo neopensionato con la sindrome del fare in astinenza dal lavoro non lo so la butto in caciara me lo spedisci per posta che ne so no no no dai mi fa te lo porto mi fa. Era marzo la quarantena una cosa tutta nuova c’erano già stati gli scontri nelle carceri la repressione le botte partiva trionfale la parata della solidarietà nazionale il corpo sociale riappacificato.
Papà ma poi il capretto, un altro anno e sempre la stessa storia lo sai che sono un onnivoro ma vegano per osmosi ma che cosa va bene va bene come parlare coi sassi.
Ok, gli faccio, ci risentiamo.
Dall’inizio della settimana santa ogni giorno una telefonata santa che io ci sono allergico allora cosa facciamo? Dai vengo io passo per la campagna.
Ci tengo a precisare che la campagna è deserta. Da novembre mi sono trasferito a C***, nell’appartamento della mia compagna. La campagna padana che si stende tra i due paesi è deserta. C’è solo una lepre che ci frega sempre sotto il naso, a me e a Kirisute Gomen, la cagna.
Passo per la campagna no dai ci vediamo sul confine, dove c’è il cartello così non sconfiniamo seee magari con gli occhiali neri e la ventiquattrore che anziché i pezzi di bamba i pezzi di capretto. Unti. Allora dove c’è il ponte della tange gli faccio c’è un buco nella base del ponte passi sotto la strada senti i camion che corrono sopra la tua testa e sei di là, roba forte, da film americano.
Dai vediamo come si mette mi fa sabato sera.
Metto giù il telefono. Penso agli sbirri, penso alla lepre.
Domenica 12 santapasqua. Ho dormito di merda. Manco stessi organizzando un colpo in banca. Sono nervoso. S., la mia compagna, lo sente. Uscita dalla doccia con l’olio di cocco in testa mi si siede vicino, le stringo mollemente un fianco con le mani fredde. Leggo un salmo a caso, poi un pezzo da Matteo in cui Gesù fa brutto ai farisei.
Chiamo il Vecio, la punta è all’isola ecologica, trenta minuti.
Non salgo su una bici da un sacco di tempo. 27 anni di vita senza patente, treni autobus passaggi di gente e bici bici bici. Poi pochi mesi fa la patente, la macchina, il trasloco e lo spazio casa lavoro che aumenta, strade da ciclare brutte tanto, non è più compatibile con i miei ritmi spostarmi in bici per andare a lavoro. Metti la quarantena (quindi chiusa anche con la muay thai) ed ecco che il culo si inflaccidisce e le gambe si rinsecchiscono.
Mi piace la bicicletta molotov. Mi piace girare con la gente in bicicletta ed essere traffico. Mi piace mettere a posto le bici. In un ex orfanatrofio di queste parti c’è spazio per molte associazioni, un circolino arci, e anche la catapecchia dove aggiusto le bici alle zie insieme a “ragazzi problematici” aka famiglie nel caos scuola zero storie tante. Ormai non vedo tutto questo da inizio marzo. Via il baretto dell’arci, via le zie, via i ragazzi via i miei attrezzi che mi viene da piangere, via le bici.
Cappellino, occhiali, scaldacollo alto, inforco e quasi quasi mi commuovo, la sella è più dura di quanto mi ricordassi ma l’adrenalina è nelle gambe le sento che frullano vaaaffanculo piegato sul manubrio stop improvviso ascolto il silenzio di tomba del paese l’ultima svolta e la strada che si addentra nei campi.
Corri corri. Fiato corto. Quintali di sigarette evocate dalle profondità bronchiali. Lamio purpureo in fiore, viola fortissimo, sole. Casali, non abbaia un cane. Al confine tra i due comuni c’è un santuario costruito nel punto in cui una contadina avrebbe visto la Madonna. Pare sia data per buona la possibilità del miracolo (e noi non abbiamo neanche un piccolo mezzobusto di Lenin). Passo veloce oltre, se la Madonna c’è è a tavola anche lei. Sono le 13.
Mi butto nel campo a fianco dell’isola ecologica. Dieci minuti motore diesel macchina nera arriva, un secondo per controllare che non sia seguita da compagnie sgradite salto fuori. C’è anche mio fratello! Quel capellone, spilungone, tormentoso fratello mio di sangue aprono la portiera gli salto addosso (sì, gli salto addosso ciao social distancing a lui e al Vecio che li ho odiati anche ma oggi no, no) mi abbracciano mi cacciano in mano una borsa, li guardo andar via di fretta scappo riprendo la bici dal fosso sono velocissimo tutto come all’andata ma al contrario e col vento un po’ contro.
Penso, alla fine, al terzo bicchiere di vino, dopo aver condiviso un po’ del povero capro con un vicino onnivoro, che sia diventata un po’ una questione di disobbedienza civile. Che ho scritto sta sbrodolata per condividerla, una volta tanto, perché ogni volta che leggo che ci vuole l’esercito e i pieni poteri e la forza per gestire le cose io mi sento solo e minacciato. Forse perchè non milito più, ma mi sono tuffato nel sottobosco? Forse. E’ stato utile rischiare una multa per due pezzi di carne? No. E’ stato bello e liberante e necessario e ri-umanizzante? Sì dai. Penso che dall’uovo della santapasqua di quest’anno ci abbiamo tirato fuori che ne abbiamo pieni i coglioni, che l’emergenza sanitaria è una cosa e la sua gestione è un’altra. Che nel grande e orgoglioso Nord c’è del marcio e siamo stufi di pagare per tenere in piedi questa ipocrisia. Che la legge degli uomini (leggi: Confindustria) oggi ci dice una cosa e la legge degli dei un’altra, che non è vita.
Il racconto di E1
Lo spazio vuoto
Esco di casa per l’Attivitàmotoriaconsentitaneipressidellabitazione, sono le 12:30. A quest’ora sono tutti a preparare la pasta con gli hashtag, la città è deserta e nessuno caca il cazzo dai balconi. Ah, e ci sono 30 gradi all’ombra, dettaglio che immagino possa dissuadere il jogger occasionale dal riversarsi in massa sull’asfalto causando assembramenti involontari. Di solito è così: due o tre volte a settimana spendo 50 minuti della mia giornata di persona comunque fortemente convinta dell’utilità del distanziamento sociale, correndo con la coscienza pulita su strade che sono deserte non solo grazie al sacrificio dei cittadini a casa, no. Non ci passava nessuno nemmeno prima. O almeno, dicevo, di solito è così. Ma non oggi.
Oggi è successo, nell’ordine:
1. Mi affiancano i carabinieri appena fuori, subito dietro l’angolo. Checculo, penso. Sono veramente a 200 metri da casa.
– Buongiorno! Cosa fa?
– Corro, abito qui dietro.
– Tutto apposto buona giornata.
(Ogni tanto la fanno pure loro una mossa giusta, diamogliene atto)
2. Incrocio il solito stronzo in macchina che suona il clacson urlando cose brutte dal finestrino, non le riporterò per intero perché non mi piace scrivere le parolacce ma credo che, al netto degli insulti, volesse ricordarmi che è colpa di quelli/e come me se il virus non è ancora stato debellato. Saluto sventolando la mano col sorrisone (d’abitudine uso il dito medio ma oggi ero di buon umore), alzo – molto – il volume della musica per non sentirlo e continuo a correre.
3. Incontro il secondo gran signore, sempre in macchina. Questa volta arriva da dietro e non lo sento per il motivo di cui al punto 2, si affianca e mi urta con lo specchietto retrovisore superandomi.
– Pensavo ti spostassi –, dice.
Prendo nota: il non ti curar di loro ma guarda e passa vale solo se stanno sulla corsia opposta. Abbasso leggermente il volume, altro sorrisone mentre provo a memorizzare la targa.
4. Imbocco la solita ertara deserta che si inerpica per i campi dietro al paese: una signora con la bandana sulla faccia e due borse della spesa con le scorte per una famiglia di, spero, almeno 7 persone, sta seduta per terra a metà salita, ansima stanca e dice cose che non riesco bene a sentire (ma punta il dito verso di me in modo minaccioso). Abbasso coraggiosamente il volume e chiedo se ha bisogno di aiuto.
“Non passava più l’autobus e ho provato a salire da qui, non so come tornare a casa, mio marito non risponde, abito a [1 km più in su], lascia stare con ‘sta corsa e dammi una mano” (non lo saprei riscrivere tutto in dialetto).
Accompagno a casa la signora portandole le borse della spesa e mantenendo il distanziamento sociale, felice che la figura del runner per una volta ne esca riabilitata agli occhi del popolo dei supermercati; me la cavo con un dio ti benedica e un ammonimento a tornare il prima possibile verso la mia abitazione, perché correre è comunque un gesto pericoloso e da incoscienti.
5. La deviazione fuori programma mi obbliga a imboccare una strada più trafficata che di solito evito, e arriva l’ultimo incontro della giornata: protezione civile.
– Buongiorno cosa fa?
– Corro.
– Ma lo sa che non si può correre!?
– Ah, ma come? Pensavo che l’attività fisica da soli evitando assembramenti ecc. fosse consentita.
– Ma lei dove abita?
– Io abito qui dietro [vabbè ‘sta volta il concetto di qui dietro era un po’ stretchato].
– Sì, ok dicono che entro 200 metri si possa uscire, ma comunque non si potrebbe correre! Correre è un’attività pericolosa perché peggiora, peggioraa… [e qui esita e fa un gesto strano con la mano arricciando le dita davanti alla faccia].
Taglio corto e mi rimetto in moto prima che gli venga in mente di approfondire la questione del qui dietro:
– Ha ragione, scusi, non sapevo che correre fosse pericoloso, corro subito a casa!
***
Oggi il Karma ci ha provato in ogni modo, eppure non mi va di sentirmi una White Privileged viziata ed egocentrica che non ha compreso a pieno la gravità della situazione solo perché sono pronta ad ammettere che muovermi all’aria aperta nella natura era e resta, per me, un’attività essenziale che nessuno dei comfort domestici di un mondo iper-connesso riesce a compensare. E che continuo a farlo, pur se in misura molto ridotta e nel rispetto dei divieti di assembramenti e di attività pericolose (nella regione in cui vivo, stando alle ordinanze pubblicate sul bollettino ufficiale e tralasciando le interpretazioni fantasiose che si leggono nei titoli dei giornali locali, non pare siano state prese misure più restrittive di quelle elencate nell’ultimo D.P.C.M., anche se non si trova nessuna disposizione attuativa univoca in materia).
Questo breve ma intenso periodo di privazione ci mette di fronte a quello che siamo, anche attraverso la cartina tornasole delle rinunce che pesano di più. Beh, sono felice di aver rinunciato senza troppo dispiacere a ristoranti, viaggi, bar, shopping e aperitivi – e tutti i restanti crismi consumistici non sostenibili che affannosamente provano a sopravvivere nella nostra quotidianità social attraverso la banda larga. Mi fa quasi stare bene aver saputo mettere da parte, momentaneamente e non senza fatica, la passione per l’alpinismo, lo sci, l’arrampicata e quell’ansia da allenamento per mantenere alta la prestazione che ti prende ogni volta che ti capita di fermarti. Ogni giorno mi chiedo cosa stia succedendo nei boschi e sulle cime ora che sono disabitate, in modo molto naïve mi capita di sentirmi felice per loro. È stata quasi una liberazione scoprire di non averne tutto il bisogno che credevo.
Ma il più essenziale e primordiale istinto di movimento e di libertà, quella pulsione spesso sopita, priva di sovrastrutture sociali, politiche o economiche e legata al mero rapporto con il proprio corpo attraverso il contatto con l’ambiente naturale – una delle caratteristiche più intime di ogni essere, non solo umano – quello sono orgogliosa di non averlo messo da parte del tutto e con altrettanta facilità. Se a definirci è lo spazio vuoto che lasciano le rinunce a cui ci ha obbligato il lockdown, sono contenta che il mio sia fatto di attività come queste (e sono grata che non sia poi così grande e così vuoto).
“Ma se facessero tutti così ci sarebbero le strade piene.”
Non necessariamente. Se facessero tutti così (se tutti reagissero alla privazione della possibilità di muoversi con la stessa ansia con la quale verrebbe accolto un divieto, diciamo, riguardante l’interdizione dall’uso di dispositivi mobili) vorrebbe dire che vivremmo in una società che non considera l’attività fisica come mero culto del corpo e la natura come palcoscenico di performances, occasione di profitto o passatempo per sfaccendati, ma un pilastro fondante del benessere psicofisico di ciascuno. Di conseguenza, probabilmente, si sarebbe già provveduto a dedicare uno straccio di riga e qualche risorsa in più alla regolazione di limiti chiari, univoci e proporzionati per esercitare – nel rispetto delle precauzioni necessarie – un diritto che la collettività ritiene al vertice della propria scala di valori. (Così come è stato appena fatto, ad esempio, per la regolazione dell’attività venatoria durante la quarantena.)
O, perlomeno, se davvero si fosse rivelato necessario e giustificato, se ne sarebbe vietata la pratica in toto, assumendosi la responsabilità istituzionale di tale provvedimento, forti di avere dalla propria delle ragioni inattaccabili e senza lasciare al social shaming il compito di convincere qualcuno a non uscire per paura del linciaggio collettivo.
Il fatto che questo non accada, è semplicemente specchio di un sistema di valori diverso. Lo dimostra la varietà dei provvedimenti in merito adottati da altri stati, ciascuno riflesso di un diverso sentire. La quarantena finirà, due mesi in fondo non sono nulla se paragonati ad una vita. Ma, una volta d’accordo su questo punto, vorrei conservare almeno la libertà di non dovermi per forza identificare con le priorità dello stato/regione/città/collettività di cui faccio parte, di metterne in dubbio la legittimità delle scelte senza che questo sia considerato attentato alla salute pubblica e, infine, di considerare le varie challenges di arrampicata sul tavolo della cucina alla stregua di palliativi da criceti.
Il racconto di F2 e L
Lo scenario delle nostre escursioni clandestine è una valle dolomitica, della quale siamo ospiti frequenti, stranieri semi-residenti, abitanti a tempo determinato. I primi tentativi di passeggiate in piano si rivelano troppo arrischiati, o perché richiedono di passare dalla strada principale del paese, o perché troppo in vista dalla provinciale che taglia in due la valle. Facciamo quindi la nostra prima esperienza dell’autorità statale: un poliziotto che ci redarguisce, minaccia sanzioni e ci intima di rimanere a meno di duecento metri dalla nostra abitazione. Decidiamo quindi di limitarci a esplorare il monte boscoso dietro casa nostra.
Per andare nel bosco si passa da un cantiere dove, con la scusa di sistemare una baracca, viene costruita l’ennesima palazzina di villeggiatura. Il cantiere sembra fermo a fine marzo, anche perché un operaio è rimasto in fin di vita a causa di un cedimento, ma l’andirivieni di camionette e furgoncini ci lascia il sospetto che i lavori vadano avanti. Superato il cantiere si oltrepassa un torrente. Le nevicate di metà marzo rendono l’attraversamento più difficoltoso, ghiacciando i bordi e il grosso sasso che funge da supporto per il salto. Non sono richieste doti ginniche eccezionali, ma anche questi semplici gesti destano qualche preoccupazione perché evocano scenari spiacevoli, caviglie rotte che ci impedirebbero di beneficiare di queste piccole libertà quotidiane, improbabili infortuni che richiederebbero l’aiuto di soccorritori e medici, esponendoci al pubblico ludibrio, al rimprovero e al disprezzo dei valligiani. Inoltre, L. ha le gambe corte, quindi ha bisogno dell’aiuto di F. per fare il salto del torrente e così, mano nella mano, superiamo il primo ostacolo e entriamo in un territorio protetto dagli occhi indiscreti delle camionette della polizia.
Il sentiero sale ripido e impervio, la neve fresca si alterna al ghiaccio, alla melma fangosa e al terriccio asciutto, seguendo l’andamento degli alberi che lo fiancheggiano. Il silenzio, innaturale per un bosco così vicino al paese, è rotto solo dai cinguettii degli uccelli, dalle campane e da qualche rumore di cantiere. Non si sente alcuna voce umana. Tronchi sradicati dalla tempesta Vaia, che ha dilaniato le pendici boschive dei monti della valle, giacciono un po’ ovunque, alcuni tagliati e spostati a lato dai boscaioli, altri rimasti dove il vento li ha rovesciati. Il bosco è pieno di potenziali insidie e guai: tronchi che ruzzolano, animali che vogliono riconquistare la valle, guardie forestali in agguato per arrestarci. O forse questi pericoli sono solo proiezioni mentali delle nostre paure, frutto dell’internalizzazione dei divieti che qui, in mezzo ad un bosco desolato, hanno ben poca ragione di essere.
Dopo un centinaio di metri di dislivello arriviamo su una strada forestale che conduce alle malghe in quota. Le recenti nevicate hanno reso le cime dei monti pallidi ancora più imperiose, irradiandone le terribili guglie e gli speroni a picco. Per sfuggire alla noia di un’escursione sempre uguale, ogni volta che usciamo aggiungiamo due tornanti alla salita, scaglionando così l’arrivo alla cima come fanno gli alpinisti che anelano ben altre vette. La destinazione, coi suoi pericoli e le sue delizie, viene quindi sempre rimandata in un avvenire misterioso e noi centelliniamo con parsimonia la scoperta e il gusto dell’escursione, così rari in tempi di quarantena.
Ieri decidiamo di infrangere la regola di prudenza che ci siamo imposti e, invece di tornare ripercorrendo il sentiero dell’andata, decidiamo di scendere per la forestale. Dopo poco troviamo una scorciatoia che ci porta alle pendici del bosco, sui prati scoscesi che dall’alto dominano la valle. Abbiamo una bella vista sul paese e possiamo osservare, qualche centinaio di metri più in basso, l’auto della polizia municipale scorrere lentamente lungo la strada principale. Istintivamente ci nascondiamo dietro i pini e le baracche finché non la vediamo allontanarsi.
La storia di G2
«Farò attenzione a quello che vedo, continuamente. E ci penserò su continuamente.»
William Saroyan – La commedia Umana
L’inizio di un percorso già fatto sembra più facile di uno inesplorato. Eppure c’è dell’altro. Ora esco dalla mia casa e farò attenzione a quanta strada potrò percorrere? Farò attenzione a quello che vedo, continuamente. So che sto andando verso il bosco, ma non so cosa vi troverò, non lo so mai. Quasi subito, un incontro. Non vi è traccia di umanità, eppure parla di essa. Qualcuno ha proprietà su quel pezzo di mondo su cui poggerai i piedi, che parla della libertà non accordata, l’unica verità in grado di accrescere la percezione dell’amore. Mi soffermo allora, e riscrivo quella storia.
Quasi subito, un incontro. Un viso tondo su un corpo smagrito. Una vecchia felpa bianca e un cappellino con la scritta “sciarada incatenata”. Mi fa un cenno e sorride, senza guardarmi. Io ricambio il sorriso e vado avanti. In quel sorriso, in quel gesto appena accennato, c’è molto.
«Ma il contrasto non mi opprime – mi libera; e l’ironia che c’è in esso è sangue mio. Ciò che dovrebbe umiliarmi diviene la mia bandiera, che dispiego e innalzo; e il riso con cui dovrei ridere di me, è un clarino con cui saluto e creo un’alba nella quale mi converto.»
Fernando Pessoa – Il libro dell’inquietudine
Proseguo, cammino, un piede davanti all’altro. Mentre continuo sul familiare percorso sconosciuto, faccio un altro incontro. Un piccolo spazio fisico occupato nasconde un più ampio occhio di controllo, per garantire la sicurezza.
Qualcosa oltre quella barriera ti osserva, oltre il muro. Al di là, un altro spazio chiuso. Serrato. Non accessibile. Non vi è traccia di umanità, eppure parla di essa. Qualcuno ha proprietà su quel pezzo di mondo su cui non poggerai i piedi, che parla della libertà non accordata, l’unica verità in grado di accogliere la responsabilità. Mi soffermo allora, e riscrivo quella storia.
Mentre continuo sul familiare percorso sconosciuto, faccio un altro incontro. In quel piccolo universo, tutto sembra aver perso la rotondità, le curve morbide. Da una luna quadrata, spunta un altrettanto squadrato insetto. Su un bel rettangolo bianco sopra di sé scrive: Agone. M’invita ad entrare con la frase successiva: Alea affaccendata.
Rispondo che accetto l’invito al ritorno magari, perché ora non posso fermarmi.
Vado, incedo lungo la strada. Ne vedo molti altri, di quei piccoli rettangoli. Non mi avvicino, ne conosco la forma e il contenuto. Li osservo ma resto lontana per poterne modificare il significante ed il significato. Ora sono piccole api sul tarassaco, macchie indistinte che si riuniscono per formare mille immagini e possibilità.
Sono sogni e speranze, sono le resistenze in cui il conduttore è percorso da corrente alternata. Ora sono una distesa di piante, una resistenza funzionale, in cui chiudono gli stomi, con più di un movimento. E mentre viaggia tra piante e animali nelle sue fasi, la resistenza arriva fino ad altri luoghi, fino al diritto. Resistentia.
«Facciamo una grandissima fatica per salvarci da questi soccombenti e da questi uomini da vicolo cieco, poiché questi soccombenti e questi uomini da vicolo cieco ce la mettono tutta per tiranneggiare il mondo che li circonda e uccidere a poco a poco le persone che li frequentano, mi dissi.»
Thomas Bernhard – Il soccombente
Cammino, un passo dopo l’altro. L’asfalto è ormai dietro le mie spalle. Finalmente i miei passi si muovono sulla terra e l’entrata è quella di un luogo dove le possibilità si diramano in mille colori e direzioni. Ogni angolo è un piccolo grande universo. Subito vedo i mondi dei miei bambini tra i rami, la loro voglia di stare negli spazi sconfinati e infilarsi nelle tane, per cambiare forma. Il silenzio del bosco acquieta un po’ il mio animo. Dopo poco però il grido del nibbio porta il mio sguardo in alto. Lo vedo volare sopra di me. Riporto dentro di me quella libertà, provo a guardare con gli occhi del nibbio. “Pensa a quelli che vivono in appartamento, te sei fortunata in fondo”.
Attento viandante, perché la bellezza del bosco può ingannare. Potresti pensare che tutto è come prima, ma non il sentire che ti raccolta altro e ti riporta al tuo centro, come il grido del nibbio.
«Credo che un bambino cerchi un suo simile in tutti quelli che incontra. E se trova un bambino in un adulto, credo che lo preferisca a chiunque altro. Vorrei poter essere adulto come Ulysses è bambino.»
William Saroyan – La commedia umana
«D’improvviso, l’avvenire esisteva; mi avrebbe cambiata in un’altra che avrebbe detto io e non sarebbe più stata me.»
Simone de Beauvoir – Memorie di una ragazza per bene
Proseguo e seguo il rumore dell’acqua. Finalmente trovo il torrente e le sue cascatelle. Rimango ad ascoltare il suono nel silenzio. Mi viene in mente una frase, ma non ricordo dove l’ho letta.
«Non esiste una reale e oggettiva separazione tra suono e silenzio, ma soltanto tra l’intenzione di ascoltare e quella di non farlo.»
Ascolto ancora. Resto. L’acqua può essere contenuta per un certo tempo, è vero. Conserva però una propria energia cinetica seppur appaia a riposo e in contenimento. Rimane, l’acqua, in questa forma, ma l’energia in potenza le permetterà di cambiare, di essere altro, in accordo con la volontà. Le permetterà di spostarsi, anche di lottare. Cambierà stato, cambierà forma, cambierà luoghi, muterà e sarà libera di farlo.
«Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.»
Fernando Pessoa – il libro dell’inquietudine
Il racconto di E2
Passeggiando senza cani o figli, clandestinamente ed illegalmente a più di 50, 100, 200 mt da casa (non ricordo la norma) ma infrangendo comunque la buona regola dello starsene a casa, mi sono ritrovato sul bordo del fiume T. alla confluenza del torrente V. sul magnifico terrazzo alluvionale che precede di un chilometro l’immissione nel grande P.. Che spettacolo, la natura di aprile nel bosco di rubinie e gelsi ha un sottobosco di luppolo, lamnio rosso e ortiche. Viole e violette e centonchio sono un tappeto che copre a perdita d’occhio gli sfasci dei pioppi che crollati al suolo sono nidi della miriade di larve di insetti che ne fanno il paradiso dei picchi. Merli e gazze, anatre e cormorani e aironi planano fra fagiani, conigli selvatici e cinghiali. La vista si annebbia per la bellezza delle prime foglie e dei fiori in un silenzio impagabile con solo il ronzio degli impollinatori. Fra qualche settimana i rovi renderanno impenetrabile questo paradiso ma ora si può arrivare sino alla riva e scavalcare i rivoli grondanti delle risorgive che caratterizzano tutte le sponde a nord dei fiumi che si gettano nel P scavando bellissime valli a cassetta. E cosa importano le infinite bottiglie di plastica, i fusti e i palloni sgonfi che scricchiolano sotto i piedi, o le piccole discariche di rottami edili e d’amianto, quei terrapieni ammantati di verde splendido di edera tenera che si arrampica fino sulle cime degli olmi più alti, quelle collinette che la città di P. ha deciso di collocare proprio dove l’ansa del fiume ad ogni piena deposita la plastica nuova che arriva e poi lentamente mangia da sotto quella vecchia in una avvincente lotta secolare. Cosa importa delle etichette ormai poco leggibili di prodotti chimici da non disperdere nell’ambiente, farmaceutici e agricoli, dove è rimasta solo una sbiadita X. Le viole le ricoprono assieme ai rovi, le lepri le schivano nei loro invisibili sentieri.
Non è la pagina dell’indignazione ambientalista, è solo la descrizione di quello che abbiamo fatto. Sulle piante ogni tanto appare l’etichetta della Via degli Abati e in tempi meno restrittivi capitava spesso di incontrare smarriti viandanti che sulla Via Francigena vengono indirizzati verso il budello del ponte della B. che marca il millenario bisogno di attraversare il confine fra la natura e la civiltà. No! Non è indignazione, è vergogna e rabbia, ed è una possibile spiegazione della paura che ora ci tiene a casa: guardatevi attorno e chiedetevi cosa c’è di quello che state usando che non è elettrico, che non è prodotto all’estero, che non vi arriva con un tubo, che non se ne va con una raccolta quotidiana, veloce, efficiente ed ora anche diligentemente differenziata. Guardate e capirete perché abbiamo tanta paura, perché non siamo autonomi nemmeno per quelle quattro cose che abbiamo sempre fatto: RESPIRARE, NUTRIRCI, CAGARE E PENSARE.
Senza alcun affetto uno di noi
Se avete avuto il tempo di leggerlo allora prendetevi il tempo e sprecate un foglio per copiarlo e cercate un posto per appenderlo, nella nostra ora di libertà.
Il racconto di V
Ehi baby.
Già con Clapton è semplice. Dici che no, l’aria salmastra tra i capelli.
Sei felice per questo?
Da morirne. Da impazzire di piacere.
Pensa quando sarà finito tutto. Quando sarà finito tutto. Finito tutto cosa esattamente. Che cosa deve finire esattamente.
Diventeremo immortali? Tutti dentro casa mentre il mondo crolla.
Non parlarmi di resilienza che è una parola che odio. Canne al vento.
Io resisto. Accarezzo la solitudine come fosse il mio gatto. La addento e la strappo con i denti come il pane di segale delle mie montagne. Durissimo.
Perché io alla morte ci sono abituata.
Tipo che ci sono certi vicoli con case bianche dove non passa neppure un cane, ecco io lì ci passo e tocco proprio tutti i muri di calce o i portoni di quel verde che sembra nato con la stessa asse con cui hanno fatto la porta, di quei vicoli io annuso l’odore.
Questo broncio stizzito verso la constatazione che l’essere umano è mortale. Terra per i vermi diceva mia nonna, che non faceva torte. Solo torte di sangue, a Novembre quando noi si ammazzava il maiale e fuori c’era la nebbia e si beveva vino rosso a piena gola con un ridere rauco dentro nel petto. Di torte io conosco solo quelle.
Quindi ora devo aspettare che passi il treno a questa stazione dismessa, quasi come determinate ferrovie da paesi dell’est che piacciono soltanto a me, e non passa nessun treno ma io aspetto, poi arrivo a quel bar Sport con i flipper e la Marilyn al calendario della Coca-Cola con la data ferma al 1977 che sembra felice solo in quel bar, senza che nessuno le chieda perché cazzo si sia ammazzata con la fortuna che aveva e soprattutto con quelle tette lì, Dio Marylin come accidenti facevi a non essere felice con quell’oro che ci avevi te?
(Ah bbello, credi sia semplice convivere con la caducità della vita tatuata proprio dove tu vorresti mettere le mani?)
Illustrazione di Chiara Abastanotti
Ecco, adesso io mi siedo con la Marilyn al tavolo più lurido di questo più lurido dei bar e chiedo due birre e le offro una sigaretta non so se Marilyn fumi ma io gliela offro lo stesso.
Miseria che bella che sei vecchia Marilyn con quei due occhi che sembrano stelle che per poco non casco dallo sgabello.
Allora adesso ripartiamo che è il tramonto che te un tramonto così non l’hai visto neppure da quel tuo cazzo di calendario.
E poi riaccendi il vecchio Clapton che un po’ di buon blues non fa mai male.