Quando ci è venuta l’idea delle “escursioni molotov ai tempi della quarantena”, non pensavamo di dar voce a qualcosa di molto più grande di noi. È quello invece che sta accadendo in queste ore e in questi giorni, in cui ci arrivano i racconti di tante “necessarie evasioni”, le voci del desiderio inalienabile dell’aperto, dell’incontro, del movimento.
Ci sembra importante continuare dare spazio a queste voci – continuate a raccontare le vostre evasioni! – perché all’isolamento cui siamo costretti non manchi la dimensione collettiva, perché la narrazione di questo tempo non sia unica e perché se questo è un viaggio, e lo è senz’altro, oggi più che mai si parte e si torna insieme.
Con l’autocertificazione, ovviamente. Al susseguirsi di nuovi moduli, sempre più dettagliati, sempre più precisi, sempre più inutili, abbiamo pensato che non potesse mancare il nostro. Direttamente dal Mistero dell’Ailanto (per ogni riferimento leggete qui) scaricatelo qui e diffondetelo. Se la quarantena #nonsiferma, le escursioni molotov nemmeno.
Insieme ai racconti, inviateci un’immagine (info@alpinismomolotov.org).
Il racconto di N
Un carcinoma al seno in follow up e qualche problema residuo di ipertensione dovuta ai farmaci fanno di me un soggetto a rischio. Sono una privilegiata e posso permettermi il lavoro da casa. Dicono che non dovrei uscire, ma camminare mi ha salvato se non la vita almeno la testa nei momenti peggiori della malattia. E allora mi avventuro nelle strade vuote intorno a casa. Le mie passeggiate rispecchiano l’evolversi dei decreti… Esco quasi ogni giorno però il tragitto diventa sempre più breve e ho il terrore di essere fermata. Maledetto conflitto interiore tra spinta ribelle e educazione da brava signorina! Guardo con sospetto le tribù dei balconi e quelle dei canari pronta a rispondere e a difendere i diritti della tribù dei passeggianti. Nessuno mi dice niente, anzi qualcuno sorride a metri di distanza quando ci si incrocia.
Abito a Roma dietro via delle Sette Chiese, al confine tra Tormarancia e l’Ardeatina. Tormarancia è l’amica bruttina di Garbatella, quella con cui si attacca bottone per ottenere il numero della più bella. I due quartieri nascono a distanza di pochi anni, ma mentre Garbatella si sviluppa a partire da un preciso progetto architettonico, i primi insediamenti di Tormarancia sono soprattutto spontanei, costituiti da baracche in legno o muratura su terreni prevalentemente paludosi e accolgono i cittadini espulsi dal centro di Roma e gli immigrati provenienti dal Sud-Italia. In parte fu anche l’I.C.P. a realizzare delle case (catalogate come “case minime”) composte da una sola stanza, dove vivevano famiglie fino a 10 persone.
Ciò che accomunava le casette rapidissime spontanee e quelle I.C.P. erano i pavimenti in terra battuta, i servizi igienici in comune, e piccoli giardini-orti.
La borgata veniva chiamata Shanghai a causa dei periodici allagamenti, della miseria dei suoi abitanti e delle sue casette basse; venne demolita a partire dal 1948, per costruire le attuali case popolari. Oggi le case popolari resistono abbellite da uno dei primi progetti di street art istituzionale accanto alle ex palazzine di vari Enti degli anni 50 e 60 e a parti più residenziali, quasi di lusso mano a mano che ci si avvicina all’Appia Antica che è qui dietro. Ed è proprio al limite del parco archeologico dell’Appia Antica e della Tenuta di Tormarancia, ultimo pezzetto in ordine di tempo a essere annesso al parco, che mi spingo nelle mie passeggiate più avventurose. Questa è una zona di cave e infatti capita che in alcuni punti del parco ti ritrovi in un piccolo canyon con i suoi precipizi e i rovi a far da cornice al giallo ocra del tufo. Cave antiche, buche riempite negli anni 50 e 60 del novecento dai materiali di scarto delle costruzioni che fervevano in tutta Roma. Le stesse cave trasformate in Catacombe dai primi cristiani di Roma e affollate di turisti prima di questa emergenza: San Callisto, Santa Domitilla, San Sebastiano.
Le stesse cave scelte dal colonnello delle SS Kappler il 24 marzo del 1944 quale luogo della fucilazione dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine, trucidati dai nazisti per rappresaglia all’attentato gappista di via Rasella.
Ogni anno intorno al 24 marzo, anniversario dell’eccidio, dove vivo si organizzano nuovi modi per tenere viva la memoria, dai reading agli incontri nelle scuole per arrivare al corteo che attraversa il territorio e finisce portando un fiore al mausoleo delle Fosse Ardeatine. Cerco di non mancare mai, da quando è nato mio figlio porto anche lui, ci fermiamo insieme a leggere i nomi, alcune storie le sappiamo e ce le raccontiamo ogni volta: « questo è lo zio di Simona mamma? » « lui era il bisnonno di Nicolò » « loro anche vivevano a Garbatella, ti ricordi? ti ho fatto vedere la targa » e poi proseguiamo lasciando un fiore ad ognuno. Il mausoleo è talmente vicino casa che ci capita di andare anche senza un vero motivo, per un saluto, come si vanno a trovare i parenti lontani.
Ci siamo andati tutti insieme poco prima che iniziasse la quarantena, tappa di una passeggiata domenicale a distanze ancora accettabili.
Oggi non ci sarà il corteo, il mausoleo è chiuso e gli assembramenti sono vietatissimi, non si possono portare fiori, e la distanza da casa mia è quasi il triplo dei 200 metri consentiti per la passeggiata. Faremo degli striscioni da attaccare ai balconi, canteremo Bella Ciao e posteremo un po’ di foto sui social… Ognuno resiste come può, pur smarriti cerchiamo di tenere insieme una comunità che fino a oggi è cresciuta grazie a pratiche di vicinanza e incontro reale, che ha chiamato La Strada il proprio centro sociale per rimarcare l’importanza di stare fuori e stare insieme. Io però ci ho pensato e mi sono detta che forse ero una delle poche persone che si sarebbe potuta avvicinare veramente alle Fosse Ardeatine e allora sono uscita prestissimo questa mattina, senza fiori che non so curarli e i vivai sono chiusi, cercando di fare strade secondarie e sono arrivata fino al mausoleo, in realtà sono arrivata al suo muro laterale, ho evitato l’ingresso principale perché come dicevo prima non sono proprio un esempio di coraggio. Accanto al muro, subito prima del mausoleo c’è un pezzetto di prato e oggi ci sono i papaveri, è un po’ presto penso per i papaveri, di solito si vedono a maggio, piccolo indizio di un’altra crisi che è quella climatica, ma oggi ringrazio quei papaveri e ne porto uno fin sotto al muro. Come ogni anno, a salutare, a ringraziare, a ricordare e quest’anno anche a respirare. Tutto va liscio e torno a casa senza problemi, mio figlio si è svegliato e decido che si, ora ci torniamo insieme! Abbiamo fatto un altro giro, lasciato un altro papavero e siamo rientrati a casa.
Ora siamo pronti per il flashmob social, per la candela, per lo striscione e per Bella Ciao.
Il racconto di C
“Il tampone è positivo, la ricoveriamo”. Martedì 17 marzo inizia così la mia reclusione. Dopo una settimana di febbre e di fatica respiratoria il giorno prima mi sono presentato in ospedale. E così ho scoperto di avere un principio di polmonite.
Lunghi giorni, con terapie sperimentali che mi segano le gambe e mi rendono la testa pesante. Clorochina e retrovirali.
Il mondo osservato da una finestra delle tante camere cambiate, prima in medicina d’urgenza, poi in un reparto a bassa intensità. Un ciliegio che fiorisce: penso alle mie api e alla stagione che inizia senza che possa far nulla.
Giorni tutti uguali, tra serie TV e qualche buon libro che sono riuscito, superando tutte le varie trafile burocratiche, a farmi portare. Nove giorni senza un contatto fisico con un essere umano. Una carezza, una stretta di mano, una pacca sulla spalla.
Poi i sintomi spariscono. E dopo nove giorni di ricovero mi dimettono. Senza il tampone. Non so ancora se il virus è ancora presente, o se sono negativo.
Prendo le mie cose ed esco. Mascherina sul viso e guanti blu. Aspetto Elena che mi venga a prendere. Mi guardo intorno. Sono stato su quel letto solo per poco più di una settimana. Ma tutto intorno mi sembra cambiato. La primavera è arrivata prepotente.
Elena arriva. Ci salutiamo con un abbraccio un po’ rigido. Salgo in macchina, piango.
Mi preparo a salutare Alice, Irene e Anna che mi aspettano a casa.
Continuo a guardarmi intorno, guardo le montagne, il Rocciamelone da una parte, il Monviso dall’altra. Quando si potrà tornare lassù?
Arrivo a casa. Cerco di essere più caloroso che posso nel salutare le bimbe: con una mascherina in viso e senza poterle abbracciare non credo però di riuscirci. Anna mi guarda interrogativa, abbasso la mascherina, ride e mi corre incontro alzando le braccia per farsi prendere. Le accarezzo la testa. Continua a tenere le braccia tese. Arriva Elena che la prende.
Prima di entrare in casa ho bisogno di fare due passi. Ho la fortuna di un giardino enorme. Guardo i tulipani e i narcisi fioriti, vado a guardare le gemme che spingono nel gelso che abbiamo piantato in autunno per la nascita di Anna, vicino al tiglio di Irene. Sulla cedonia è pieno di api: per loro non c’è isolamento, chissà se c’è anche qualcuna delle mie lì che bottina.
L’orto è ancora spoglio, avevamo giusto finito di vangare nei giorni in cui è scattato il grande lockdown.
Si avvicina Khaled a salutarmi. Sono arrivati a fine gennaio da un campo profughi nel nord del Libano, dopo essere fuggiti dalla Siria, e adesso si trovano prigionieri qui, insieme a noi. Lo saluto da una giusta distanza con le poche parole di italiano che conosce. Altri della comunità hanno saputo del mio ritorno e scendono a salutarmi.
Continuo il mio giro. Mi avvicino al pollaio. Le galline hanno riniziato a fare uova. Per loro il tempo va avanti.
Va avanti anche il nostro di tempo. Ma so che per altri 15 giorni non potrò uscire di casa. In quanto positivo rischio fino a cinque anni di carcere. Quello vero. Le mie fughe saranno limitate a questo giardino, all’orto, al vivaio. Vado verso casa, guardo gli scarponi davanti all’ingresso, usati l’ultima volta in Valtournache.
Entro e mi chiudo la porta alle spalle. E penso al prossimo lunedì, quando verranno a farmi il tampone e forse potrò tornare ad abbracciare, a baciare, a uscire di casa e a respirare davvero.
Il racconto di T
Il mio carattere mal sopporta le restrizioni dettate da altri.
Le rispetto tutte ora, ma non ho resistito a questa.
Abbiamo deciso per le 1:00
Incontro al solito posto.
Ora è vietato correre se non in “prossimità”. Ma chiunque faccia un po’di running in modo costante sa che un “diecino” è l’uscita minima.
Siamo 2 amici tappati in casa in una piccola cittadina, uscire fuori dal centro abitato è questione di pochi minuti. Sappiamo bene le restrizioni, ma è insopportabile smettere così di correre. Solo alcuni capiranno. Fatelo voi il’workout a casa!
Partiamo con la nostra pila frontale spenta, pochi minuti e siamo già nella strada “di campagna” (evito nomi) asfaltata, ma silenziosa.
Stiamo zitti zitti solo il respiro e i nostri passi di corsa. Forse un km e già sentiamo quella sensazione di libertà… Ci ritroviamo a fare il gesto dell’aereo a braccia larghe respirando aria fredda sembriamo bambini.
Una settimana senza togliere il muso di casa da effetti strani.
A volte i cani passando vicino ad alcune case ci sentono e abbaiano, altri abbai si aggiungono, spegniamo le luci e teniamo la frontale con la lucetta rossa e fievole.
L’aria è fredda, le mani gelano, gli occhi lacrimano, stiamo distanti e sono certo che sorridiamo entrambi.
Arriviamo al punto dove dobbiamo tornare, siamo a 6 km. C’è una fontanella, distanti, senza toccare nulla beviamo un sorso a turno da quel filo d’acqua così bella.
Torniamo, ma qualche minuto camminando. Parliamo e togliamo fuori le preoccupazioni.
Non ci siamo salutati con abbracci strette di mano, stiamo a qualche metro l’uno dall’altro, ma i pensieri e le idee no. Si vede che mal sopportiamo queste regole, pur ritenendole necessarie.
Senza rendercene conto sentiamo freddo e ripartiamo con la corsetta.
Poche centinaia di metri e sentiamo in rumore di un’auto.
Eravamo già d’accordo, velocemente spegniamo le luci e ci nascondiamo. Buio totale e cespugli. L’auto passa e noi in silenzio riprendiamo. Forse una coppietta che si desiderava ha infranto come noi LA LEGGE, forse un custode del ****** o semplicemente qualcuno che abitava là e lavorava sino alle 2, chi lo sa.
Passano ancora km, siamo caldi, l’auto sembra tornare da dietro di noi stavolta.
Allora era davvero una coppia?
Ci nascondiamo, sempre a luci spente vicino ad un cancello. Vestiti così di nero è impossibile vederci.
Quasi ci divertiamo.
Questi momenti di nascondino sono gli unici forse dove non rispettiamo la distanza di sicurezza.
Ormai superata la zona dei cani che abbaiano vediamo già le luci della cittadina, dico al mio compagno di viaggio: “spegniamo un attimo”.
Detto fatto, camminiamo qualche secondo guardando il cielo stellato, limpido godendoci quegli ultimi minuti. Sappiamo che, una volta nelle vie del paese, dovremo dividerci e filare silenziosi verso casa.
Riprendiamo la corsa e raggiungiamo il punto d’incontro. Ci guardiamo, un “pugnetto” virtuale senza toccarci le nocche, un breve “ci sentiamo” ed ognuno per la sua direzione.
L’unico messaggio che ci scambieremo più tardi sarà un semplice GRAZIE AMICO.
Mi sento bene, so che molti giudicheranno questa cosa come una stronzata, ma sono convinto che la rifarei anche semplicemente per vedere la luna riflessa sul mio mare seduto su uno scoglio.
Senza una cazzo di giustificazione!
Mi spiace sentirmi quasi un ladro per una semplice oretta di corsa all’aria aperta.
Le mie colonne d’Ercole le ho superare stanotte ed è la cosa che mi ha fatto sentire più vivo in queste ultime settimane!
Il racconto di I
Lo potrei direi in tanti modi. Che sono una persona che ama la libertà di muoversi, che sono una persona che ama i corpi che si incontrano, che sono una caregiver in lavoro “agile”, che sono una persona normale.
Mi è successo una volta, perché ero triste, ma non avevo le distrazioni che ho di solito. L’impeto di lanciarmi dal balcone in stile batman, salire in macchina (che è pure nera) e fare un giro nel quartiere, fermarmi in un grande parcheggio vuoto e piangere liberamente. Ma non l’ho fatto.
Mi è successo una seconda volta, perché un’amica ha pubblicato un video in cui esprimeva le sue emozioni cantando. Volermi lanciare dal balcone in stile wonder woman, prendere l’auto e raggiungerla a 160km/h, come avrei potuto fare prima, contorcendo lo spazio-tempo. Non l’ho fatto perché lei lo ha fantasticamente contorto rispondendomi: “sono già nella tua macchina”.
Poi mi è successo una terza volta, l’altro ieri, mentre lavoravo. Una riunione era finita prima e avevo mezz’ora prima della successiva. Allora ho deciso che sarei andata al tabacchi qua vicino per resistere. Sarei andata subito. Di giorno. Da un lato sprezzante e dall’altro terrorizzata. Ho inforcato il guinzaglio e ho portato il mio cane con me.
E camminando a passo spedito ho scoperto – indovinate un po’ – che il mondo esisteva ancora. Ed esistevano ancora gli skater. E io a questo skater che è pure cascato in mezzo alla strada volevo dare un abbraccio e fare una proposta di matrimonio, ma mi sono limitata a dirgli che mi aveva svoltato la giornata.
W la resistenza, e lunga vita ai resistenti.
Il racconto di M
Parte 1 Coldelce
Non è che avessimo tutta questa voglia di fermarci, il mio socio ed io, quando ho trovato lo spiazzo giusto, al sole per fare la fotografia alla collina che avevamo di fronte.
Stavamo bene ordinati e precisi su una carrozzabile di ghiaia, tra le querce, il sole davanti, la strada in piano e senza pensieri. Un inizio entusiasmante. La gente aveva cominciato a rimanere a casa per il virus, non eravamo ancora bloccati del tutto, solo le scuole, e c’era chi andava in campagna a fare i lavori giusti: tre o quattro con le motoseghe facevano a pezzi dei cipressi che da tempo meritavano di essere abbattuti, e varie altre storie.
Poi la ghiaia è finita, ci siamo ritrovati nella terra e da un angolo di un rudere è spuntato un uomo: “Lo stradino non c’è più! Ma andate a vedere con i vostri occhi se volete.”
In un paio di minuti siamo finiti nei campi zuppi d’acqua, nel fango e infine nei fossi a sprofondare nell’argilla. Abbiamo rimontato il versante opposto tra canniccio, rovi, ornielli e acacie, fino a un casolare abbandonato (pieno zeppo di cipressi in ottima salute), circondato da reti mezze abbattute, baraccamenti di lamiere e plastiche, scavi vari.
Il percorso è proseguito per lunghi andirivieni, vicoli ciechi, direzioni sbagliate, salite che finiscono nel niente. Ora avevamo un pensiero: tornare al punto di partenza.
Siamo sbucati al cospetto di una baracchetta (con cartello “Osservatorio astronomico”), in vetta al monte Bussetto (417 m), davanti a un cimitero invaso dalle ginestre, in un lungo campo coltivato in pendenza, dove un uomo urlava ai suoi cani da caccia, tirando fuori qualcosa dalla terra e dandogliela in pasto.
Infine, al termine di una lunghissima salita fangosa, abbiamo attraversato una specie di canyon giallo d’arenaria, e siamo giunti alla fine: Ripe di Montelabbate, dove nella siepe della chiesa del paese c’era (e forse c’è ancora) una croce riversa.
Il fatidico giro ad anello di Coldelce si era concluso, certo, non di gran classe! In macchina l’autoradio ci allertava che nel finesettimana qualcosa in Italia sarebbe cambiato, era venerdì 7 marzo (…continua)
***
La campagna non è una passeggiata. Ma una mappa di luoghi agevoli, noiosi, panoramici, selvatici, intricati, bestiali e bui. Credo che in un giro in campagna non debba mancare nessuno di questi elementi.
Il racconto di P
Da giorni mi rifiuto di seguire le notizie, apro i giornali giusto quei pochi minuti per capire se c’è qualcosa che è bene che io sappia (generalmente non c’è), dopodiché chiudo. Per adesso, alla mia seconda settimana di riflessione (bisogna chiamarla così, ora, la reclusione), sono stanca di sentire e leggere una voce unica e acritica.
Cerco inoltre di stare lontana dal sentire e dal cercare tutto quello che mi distrae dall’essere concentrata sul presente, e che possa essere portatore di angoscia, giustificata o meno.
Ho la presunzione di aver capito quel che c’è da capire per il momento, e non voglio nutrire la fragilità di un equilibrio che mi serve ora come non mai. Non ho bisogno di conferme, per ora.
Dedico molte delle mie forze nell’aiutare il prossimo, che sia un amico in preda al terrore (telefonate piene di panico mi arrivano dagli Sprar, dove gli africani che conosco si scambiano video sulla fine del mondo, asteroidi che faranno piazza pulita di tutto ecc.), che sia qualche persona sola che non sa come fare per la sopravvivenza quotidiana: una bella scusa per uscire, come mi ha detto mio fratello, ed è vero.
Ma è anche vero che per me è un modo di fare politica.
In realtà non avevo bisogno di scuse per uscire.
Avevo già deciso di vivere ogni giorno come un’avventura; a volte mi sembra di esser tornata bambina, quando varco il portone di casa, col cuore che batte per la consapevolezza di fare qualcosa che non potrei.
Uscire fa bene.
Con le dovute precauzioni si possono incrociare sguardi, riconoscersi nel sorriso di chi si incrocia, ci sono anche notevoli scambi di battute, e comunque si esce dal pensiero di un umano ormai del tutto addomesticato, in preda alla psicosi: in questo momento percepire il percepibile è utile, e il cuore si nutre.
In città hanno rispolverato gli altoparlanti.
La prima volta mi hanno terrorizzato.
Ero riuscita ad arrivare in un luogo sulle sponde dell’Arno che conoscono in pochi, un po’ imboscato, e a incontrarmi lì con due amici e mentre ci scambiavamo pensieri sulla situazione, sono partiti questi altoparlanti che ci hanno fatto letteralmente cacare sotto. Avevamo lasciato le biciclette in bella vista e avevamo paura che vedendole ci scoprissero e ci sbattessero in galera, con le persone che ci sputavano dalle finestre gridandoci “untori, untori assassini”.
Poi ci siamo resi conto che stavamo esagerando…
… però sono sicura che la prossima volta nasconderemo le biciclette.
Per adesso il luogo più deprimente che ho visitato è la Coop.
Non tanto per le code (per fortuna c’è il sole e visto che l’alternativa sono le mura di casa starsene un po’ all’aperto non è niente male) quanto per il fatto che la Coop è un focolaio di paranoia.
A partire dai guardiani investiti di totale autorità, che oltre a creare un disordine di ordini raccontano ai disperati in fila che se continua così non arriveranno più i rifornimenti perché i camionisti non ce la fanno più, e presto si rimarrà senza cibo.
E poi ci sono le persone in coda, molte delle quali sono uscite costrette dalla paura della fame, e non per prendere una boccata d’aria, che si scambiano tra di loro notizie di virologi, tutti di fama mondiale, e poi ognuno c’ha un amico che lavora in terapia intensiva eppure trova il tempo di fare lunghe telefonate allarmanti, sembra che per tutti sia molto importante trasmettere la propria paura, e che se non vuoi averla passi automaticamente dalla parte del potenziale stragista.
Ma soprattutto regna la rabbia verso il prossimo, che a ben sentire si comporta malissimo, mentre chi in quel momento parla è l’esempio della perfezione, e se fossero tutti come lui non saremmo a questo punto.
Addirittura un tipo ha iniziato a parlare al telefono dicendo all’amico che noi lì in coda eravamo tutti degli imbecilli, e che la gente non si rende conto di nulla, sono pazzi, qualcuno è pure senza guanti e che schifo e che schifo… e lo diceva a voce alta, grazie, gli volevo rispondere ma ho preferito tacere.
Insomma, dopo aver fatto la coda per la spesa, non sono sicura che questa riflessione collettiva stia avvenendo, ma forse serve tempo.
Poi c’è l’angoscia.
L’angoscia mi prende la notte. Non tutte le notti, ma mi sveglia come un allarme e inizio a fare pensieri labirintici che portano tutti a una disperazione intollerabile, allora, siccome ho studiato le tecniche di respiro, le applico con uno sforzo notevole e robotico, che però funziona.
Divorata dal buio e dal silenzio riesco solo ad applicare le basi: 5 tempi di inspirazione sollevando il ventre, 3 tempi di apnea, 9 tempi di espirazione riabbassando l’ombellico. Finche’ non arrivano gli sbadigli.
Da qualche giorno ho capito una cosa che ritengo preziosa.
Cantare dalle finestre è una cosa carina, le emozioni sono sempre importanti, sì sì, certo.
Però secondo me, adesso, la cosa più importante è piangere.
È inutile giraci intorno.
Se è vero che niente sarà come prima, e che la vita che abbiamo, con grande fortuna, condotto fino ad ora è finita, credo che sia importante piangerla per salutarla.
Come succede quando muore una persona che amiamo.
Arriva il momento in cui bisogna accettare e lasciar scorrere il dolore senza timore.
Non so se è una cosa più femminile, ma per me adesso, per avere la forza di lottare nel presente per il futuro, è necessario piangere, salutare quello che fu, pulire l’anima e prepararsi per essere pronti. Pronti a lottare, intendo: per la libertà.
Non che prima fossimo liberi, ma insomma… in questa galera a cielo aperto adesso, sembra proprio che lo siamo quasi stati.
Così la mattina mi sveglio presto, faccio i miei esercizi di pratica Qi Gong, e mentre li faccio medito per piangere.
Vado col respiro e con la voce nei miei luoghi del pianto e lascio scivolare le lacrime.
E piango.
Piango per me, che sono fragile e mortale.
Piango perché non so quando potrò riabbracciare il mio uomo, che è bloccato in un paese lontano.
Piango perché i miei genitori sono degli umani bellissimi, mi hanno insegnato ad essere ribelle.
Piango per chi è all’ospedale, per qualsiasi motivo, abbandonato a se stesso perché i suoi cari non possono entrare.
Piango per chi ha figli piccoli e per chi li sta mettendo al mondo in mezzo a questo lutto, per l‘intensità contraddittoria di questo loro momento.
Piango per i miei nipoti che chissà che umani diventeranno, anche se sono sicura che saranno migliori di quello che finora siamo stati noi.
Piango per tutti i quelli che sono lontani da casa, per il loro terrore.
Piango perché capisco probabilmente SOLO ADESSO in profondità, molte parole lette che mi avevano commosso: le parole dei prigionieri, degli anarchici, dei combattenti, dei bombardati, di tutte le vittime delle guerre e del nostro benessere.
Piango per i luoghi, per gli umani, e piango…
Beh, adesso non voglio fare la lista di tutto ciò per cui piango, ma di roba ce n’è.
Ecco, dopo questo pianto, mi accorgo che a Pisa ci sono migliaia di uccellini che cantano, e che prima non sentivo, mi affaccio alla finestra e li ascolto.
Poi vado a fare colazione, ringraziando, davvero ringraziando per la prima volta in vita mia, il burro, la marmellata, il pane, il caffè e lo zucchero: io ce li ho.
Sono dentro un altro giorno, con tutta la mia presenza.
Il racconto di A
Stamattina sono uscita per accompagnare il gatto dal veterinario. Stanotte è stato poco bene e la mia ansia, unita alla sua patologia respiratoria pregressa, mi ha fatto decidere che quella era la cosa da fare.
Il veterinario, ovviamente, non sta dentro i quattrocento metri da casa previsti dalla nuova ordinanza, saranno almeno quattro chilometri e mentre guido ho la sensazione di essere una latitante, che di per sé non è così spiacevole.
Fatto ciò che andava fatto, usciamo, ci rimettiamo in macchina, Marlene Kuntz e via verso casa. Dopo meno di duecento metri inizio a percepire qualcosa intorno al perimetro che definisce il mio corpo nello spazio. Mi guardo le mani inguainate dal lattice, tolgo la destra dal volante, muovo le dita una dietro l’altra tamburellando l’aria, la riassesto sul volante per poi fare gli stessi gesti con la mano sinistra.
Mi fermo all’incrocio, tanto non passerà nessuno. Sono libera cazzo. Non ci credo. Un ghigno mi storce la bocca, non sono più abituata a ridere.
Sono fuori, ho superato i quattrocento metri. Quand’è stata l’ultima volta? No, questo è impossibile saperlo, il tempo come lo conoscevamo non esiste più dove siamo ora.
Sono libera, sono fuori, e questo è un fatto. Il solo fatto che conta ora. Cazzo ma allora vado al mare. Da quant’è che non vedo il mare? Sì, lo so, non posso sapere manco questo. È un automatismo e, in fondo, non voglio saperlo davvero. Mi basta che sia dentro la mia mente come primo pensiero da fuggiasca.
Quindi siamo d’accordo, andiamo al mare. Al gatto non importa poi molto, ma conosce bene la mia fissa per il mare e mi dà la sua benedizione girandosi dall’altra parte.
Accelero piano per svoltare a sinistra, la strada che avrei fatto comunque per tornare a casa, solo che nessuno sa quello che ho in mente di fare adesso, devo stare molto attenta, non farmi notare. Soprattutto dagli Spettatori alle finestre. Si chiamano così. Quelli vengono addirittura premiati se ti segnalano mentre non stai facendo un bel niente in strada. Gli danno una specie di bonus per ogni avvistamento, arrivati a dieci, gli arriva il riconoscimento di “Cittadino esemplare”, con tanto di pendaglio. Uno un mese fa ci s’è impiccato. Con l’ultima delle dieci segnalazioni, senza accorgersene, aveva fatto arrestare suo figlio che non metteva il naso fuori da mesi. Sarebbe rimasto in carcere sette anni, che su un ragazzo di appena diciott’anni, sono una cifra considerevole.
Per arrivare al mare da dove mi trovo ci saranno cento metri scarsi. Un’eternità. Tutti i nodi possibili contenenti ciò che mi potrebbero dire se mi trovassero mi si accalcano in gola.
– Dove abita lei?
– Ehm, io sono venuta qui col mio gatto, vede dovevo…
– Non le ho chiesto del gatto, voglio sapere dove abita? Cosa ci faceva sulla spiaggia sotto la pioggia con l’ombrello?
– Beh, non volevo bagnarmi, piove molto, di questi tempi è meglio non ammalarsi. ma poi lei che ne sa che ero in spiaggia? Dev’essere stato uno Spettatore maledetto, penso.
– Senta ma mi vuole fare fesso a me? Qui le domande le faccio io. Mi dia i documenti.
– Ehm, ecco, senta va bene se i documenti glieli ficcosuperilculo?
Già mi vedo in gabbia, la gabbia vera però, quella dove, in questa linea temporale sospesa tra il prima che non è più e il dopo che non viene, chi sta dentro deve restare dentro. Non importa se fuori imperversa la pandemia.
E non importa se i secondini escono fuori e portano il coronavirus dentro.
Se eri dentro resti dentro.
E manco più le visite ti faccio arrivare.
I secondini sì, gli amici no.
e se provate a rivoltarvi saranno guai,
Avete visto cos’è successo a Modena, a Rieti, a Bologna?
Qui da noi adesso funziona così. A pensarci bene, è sempre stato così. Di diverso c’è solo che questo virus, con tutte le paure che diffonde, esaspera tutto, e quello che c’era già ora è reso solo più evidente.
Potreste pensare che il mio cervello sia entrato nella stanza degli specchi deformanti della Paranoia.
Ma come? Ma non volevi solo andare al mare?
Sì, è proprio solo al mare che volevo andare. E ci sono andata. Sono scesa, ho chiuso la macchina col gatto dentro, torno presto, gli ho detto. Lui mi ha fatto blink, quel su e giù di palpebre che quando lo fanno vuol dire fiducia, comprensione, fai quello che devi fare.
Mentre cammino ho una visione di me fuori dal mio corpo, mi vedo avanzare attraversata da una corrente che muove le mie gambe. Le guardie sono un pensiero lontano, che non mi riguarda. Che si fottano, se mi fermano gli dirò direttamente questo: fottetevi.
E inizierò a correre, col mare davanti a me, incazzato e complice. Correrò come non ricordavo di essere capace, sarò veloce come quella volta a Ventimiglia, dentro la nebbia dei lacrimogeni il mare non sapevo più dove fosse finito, e correvo, correvo con tutta la paura e la rabbia di cui sono capace, guardando dritto davanti a me all’unico compagno che conoscevo per imitarne le mosse.
Stavolta avrò il mare davanti e non potranno fermarmi.