Filo: A Cesana c’è un blindato fermo sulla strada e un po’ di carabinieri intorno che si sbracciano. «Eccallà, dice Bea, mo ci fermano».
Invece no, il mezzo è in avaria e gli uomini in divisa ammazzano il tempo improvvisando una coreografica quanto inutile orchestrazione del traffico. Peccato ragazzi, non ci vedremo su.
RobertoG: Siamo in cinque in macchina, in viaggio in direzione Claviere. Subito dopo Cesana vediamo un carabiniere sventolare la paletta, pensiamo ad un posto di blocco di disturbo come quelli che vengono abitualmente predisposti per le manfestazioni No Tav, invece stavolta ai carabinieri si è solo rotto il camioncino, che è rimasto bloccato su un viadotto in curva, e i suoi passeggeri in divisa con qualche difficoltà cercano di gestire un senso unico alternato. Noi non lo sappiamo ancora, ma la scena delle forze di polizia che si mettono in mezzo a creare un piccolo disturbo si ripeterà molte volte nel corso della giornata, con fermate temporanee o piccole deviazioni imposte, ma da qui in poi non sarà frutto di un caso, negli altri schieramenti della giornata sarà evidente il desiderio della polizia italiana e della gendarmerie francese di mettere in chiaro il loro punto di vista, ovvero che il confine invalicabile non è quello tra Italia e Francia, ma quello tra ciò che loro scelgono di consentirci o di vietarci.
Filo: Arriviamo, parcheggiamo. Mi sgranchisco le gambe e comincia il mulinello dei saluti. Un compagno di Torino mi racconta di una discussione appena avuta con un DIGOS, pare gli abbia detto che ci imporrano una deviazione. Cominciamo bene.
Perché il concetto è quello. L’Europa è unita e non ha frontiere, apparentemente. Infatti, qui a Claviere c’è pieno di auto con targa francese e sento gente che parla francese e poi inglese e tedesco, e quando saremo di là, a Monginevro, vedrò auto con targa italiana e sentirò sciatori parlare italiano, in realtà è tutto un via vai di gente che passa di qua e di là. Però se organizzi un manifestazione per il libero transito nei territori qualche limitazione già la trovi. Se poi sei nero, senza documenti o con una documentazione insufficiente o di una paese che non ha un accordo con la nazione in cui ti trovi, arrivano i flic, ti acchiappano e ti rispediscono indietro a calci nel culo.
Dico i flic perché qui al confine Nord Ovest il transito – il tentativo di transito – è tutto dall’Italia alla Francia e le nostre forze dell’ordine paiono metterci meno zelo e meno passione dei colleghi d’oltralpe.
RobertoG: Alle partenze mi sembra sempre di essere in pochi. Sarà che mi hanno abituato male le marce notav, ma la strada mi sembra vuota. Si cerca di non farci troppo caso, ci si mette a parlare con qualcuno, si beve un tè, si reincontra qualcun’altro, e quando ci si mette in marcia inspiegabilmente il corteo sembra gonfiarsi ad una dimensione più rassicurante.
Filo: All’inizio sembra che siamo pochi, ma poi via Nazionale si ostruisce di manifestanti. La mia testa continua a inciampare in questa cosa che sto per fare una manifestazione a Claviere, è come quando la catena si scarrella dalla corona della bici. Poi mentre siamo in coda davanti al gazebo di Fornelli in lotta, Alessandra intercetta questa conversazione fra due tizi fasciati in una tuta da sci dall’aria costosa e Gianna, una delle persone che sta distribuendo panini e tè caldo al banchetto. Vicino al cibo c’è un grosso cartello, recita così: sottoscrizione per la rete migranti, panini a offerta libera, minimo due euro. Un messaggio forse un po’ laconico, ma inequivocabile, credo.
Il tizio chiede a Gianna: «Scusi, per cosa è la sottoscrizione?»
Gianna: «Per la rete migranti».
Il tizio: «Cioè?»
Gianna, senza quasi spazientirsi: «Per sostenere i migranti che passano la frontiera».
La tizia dà uno scossone al tizio e fa segno di no con la mano.
E in quel gesto muto ricostruiamo tutta la situazione. Lui legge il cartello in maniera selettiva, panini, due euro. Non si capacita, rilegge, un’altra parola gli balza agli occhi: sottoscrizione. E chiede. Quando Gianna conferma ciò che non può essere recepito in maniera diversa da come è scritto, la tizia perentoria interviene: piuttosto cinque euro a panino in uno di questi bar di frontiera che un solo centesimo per questi zulù.
Anche i ricchi hanno dei princìpi.
A quel punto ho l’illuminazione, ecco perché mi scarrella il cervello. Oggi, finalmente, dopo anni che sogno di vederlo, si concretizza la possibilità di assistere a un corteo non autorizzato di miliardari, magari una contromanifestazione a quella nostra, e questo del panino potrebbe esserne la scintilla scatenante.
RobertoG: Il rumore dei passi sulla neve battuta. Non ci si fa caso, ma lo si sente sempre come un rumore singolo, difficilmente arrivano alle orecchie insieme i suoni dei passi di più di un paio di persone, e se le sequenze di suoni sono abbastanza poche si può distinguerle in base alla loro cadenza. Quando si è in centinaia come oggi invece le sequenze si mischiano, si accavallano, diventano indistinguibili tra loro, e la loro risultante non somiglia più ad un goffo un starnazzo alla Daffy Duck, ma ad un ruggito potente, ancor di più quando riecheggia in un vallone stretto come questo che percorriamo tra Claviere e Monginevro. È questo suono la prima risposta alla supponenza esibita dai gendarmi in tuta da sci, e forse sarà un caso ma nel punto più stretto del vallone tra loro e la testa del corteo c’è qualche decina di metri in più.
Filo: Partiamo e la polizia è schierata a bloccarci la strada. Il corteo piega a sinistra e prende la via che conduce alla pista da fondo. Poco dopo, da sotto parte una gragnuola di palle di neve che va a infrangersi sui blindati. È un’immagine che anche adesso mentre scrivo, undici ore dopo, ha qualcosa di potentemente surreale, come quello stencil famoso del tizio che lancia un mazzo di fiori nel tipico stile Intifada.
Comincia la conta, quanti siamo? Boh, chissà, non è facile dirlo. Io dopo essere stato molto negativo per tutta la fase che ha preceduto la partenza, arrivo ad ammettere che saremo almeno novecento, forse mille. Qualcuno addirittura dice 1500.
Ed è un successo, in ogni caso. Perché, mobilitare tutta questa gente su un tema come quello dei migranti e della libera circolazione delle persone sarebbe stato difficile pure se l’avessimo fatto a Torino. Figurati qui, a 1850 metri di altitudine, a cento chilometri dal capoluogo.
Il crepitio dei passi è incredibile. «È la prima volta anche per me che faccio una manifestazione sulla neve». Lo dico a Luna che è sarda ed è in Piemonte da pochi mesi. Poi ci ripenso e dico: «No, aspe’, mi ricordo un 8 dicembre in Clarea con la neve a terra e Turi scalzo… e di un presidio…»
E poi mi fermo, perché no, nessuna di quelle altre situazioni che mi vengono in mente sono state così. Qui davvero si cammina nella neve e a volte il piede sprofonda e il crepitio, quello dei tuoi scarponi, è moltiplicato per mille.
Il corteo procede sulla pista da fondo. Gli sciatori ci guardano e i loro volti dietro le maschere da sci sono imperscrutabili. Chissà cosa pensano? Pare che ci riservino gli stessi sguardi che gli statunitensi rivolgono ai Leningrad Cowboys. Ci odiano? La nostra presenza pone quesiti o gli stiamo solo rovinando la domenica?
RobertoG: «Ma ci posso salire anch’io?», sarà il decimo che me lo chiede. Il bob su cui viaggia mio figlio decisamente attira l’attenzione, ma dopo una mezz’ora di cammino vedo che qualcun’altro con un bimbo poco più grande ha avuto la stessa idea, altri due o tre bimbi più piccoli invece viaggiano nello zaino e li si nota di meno.
Poco più avanti, più o meno a metà strada, ci sono le partenze di due impianti di risalita. Ci fermiamo alcuni minuti lì a farci vedere dagli sciatori di passaggio, direi con poco risultato, si accorgono di noi solo per il breve attimo in cui gli intralciamo il passaggio e non sembrano porsi il problema di quale sia il motivo per cui siamo lì. Mentre salivamo abbiamo incrociato alcuni sciatori che scendevano verso Claviere, non hanno dato segnali di insofferenza, con l’eccezione di un podista che cercando di aggirarci passando nella neve fresca ci si è impantanato, però non ho visto nemmeno un gesto di solidarietà o di approvazione. Riceviamo la stessa attenzione di un ingorgo in città, solo meno intonati al contesto, un po’ come la macchia nera dei poliziotti in tenuta antisommossa che staziona un centinaio di metri dietro la coda del corteo. I loro colleghi francesi almeno sono senza caschi e scudi, ed esibiscono giaccavento più intonate al luogo.
Filo: Sulla riva scoscesa che ci separa dalla strada – Guarda! Guarda là! – una lepre corre all’impazzata. I cani ululano, abbaiano, le gambe mulinano nella neve alta nello sforzo di raggiungerla. La lepre è smarrita e sembra quasi che vada loro incontro, un suicidio.
Pochi secondi dopo la scena si ripete nella mia testa, solo che è buio e tutti i protagonisti sono esseri umani, i cani sono in divisa e la lepre ha le scarpe da ginnastica. Rabbrividisco.
È perché questo non accada che siamo qui.
Le gendarmerie non è in antisommossa. Sfoggiano una giacchetta blu sportiva ed elegante allo stesso tempo. Alcuni gendarmi sono di colore. E mi viene in mente una battuta di Arizona Dream, quando Johnny Depp dice che un lavoro è come un cappello, puoi avere il culo di fuori, ma quel cappello ti rende rispettabile.
E senz’altro le divise servono a questo, a recidere qualsiasi solidarietà di classe e di provenienza. Quest’abito che indosso, sembrano dire alcuni volti, mi permette di non provare fratellanza o pietà e di eseguire il compito che mi è stato assegnato. Sia pure quello di arrestare un connazionale, un compaesano, un parente, un amico, uno che ha una storia molto simile alla mia o a quella della mia famiglia e respingerlo oltre frontiera.
I cori scanditi sono bilingue, italiano e francese, e così qualcuno scopre che flic equivale a sbirro. A un certo punto io e Bea passiamo sotto un cavalcavia dove un ragazzo lavora veloce di bomboletta, quando si stacca dal muro e si allontana leggiamo: «Les frontières tue». E parte subito il coro: «Il plurale, il plurale!». Il ragazzo, che già si era dileguato, ricompare e aggiunge “nt” al verbo.
Qualche minuto dopo la gente si avvicenda al microfono, siamo tutti fermi vicino alla struttura della vecchia dogana. Il più grande degli striscioni è steso a terra, dalla mia prospettiva non vedo bene cosa ci sia scritto. Lì davanti ci sono due che confabulano e fanno segno alle lettere. Uno dei due alterna l’indice della mano destra prima verso un punto dello striscione e poi un pochino più destra, più volte. Poi l’altro prende uno dei pennelli con cui era stata dipinta la scritta, cancella un accento e lo mette nel punto giusto della parola. La lotta è una scuola.
RobertoG: All’ingresso di Montgenevre poco spiegabilmente i gendarmi si schierano per non farci entrare in paese, prolungando così il bocco del traffico sulla statale. Noi aggiriamo lo schieramento passando dalle piste e raggiungiamo uno dei parcheggi in cui ci fermiamo per un po’ di tempo, giusto quello che serve per “risolvere un piccolo problema logistico”, come dicono dal megafono, poi torniamo indietro verso il posto di frontiera, ritrovando i gendarmi di prima schierati a bloccare un diverso accesso al centro abitato, da cui peraltro noi ci stiamo allontanando. Come nell’incontro precedente partono cori e qualche palla di neve, come la volta precedente qualcuno da dentro il corteo si lamenta del lancio. Questa volta ne distinguo due che hanno una giaccavento con la scritta Rainbow for Africa, uno di loro etichetta il lancio come “violento” e inadatto a un corteo dove ci sono anche bambini. Violento. Siamo di fronte a persone che prendono loro simili che hanno appena rischiato per l’ennesima volta la vita per scavalcare un confine e li riportano alla partenza e qualcuno ha il coraggio di definire una palla di neve “violenza”. Io non gliene tiro perchè per me il lancio di una palla di neve è un atto troppo giocoso per poter essere condiviso con questa gente, ma mi viene da chiedermi se questo discorso sulla violenza sia strumentale a sostenere una posizione o se davvero queste persone credano a quello che dicono.
Passo oltre il punto del battibecco, un po’ più oltre c’è ancora il tempo di bersi un vin brulè davanti alla caserma della gendarmerie e far allungare la coda dei mezzi che aspettano di poter transitare verso la Francia, poi alla spicciolata si torna a valle, sapendo che dopo questo primo di colpi bisognerà batterne molti altri.
Filo: Torniamo giù per la statale. Luna mi racconta dei cortei contro le basi militari in Sardegna: «Alla fine, non è tanto diverso da qui, si fanno in mezzo alla campagna. Solo che da noi non c’è la neve e raramente siamo così tanti. Poi a un certo punto gli sbirri ci chiudono e tanti saluti».
Mentre lo dice io mi volto e mi rendo conto che abbiamo due camionette e un corteo di poliziotti alle spalle e altri davanti, che ci aspettano a Claviere.
«Vedi, le dico, la manovra a tenaglia la conoscono anche qui».
Bea, mentre Luna scatta l’ennesima foto alle seggiovie, la sfotte: «T’abbiamo portato al luna park oggi, eh?».
Gli occhi incollati agli sci e alle tavole che transitano sulla nostra testa e procediamo, controllati a vista e ben scortati.
E il tema oggi è questo. Il movimento.
Mentre il capitale progetta vie sempre più comode, veloci ed efficienti per spostare merci, soldi e “gente che può” (costi quel che costi in termini sociali e ambientali), “quelli che non possono” sperimentano quotidianamente una riduzione della possibilità di libero movimento.
Nostra patria è il mondo intero.
Riprendiamoci il tempo, riprendiamoci lo spazio.
Briser les frontierès.
Segnaliamo la puntata di Picchi di frequenza dedicata alla marcia. Invitiamo all’ascolto: una possibilità per aggiungere altre voci al racconto della giornata.
Tutte le foto sono di Diego Fulcheri, che ringraziamo. L’intero album fotografico della marcia si può visionare qui.