Lord Running Flam: Percorriamo la strada per il Bus de la Lum, incassata tra un campo da golf e un pascolo: due prati tosati, l’uno da umane macchine l’altro da bovine fauci. Ma la differenza che più salta all’occhio è quella tra gli steccati: quello del campo da golf è una normale simbolica staccionata che arriva più o meno all’anca – giusto per far capire ai civili che quella è area riservata – quello del pascolo invece è assurdamente alto, come se le mucche qui saltassero alla Fosbury. Il filo è elettrificato, o meglio, i fili: sono cinque, paralleli, mettici il lampione in cima e le torrette ed è subito Auschwitz-Birkenau. Basta però alzare lo sguardo verso nord ed intravedere le rupi prealpine dell’Alpago che occhieggiano tra le nuvole e la foschia per spazzare via ogni paragone con la desolante piana pre-carpatica, ma la visione del lager accanto al campo da golf mi rimane per il suo potere allegorico. Penso ad altri steccati, altre frontiere non molto lontane, dietro alle quali si ammassano persone ridotte a bestiame mentre proprio accanto pochi benestanti si sollazzano sfacciatamente nel lusso. In mezzo una cospicua fetta di popolazione esclusa dall’élite ma cionondimeno intenta a difendere la frontiera, magari sbraitando contro il governo per un aumento del voltaggio della corrente nei fili. Non posso non ricollegare l’assurdità di questo stato di cose alla buca più grande presso la quale ci stiamo recando, dove è nato un culto – diventato poi religione di stato – per il quale i carnefici diventano vittime: è la chiave di volta di tutti i paradossi degli ultimi tempi, ultimo in ordine di apparizione gli aiuti umanitari ai migranti trasformati in atti criminali da decreti governativi e mass media.
Le spore allucinogene del Cansiglio stanno facendo effetto anche su di me? Beh, le allucinazioni non è che siano maligne a prescindere, possono essere anche ricreative, addirittura rivelatorie, maieutiche. E poi certo, ci sono quelle tossiche, i bad trip, e l’unica cosa peggiore dei bad trip è uno che cerchi di coinvolgere gli altri nel proprio bad trip, tutti gli altri. E da queste parti ci hanno dato dentro, chi l’avrebbe mai detto che un ambiente così bucolico e rilassante celi simili intossicazioni psichedeliche?
Peraltro ognuno di noi, su questo altopiano, ha vissuto esperienze extra-personali, chi ha viaggiato nel tempo, finendo magari nel mezzo della guerra civile spagnola, o magari nei meandri più oscuri del proprio passato, e chi è addirittura entrato in vite altrui. Viaggi enteogenici terapeutici, l’esorcismo passa anche per la psiconautica.
Il Cansiglio per noi…
E ogni volta ci chiediamo
Se quel posto dove andiamo
Non c’inghiotte, e non torniamo più
Tuco: Sul Cansiglio c’ero andato solo una volta, nel 1982 in gita scolastica. Di quella gita ricordo due cose. La prima è di aver tirato un bestemmione durante un litigio con un compagno di classe e di essere stato rimproverato aspramente dalla guida, che aveva anche minacciato di raccontare l’episodio alla prof che ci accompagnava – una specie di nazista che di solito girava per la città in stivali di cuoio nero e con due dobermann al guinzaglio, senza emanare nessun tipo di fascino, per quanto perverso. Avevo passato il resto della giornata a tener d’occhio la guida, controllando che non si avvicinasse troppo alla prof. La seconda cosa che ricordo è il Bus de la Lum. In realtà non l’ho ricordato sempre. Mi è tornato in mente nel 2016, quando abbiamo cominciato a occuparcene nel collettivo Nicoletta Bourbaki. Nel 1982 la foibologia non era ancora diffusa a ovest dell’Isonzo, e il Bus de la Lum era solo un “bus” circondato da una rete in mezzo al bosco: un inghiottitoio carsico, un fenomeno geologico, che i contadini chiamavano “de la lum” (della luce) per via dei fuochi fatui dovuti alle carcasse di animali da pascolo che a volte ci precipitavano dentro.
Pero: Per me il Cansiglio è la montagna di casa. Qui passo almeno una ventina di giorni all’anno con amiche e amici, in molti casi cercando riparo dall’afa della pianura padana. Questa volta però c’è qualcosa di nuovo e di emozionante: sarà la prima volta che andrò in Cansiglio insieme ai compagni e alle compagne dei collettivi Alpinismo Molotov e Nicoletta Bourbaki per una “missione” che ci eravamo ripromessi da molto tempo: visitare e esorcizzare il Bus de la Lum.
Sarà anche la prima volta che lo raggiungerò non partendo dal piccolo paesino della pianura pordenonese dove sono cresciuto, ma arriverò direttamente da Trieste
Lord Running Flam: credo di essere stato sul Cansiglio in un’età in cui un posto vale l’altro, non ho ricordi pregnanti. Ho sempre circumnavigato quell’altopiano, senza mai vederlo, negli innumerevoli viaggi in macchina da Trieste alle Dolomiti. Prima che costruissero gli orrendi e pericolosi piloni della A27 percorrevo con i miei genitori la tortuosissima statale 51 che si arrampica sulla sella del Fadalto, da lì l’altopiano è nascosto dalle dorsali prealpine del Pizzoc e del Millifret. «Là dietro c’è la foresta del Cansiglio» mi dicevano e da come ne parlavano sembrava un luogo magico e misterioso, un bosco sterminato e inaccessibile. Per me il Fadalto, e *l’idea* del Cansiglio ad esso associato, rappresentavano il rituale di passaggio dalla piatta e triste pianura all’avventurosa ed esaltante montagna.
Tuco: Tra il 1982 e il 2017 molte cose sono cambiate, e ora il Bus de la Lum è diventato luogo di messe nere, di riti foibologici e di fumiganti alambicchi in cui si distillano sostanze pestilenziali. Era quindi doveroso che Alpinismo Molotov e Nicoletta Bourbaki facessero una sortita da quelle parti e lasciassero una traccia del loro passaggio, tanto più che eravamo venuti a sapere che proprio il 27 agosto si sarebbe svolta una messa nera sul bordo del bus. E’ nata così l’idea di abbinare un rito di defascistizzazione, simile a quello officiato sulla cima dell’Učka nel 2015, a una scalata su qualche monte dei dintorni. Il programma di massima prevedeva una sortita al bus nel pomeriggio di sabato 26, per lasciare sotto la croce abusiva una copia dell’inchiesta di Lorenzo Filipaz e Nicoletta Bourbaki pubblicata su Giap, e per girare un breve video: una voce fuoricampo avrebbe raccontato della resistenza sul Cansiglio, della brigata Nannetti e dei 3000 e passa nazifascisti che liquidò in combattimento, dei rastrellamenti nazifascisti, delle stragi, e poi delle lisergiche ricostruzioni del biennio ’43/’45 elaborate dalla pubblicistica neofascista e inglobate dalla vulgata nazionalpopolare nell’epoca di Violante e Fini.
Per domenica 27 invece il programma prevedeva la scalata alla cima Manera, nel gruppo del Cavallo. La cima si affaccia direttamente sulla pianura, e nelle giornate limpide da lì la vista spazia fino al delta del Po.
Lord Running Flam: il pretesto per andarci finalmente, in Cansiglio, mi arriva con il progetto di “bonifica” antifascista del Bus de la Lum, un inghiottitoio carsico (perché il Cansiglio è come un Carso rialzato di 700 metri rispetto a quello alle spalle di Trieste) sacro ai nostalgici della Repubblica di Salò i quali proprio all’indomani si ritroveranno a celebrarlo con una messa. Che poi quest’area dopo l’8 settembre del ’43 non era affatto territorio repubblichino: finì infatti sotto giurisdizione/controllo diretto della Wehmacht nell’ambito della Zona di Operazioni Prealpi (OZAV). Non è che cambi molto, anche nel resto della sedicente repubblica sociale i miliziani fascisti non furono che i fantocci dei tedeschi, ma qui – specialmente in Cansiglio – furono complici zelanti di nefandezze particolarmente sanguinarie.
La statale 51 che passa ai piedi dell’altopiano era la principale arteria di collegamento tra la pianura veneta e la Germania (da qui il suo nome: “Alemagna”) e per tenere questa direttrice sgombra da minacce i nazisti non si fecero di certo scrupoli nel passare per le armi chiunque in tutto l’alto bacino del Piave e del Livenza, fossero ragazzini, anziani, anziane, bambini, bambine, addirittura neonati come accadde nel caso del massacro della valle del Biois o di Sarone di Caneva. Con i partigiani e con chi fosse sospettato di aiutarli i nazisti furono particolarmente spietati anche perché la formazione partigiana operante nella zona, la Divisione Nannetti, fu una delle divisioni garibaldine più agguerrite ed efficaci, capace di mettere in seria difficoltà l’occupante tedesco. Per i nazifascisti infierire sui civili inermi fu un puro sfogo quando non riuscivano a colpire il nemico.
Ad ogni modo di primo acchito mi verrebbe da dire che ognuno ha diritto di ricordare i propri morti ma… ma… ci sono almeno due grandi *ma* a inficiare la neutralità di queste facili professioni di pietà: per esempio, tollereremmo mai una commemorazione di foreign fighters italiani caduti per l’ISIS tra il dispiego di vessilli neri? Ecco, i làbari della RSI cosa c’entrano con la pietà?
Ma soprattutto lì sotto, nel Bus de la Lum, NON C’È – NESSUN – MORTO. Il Bus è stato la sepoltura temporanea, per un paio di anni, di alcuni corpi che sono stati poi tumulati velocemente nel vicino cimitero di Càneva (a quanto pare dallo stesso comandante della X MAS Junio Valerio Borghese). Su quella quindicina di corpi (suddivisi in 28 cassette) non mi risulta siano mai stati effettuati rilievi accurati, la verità è che di quei morti non è mai fregato niente a nessuno. Qui la “carità cristiana” invocata dai preti che officiano queste messe nere non c’entra un bel niente, perché altrimenti la celebrazione la farebbero nel cimitero di Càneva.
No, qui si celebra la nascita di un nuovo culto pagano che non ha nulla a che vedere con la misericordia. La stessa data della celebrazione di domani non commemora nulla, nessun evento bellico o storico, se non la messa a dimora della croce nera Silentes loquimur il 29 agosto del 1987 da parte di don Corinno Mares, atto di fondazione di una religione che fa tutto fuorché rispettare i morti, dedita com’è a profanare qualsiasi cadavere o resto osseo, a casaccio o meglio al chilo, pur di denigrare la resistenza e riabilitare gli aguzzini di ieri.
Per capirci: in tempi più recenti un altro adepto di Silentes Loquimur, Antonio Serena, aveva apposto una targa accanto alla croce nera per commemorare la bellezza di 3.463 morti per mano partigiana. Costui aveva semplicemente sommato i caduti avversari conteggiati da un garibaldino della Nannetti nel corso di tre anni di guerra. La vicinanza alla “foiba”, col relativo mito del presunto eccidio, lasciava ad intendere fossero stati precipitati tutti e tremila nell’abisso magari in un unico giorno, una roba da far impallidire le Fosse Ardeatine, come raccontava don Corinno alle scolaresche che portava a catechizzare alla sua religione nera sul bordo dell’abisso. Peraltro sulla targa i caduti erano qualificati come “militari e civili” senza specificare le proporzioni, anche qui con il disonesto scopo di suggestionare il visitatore con l’immagine di veri e propri pogrom che i partigiani avrebbero condotto contro la popolazione locale, come se essi non avessero tratto sostentamento e ricetto proprio da quella stessa popolazione. In realtà in quel conteggio 3.348 erano miliziani delle SS, della Wehrmacht (2.294 tedeschi), delle Brigate Nere, della guardia nazionale repubblicana, della X MAS, delle SS italiane (1.054 “repubblichini”) e solo 115 erano fiancheggiatori del nemico classificati come spie, nell’individuare le quali sicuramente saranno stati commessi anche degli errori in alcuni casi, ma spesso dalla loro neutralizzazione dipendeva la vita o la morte di intere brigate.
Hannibal Lecter che ti dà dell’insensibile. Fan della RSI che ti chiamano negazionista: https://t.co/JaQeMPYJ3N @alpi_molotov
— Ignatius Jota (@Jotadeaqui) 29 agosto 2017
Ma perché questa combo Alpinismo Molotov-Nicoletta Bourbaki? L’intossicazione storiografica qui s’interseca casualmente con la retorica “eroica” alpinistica, essendo il bus de la Lum al centro anche dell’agiografia di Emilio Comici, leggendario arrampicatore triestino che a detta di Severino Casara avrebbe abbandonato la speleologia per l’alpinismo proprio dopo aver esplorato per la prima volta il Bus, scorgendo all’uscita il cimon del Cavallo e scalandolo ipso facto. Se è comprovata la partecipazione di Comici all’esplorazione del pozzo avvenuta nel primo dopoguerra per opera di una spedizione triestina non esiste invece nessuna prova della sua improbabile scalata della cima il giorno stesso.
Il debunking del mito vittimario fascista del Bus de la Lum si accompagna dunque a una più leggera impresa antiretorica, in fondo affettuosamente parodistica, ideale connubio tra Alpinismo Molotov e Nicoletta Bourbaki. È significativa comunque l’attenzione che gli speleologi triestini prestarono a questa zona, sia nelle esplorazioni del primo dopoguerra, sia nel rendersi disponibili a propagandistiche operazioni di recupero nel secondo dopoguerra, esportando di fatto in loco la “foibologia”. Ed è altrettanto significativo che oggi la quota di Alpinismo Molotov presente sia triestina, per la precisione siamo tre veterani sia del Triglav che dell’Učka/Monte Maggiore: il sottoscritto, Tuco e Pino Libero a cui si sono aggiunti i corregionali Pero e Ceghe nonché Jota, primo componente spagnolo del gruppo. Abbiamo appuntamento in loco con un contingente Bourbaki dal Trentino e dall’Alto Adige/Sudtirol, Kurubov e Pagot.
…Ain’t no cure for the Summertime Blues…
Ceghe: I fascisti non sono certo originali. Per il loro pic nic celebrativo sul Cansiglio hanno scelto il week end in cui le strade sono più infestate dai turisti dell’intera stagione estiva. Bollino nero anche per le autostrade forse non a caso.
Jota: Partiamo in macchina da Trieste immersi in una prepotente afa. Solo le chiacchere su foibologie e dintorni permettono distrarre il corpo dall’ambiente circostante.
Tuco: Sabato 26, ore 9:00. Partiamo in sei da Trieste in un’afa che fa venire voglia di strapparsi la pelle di dosso. L’autostrada è un groviglio di auto, camper, roulottes, tutti in coda sotto un cielo bianchiccio e malato.
Pero: Ci troviamo sabato mattina, con i soliti e prevedibili ritardi, consapevoli ma non rassegnati ad affrontare il traffico della A4 in un week-end di fine agosto, quando dal nord Europa molti scendono da Tarvisio per dirigersi verso le località marittime di Grado, Lignano, Bibione e Caorle.
Lord Running Flam: Sabato mattina sono in ritardo come al solito, la mia solita f°*@&$a stampante si rifiuta di stampare i documenti che ci siamo preparati a leggere per la nostra piccola performance al Bus de la Lum, è da ieri che ci armeggio senza venirne a capo. Non capisco se sudo più per il nervosismo o per l’afa soffocante che si sente già di primo mattino. Fanculo, mi porto dietro il pc.
Lungo la strada raccolgo Pero, Jota e infine Tuco. Proprio Jota si offre di stampare i documenti e risolvere il mio psicodramma. Il tempo passa, siamo in ritardo, dobbiamo incontrarci in autostrada con la seconda delle quattro comitive, quella di Pino Libero e Ceghe. Quando raggiungiamo il Lisert, l’inizio dell’autostrada, l’ansia si scioglie in rassegnazione: ci aspetta una fila di 25 km che si muove a passo d’uomo stanco, oltre ai preventivati rientri estivi si è aggiunto un incidente, preventivabile anche quello mi dice Pino Libero al telefono, fatto sta che salta ogni scaletta.
Ceghe: Già la partenza dall’estremo nordest diventa un’odissea con le fiumane di bagnanti che dopo aver inondato le spiagge di Istria, Dalmazia e Quarnero si ritirano come un’onda dalla battigia colmando le autostrade che tracimano di auto, camper e roulotte che talvolta devono persino riversarsi sulle strade statali pur di continuare la propria marcia inesorabile verso le proprie case. “La marcia dei pinguini” andrebbe declinata per i forzati delle ferie estive su quello che fu il Litorale Adriatico. Non perderebbe tragicità e ne guadagnerebbe il grottesco.
Li vedi in improbabili abbigliamenti e atteggiamenti. Piloti sudati con i gomiti appoggiati sul finestrino, piedi in alto dei passeggeri, bambini esausti o agitati sui sedili posteriori magari con un cane. Sazi di sole, mare, forse felici di aver visto la “Croazia” e la “Venezia Giulia” nomi che digeriscono come le orate e i ćevapčići che hanno divorato. La merda gli resterà nel cervello concimato tutto l’anno a semplificazioni, mistificazioni e balle sulla storia del “confine orientale”.
Morale: siamo in coda fin dall’ingresso in autostrada a Redipuglia. Guadagniamo a fatica l’Isonzo, la Soča, in sloveno è femminile. Non possiamo non notare il procedere dei lavori di costruzione dell’elettrodotto che unirà la località del sacrario a Udine. Al di là dell’inutilità dell’opera contro cui si sono battuti comitati locali è devastante l’impatto sulla skyline della pianura friulana. Enormi piloni che svettano più alti dei più alti campanili dei paesi della Bassa e della Bisiacaria. Uno scempio per un panorama celebrato da Byron e Pasolini.
Ma andiamo avanti. Schiviamo la coda in uscita a Latisana e poi su verso nord. Attraversiamo la Livenza. Ora è maschile come Piave, frontiera… tutte femminili prima della Prima guerra, ma D’Annunzio amava le donne ci hanno sempre insegnato.
Tuco: L’estate più calda dal 2003 ha rotto i coglioni a tutti, e non molla l’osso. I fiumi sono in secca, i ghiacciai si stanno sciogliendo, e a Roma piddini e grillini si rimbalzano la colpa del razionamento dell’acqua. Vorremmo trovare un po’ di refrigerio in Cansiglio, ma sappiamo già che farà caldo anche lassù. Dalla pianura le pietraie del Cavallo, puro calcare senza uno straccio di sorgente, ci appaiono circondate da un riverbero fosco e rovente. Usciti dall’autostrada, attraversiamo il labirinto della pedemontana pordenonese: un ammasso di capannoni, una scaracchiata di cemento tra i magredi e il primo ciglione delle prealpi.
Pero: Dopo un viaggio in auto scandito da rallentamenti e cantieri arriviamo a Sacile (PN), prendiamo poi la strada in direzione di Sarone dove inizia la salita che porta alla Piana del Cansiglio. Mentre saliamo ci auguriamo di trovare riparo dall’afa, ma in realtà il caldo non dà tregua neanche a mille metri di altitudine. La salita per me è scandita anche dai mille ricordi che tornano alla mente ogni volta che percorro questa strada, in particolare in prossimità di ristoranti e malghe dove ho passato qualche ora in compagnia di amici a bere vino e mangiare taglieri di formaggi ed affettati.
Ceghe: La strada comincia a salire. Una targa ci ricorda che questa è la strada della Resistenza. Bisognerebbe fare tesoro di questa indicazione.
Tuco: Finalmente cominciamo a salire e mano a mano che ci addentriamo nei boschi di faggi l’umore migliora, i pensieri si rilassano e la gioia di vivere ritorna. Il Cansiglio è un gran bel posto, se solo fosse meno affollato sarebbe un paradiso. Scendiamo dalle macchine e respiriamo a fondo l’odore di conifere e di muschio. Nel grande parcheggio ci incontriamo coi due compagni che arrivano da Trento e Bolzano.
Lord Running Flam: finalmente ci tiriamo fuori dal budello di automobili e camper e iniziamo a salire i tornanti dell’altopiano. Siamo bruscamente catapultati nell’ambiente alpino del Cansiglio passando da uno scenario di turismo di massa internazionale a uno decisamente più provinciale ma non meno coatto. L’afa non dà tregua neanche quassù.
Jota: Dopo un paio di ore di viaggio, la monotona pianura cede il passo alle prime salite del Cansiglio, altopiano di confine tra Belluno, Treviso e Pordenone.
Arriviamo in Piana, un esteso e verde prato rubato al bosco chissà quanti secoli fa. Apprendo che queste terre furono conquistate dalla Repubblica di Venezia, sempre in cerca di legna per la sua pregiatissima flotta. Adesso invece è un posto per turisti, i quali si dividono fra due attività alternative: chi fa sport (trekking, bicicletta, perfino golf in uno squallido campo) e chi mangia in uno dei tanti templi consacrati alla carne, la birra e il formaggio (#NoPlaceForVeganInCansiglio).
Il nostro obbiettivo però riguarda un terzo tipo di individui che si aggiungono ogni tanto alla bucolica scena. Gente a cui piace raccontare storie di morti mai esistiti e di crudeli pratiche mai eseguite.
Nicoletta Molotov: Operazione Sbufalabus
Ceghe: L’altopiano del Cansiglio è colmo di un turismo montano pigro. Bolsi signori appesantiti accompagnati da donne in occhiali scuri che esibiscono vestiti da trekking fiammanti. Qualche testa rasata, tatuaggi pacchiani ed occhiali a goccia compaiono in anticipo di un giorno rispetto al previsto. Anche questi turisti senza memoria però sono pigri. Birra e formaggi di malga venduti come locali catalizzano le loro attenzioni. Nel vicino campo di golf una bandiera rossa beffarda segnala la buca. Non è ancora il Bus de la Lum ma ci siamo quasi. Un cartello ci ricorda come il Bus de la Lum sia anche un sito archeologico.
Tuco: Prima di andare in bosco ci fermiamo al bar, anche per dare un’occhiata alla fauna. Il 90% dei maschi sembrano fasci – ma questo non vuol dire niente, perché il Nordest è fatto così.
Pagot: Siamo di fronte ad una macchina, nel parcheggio di un edificio che “a casa mia” chiamerei forse Buschenschank. Certo, oggi anche i Buschenschank sono moderni, più simili a ristoranti che a malghe di contadini.
Allora, direi che conviene muoverci strategicamente. Due vanno avanti come avanguardia, due stanno in fondo, staccati dal gruppo centrale. Nel caso qualche fascista stia ripulendo la zona.
Mi sembra strano parlare di tattica, quasi dovessimo nasconderci. Nella mia città i fascisti hanno il coraggio dei codardi, ma puoi essere pestato già perché sembri di sinistra, figurarsi se sei conosciuto come antifascista. Devi stare in guardia, evitare alcuni locali e strade. Ma varcati i confini della città… beh, non ci sono così abituato.
Oppure è qualcos’altro. In treno ho letto le prime pagine del mio calibro per la guerriglia culturale di Alpinismo Molotov. Un libro che racconta la storia di una donna morta perché alla guerriglia culturale univa quella vera. La storia di chi non ha perso la propria dignità neanche in prigione, non ha rinunciato alle sue convinzioni nonostante le atroci torture.
Come militante di una causa giusta, mi sarei vergognata di dire ‘Ah’
Sakine Cansiz (Sara) co-fondatrice del #PKK
“Resistenza significa vita”
…e tutta la sua vita è stata una lotta pic.twitter.com/6RxvHyoDfL— #Binxêt aka Bluto (@blutarski_bluto) 9 gennaio 2016
Sakine Cansiz, “Tutta la mia vita è stata una lotta”, Mezopotamien Verlag
Certo, se incontriamo qualche fascista dubito possa finire a dolci carezze. Ma pensando al libro nello zaino mi sembra di giocare, mi sembra assurdo dover aver paura di quattro stronzi solo perché protetti. Poi mi ricordo che i nostri fascisti erano amici di quelli turchi, tutti insieme appassionatamente dentro Gladio.
Penso anche che probabilmente ci sono motivi concreti per essere circospetti. Nei giorni precedenti alla partenza più d’un compagno aveva fatto presente che i fascisti si trovano al Bus de la Lum ogni anno proprio l’ultima domenica di agosto, cioè domani. Quindi è possibile siano già da queste parti, magari per ripulire la zona.
Inizio a preoccuparmi anch’io.
Lord Running Flam: Incontriamo finalmente la terza comitiva, quella trentino-sudtirolese di Pagot e Kurubov, ma abbiamo poco tempo per i convenevoli: Ceghe e Pino devono rincasare entro il pomeriggio. Organizziamo subito un sopralluogo preventivo e inizia il gioco “trova il fascio”. Sappiamo che sono qua attorno, così ci ritroviamo tutti a squadrare ogni turista, a soppesare la lunghezza dei capelli, il colore delle magliette, i pantaloni mimetici e addirittura a valutare parametri quasi lombrosiani: la foggia della mascella, il cranio, lo sguardo. Alcuni ci guardano strano, ma forse è perchè noi li stiamo guardando strano…
C’erano due opzioni possibili per la nostra azione: o l’assalto frontale, l’atto di guerra tipo – chessò – spaccare quella cazzo di croce che da trent’anni asserisce “idee senza parole” ai bordi del Bus, o anche farci una bella scritta con lo spray. In alternativa c’è l’approccio pedagogico, partendo dalla pia idea che questi caproni siano così ignoranti semplicemente perché ignorano e nessuno ha spiegato loro i meccanismi manipolativi della foibologia, sui quali noi triestini siamo particolarmente scafati… cioè, noi triestini antifascisti, praticamente dei mohicani…. o dei cimbri, visto dove ci troviamo.
Alla fine prevale la seconda scelta, la prima sarebbe troppo facilmente strumentalizzabile, e soprattutto non si esorcizza un vittimismo mistificatorio alimentandolo… per questo dobbiamo essere circospetti, per non rovinare tutto e non trasformare una performance significativa in un’insignificante battaglia campale. Abbiamo portato una copia dell’inchiesta di Nicoletta Bourbaki, l’idea – puramente simbolica – è quella di dare loro la possibilità di redimersi. Sappiamo che quelle fotocopie con ogni probabilità finiranno in uno dei cestini della vicina area picnic, se non addirittura nel Bus stesso, senza nemmeno essere sfogliate. Poco importa, oggidì la carta si degrada rapidamente, un video ha più possibilità di rimanere.
Siamo in attesa peraltro dell’ultimo contingente, quello locale, proveniente da Vittorio Veneto. Ma non sappiamo chi aspettarci.
Pero: Arrivati in Piana, dove incontriamo i compagni arrivati dal Trentino-Alto Adige, passiamo qualche minuto nel bar vicino al Bus de La Lum e successivamente ci dirigiamo con una breve passeggiata verso la cavità a fare un sopralluogo. Siamo un po’ nervosi poiché da qualche ora le compagne e i compagni di Vittorio Veneto ci hanno avvisati che domenica ci sarebbe stata una commemorazione dei morti della RSI. Appurato che non c’è nessuno, se non i turisti incuriositi dalla cavità e probabilmente dalle leggende che circolano su di essa iniziamo a preparare tutto il materiale che ci siamo portati, sempre attenti a vedere chi va e chi viene: tiriamo fuori i libri molotov che come da tradizione accompagnano le uscite di Alpinismo Molotov e per ricordare i durissimi combattimenti e i pesanti rastrellamenti dei nazifascisti nella zona leggiamo insieme alcuni brani tratti dai diari di partigiani locali.
Ceghe: Pochi passi a piedi e giungiamo in un’area pic nic. Famiglie festanti schiamazzano, alcuni grassoni esibiscono oscenamente le proprie carni. In questo stesso luogo il giorno dopo i fascisti celebreranno il proprio rito foibologico. Neanche la fatica di salire i pochi metri che mancano al Bus vero e proprio. Una messa dopo un rutto di un ubriaco e prima di una pisciata di un bambino su un albero.
Tuco: Un caffè e poi subito verso il bus, meno di 400 metri di passeggiata. La targa apposta qualche anno fa da Casa Pound non c’è più, evidentemente qualcun altro l’ha già rimossa, chissà quando. L’idea di scriverci sopra due parole a rettifica col pennarello indelebile salta. A un centinaio di metri dal bus c’è l’area picnic, affollatissima. Ci troviamo in mezzo a un via vai di famigliole, coppiette, panzoni in tenuta paramilitare e occhiali a specchio, che dopo la pennichella vanno a farsi due passi fino al bus per digerire le luganighe alla griglia. Il tempo di fare due foto e di montare il trepiedi per la telecamera, che subito dobbiamo interromperci. Per un’oretta giochiamo a rimpiattino coi gitanti.
Pagot: Appena ci muoviamo la cautela lascia però spazio, idealmente, alle Molotov: inconsciamente il passo diventa oratorio. Domani cammineremo per alpinismo, oggi dobbiamo defascistizzare un luogo!
In barba a qualsiasi buonsenso non riusciamo a non dare nell’occhio. Due di noi cominciano addirittura un’accesa discussione sulla guerra civile spagnola. La situazione è tragicomica, perché è pieno di turisti e tutti sembrano fascisti. Al Bus de la Lum si vanno a fare i picnic nella zona attrezzata, tanto per dire “son stato in montagna”. Poi i sussurri dall’aldilà spingono sazie famigliole a spingersi lontane dai tavolini e arrivare fino al bordo del Bus. Il tipo umano che incontriamo è il turistachesembrafascista in modalità “passeggiata digestiva”.
Arriviamo al pozzo scuola, degli speleologi quanto dei foibologi, e ci accorgiamo che manca la targa commemorativa. Cazzo, siam lì per quella!
Non avevamo pianificato di romperla o trafugarla, ma di restituirle il suo contesto allegando l’inchiesta di Lorenzo Filipaz e Nicoletta Bourbaki, Le nuove foibe | Viaggio d’andata al Bus de la Lum e Ritorno in compagnia della X Mas. Riassunto veloce: i morti militari sono nazisti (2.294) e repubblichini (1054), oltre a quindici “spie”. Il numero è di Antonio Serena, che ne “I fantasmi del Cansiglio” attribuisce questi morti alla Divisione Nannetti.
Ma chi è Antonio Serena? È un cittadino veneto attento ai valori tradizionali della famiglia e alla difesa degli anziani, specie se ex-nazisti criminali di guerra. Dopo aver militato in gioventù nell’MSI fu eletto in Senato per la Lega Nord, ma poi si congiunse agli eredi del suo partito d’origine. A causa del suo attivismo pro Erich Priebke, Fini chiese la sua espulsione da AN. Probabilmente si sarebbe comunque dimesso da solo per la sua contrarietà al viaggo di Fini in Israele. Successivamente difese il negazionista Amadruz condannato a un anno per le sue tesi in Svizzera.
Mettere questa targa al limitare dell’inghiottitoio carsico vuole suscitare due reazioni istintive: far credere che i corpi possano essere lì, in una foiba; confondere le acque, mescolare i morti della guerra, erigere i carnefici a vittime e i partigiani ad assassini.
In ogni caso la targa non c’è e continuano a passare panzoni con gli occhiali a specchio e la testa rasata. Meglio tornare più tardi per lasciare l’inchiesta, intanto ci concediamo qualche ora nella malga incontrata prima, ripromettendoci di parlare di qualsiasi cosa tranne che di politica. Rimane solo un intento, ovviamente.
Ma tra i tanti discorsi mi rimane impresso forse quello più leggero. Imparo cosa sia una osmiza: o meglio lo so già, perché è come un Buschenschank. Uguali e al tempo stesso diversi, luoghi simili in lingue diverse. Quanto è mettere confini ed opporre nazionalismi, se qui come altrove siamo tutti uguali.
Jota: Prima di incamminarci verso il Bus de la Lum, ritroviamo gli altri membri del gruppo. L’équipe è completa ormai. Nicoletta Molotov si mette in divisa e tira fuori il suo arsenale, la cui arma principale è una copia stampata dell’inchiesta sul Bus de la Lum, capace di distruggere fasciobufale nel raggio di trecento chilometri.
Ci incamminiamo verso la nostra prima destinazione. La famigerata cavità appare come un buco nero in mezzo ad una galassia di alberi. Il posto è più bello di quanto immaginassi. Una recinzione protegge gli incauti di una caduta potenzialmente fatale. Fra il buco ed il sentiero si alza con arroganza una nera croce coronata dalla pedante scritta ‘SILENTES LOQUIMUR’. Nicoletta Molotov si mette in moto. Controlla l’area circostante per evitare scontri inaspettati e analizza l’informazione ufficiale sul Bus. Cerca un posto tranquillo dove filmarsi.
Piccoli gruppi di curiosi (si può parlare di “turisti” in un posto del genere?) passano, alcuni senza guardarla, altri invece le lanciano sguardi diffidenti, capendo in un certo modo che lei non è una neutrale osservatrice. Una volta finito il lavoro, torniamo giù con una certa tensione nei muscoli. Si sente l’ostilità del posto e di alcune delle persone che ci circondano, il conflitto è tangibile. Decidiamo di rilassarci con un bicchiere di vino e, dopo esserci riforniti di cibo locale, ci incamminiamo verso il nostro rifugio.
Tuco: riusciamo a girare qualcosa, il risultato è questo:
Di lasciare l’inchiesta agganciata alla rete lì in quel bordel, invece, nemmeno parlarne, sparirebbe in mezzo minuto. Due di noi ripartono per Trieste, causa impegni. Anche il compagno di Vittorio Veneto che nel frattempo ci ha raggiunti al bus ci saluta e se ne va. Restiamo in sei. Più tardi, quando la gente è andata via, io e Lord Running Flam facciamo un blitz, attacchiamo un paio di adesivi, agganciamo al filo spinato la busta con l’inchiesta, e facciamo le foto con la bandiera di alpinismo molotov.
Pistoia i fascisti volevano interrompere una messa.
Bus de la Lum un prete ne fa una per la foiba immaginaria.
Dovrebbero leggere di più https://t.co/VFWQXPpNWR— Lorenzo Vianini (@Lorenzo_Vianini) 27 agosto 2017
Lord Running Flam: riusciamo a fare qualche ripresa tra una pausa circospetta e l’altra, ma non riusciamo a farci un’idea se la cosa sia riuscita o meno, con i video è così, tutto dipende dalla postproduzione. Più che i fasci siamo noi stessi a metterci in difficoltà, due di noi si sono lasciati contagiare dal passo oratorio anzi tempo e si sono completamente immersi nella guerra civile spagnola, complici forse le famose proprietà allucinogene del Cansiglio. Facciamo difficoltà a tirarli fuori vivi dagli anni ’30.
Nel frattempo arriva il compagno di Vittorio Veneto e ci riporta al presente, spiegandoci molte cose, ad esempio a proposito della famosa targa, che abbiamo cercato in lungo e in largo: pare sia sparita già un anno fa. Evidentemente qualcun* del circondario con un po’ di più senno inizia a stufarsi di queste stronzate.
Ci accommiatiamo da Ceghe e Pino Libero che devono rientrare e subito dopo io e Tuco ritorniamo al Bus per depositare l’inchiesta imbustata, con quel via-vai non sarebbe durata neanche 5 minuti. Toh! Spuntano anche alcuni adesivi. Particolarmente significativo quello della tifoseria antifascista dell’FC St. Pauli di Amburgo, a rimarcare che non è una questione nazionalistica italiani vs tedeschi. Anche quello di “Ronchi dei Partigiani” fa la sua porca figura, peccato che dureranno solo qualche ora…
anche il St. Pauli contro i nazifoibologi #busdelalum @alpi_molotov @Wu_Ming_Foundt pic.twitter.com/0IsTMDQZXh
— me and the devil (@monster_chonja) 27 agosto 2017
Tuco: Ormai è sera ed è tempo di tornare a baita. In paese abbiamo fatto rifornimento di prelibatezze, ci aspetta una grigliata di quelle che segano le gambe, quel che ci vuole in vista della cima Manera. Si spacca un po’ di legna e si accende il fuoco. Aspettiamo che le bronze siano pronte, bevendo vino e fumando, e chiacchierando di questo e quello, di foibe volanti avvistate nel friuli orientale, di avventure in montagna, di stronzate. Finita la cena mettiamo a posto tutto e andiamo a dormire. La mattina dopo sarà meglio muoverci presto, per non restare bloccati dalla gara di mountain bike che attraverserà il Cansiglio.
Pero: Il tardo pomeriggio e la serata trascorrono cucinando e raccontando la nostra esperienza all’interno dei rispettivi collettivi, confrontandoci su alcuni progetti e temi che vogliamo portare avanti nei prossimi mesi e sorridendo ricordando come sono nati alcuni dei post già pubblicati. Dormiamo in una malga sul versante pordenonese del monte da dove è solitamente visibile tutta la pianura che si estende dal Cansiglio fino alle località balneari dell’alto Adriatico, ma questa serata non ci offre quel panorama così ampio. Quella specie di nebbia creata da afa e umidità ci rende impossibile godere della vista. Riusciamo però a scorgere i principali centri fino alla città di Pordenone, ma l’attenzione si concentra subito sulla grande base della NATO di Aviano (PN), da dove durante le guerre nei Balcani partivano gli aerei che bombardavano la regione. I miei ricordi più vivi sono quelli legati ai bombardamenti in occasione della guerra del Kosovo quando centinaia di aerei ogni giorno partivano da qui e il loro passaggio veniva udito in tutti i paesi e paesini.
La temperatura è talmente alta che per la prima volta, almeno nei miei ricordi, passo l’intera serata senza dover usare una felpa e senza accendere il camino per scaldarmi. Diligentemente andiamo a letto presto, così al mattino saremo carichi e pronti per affrontare la salita che ci porterà a Cima Manera.
Jota: La sera viene dedicata alla chiacchiera, al vino, alla grigliata. Gli argomenti son sempre quelli. Prima di andare a letto mi sembra di conoscere meglio la storia del Bus de la Lum che quella della mia città. Sogno il Bus de la Lum. Notte.
Alpinismo Bourbaki su Cima Manera
Jota: Ci svegliamo con la dolce armonia di una ventina di mucche che, pur avendo un immenso prato a disposizione, hanno deciso che la postazione migliore è sotto la nostra finestra. Ci prepariamo. Le azioni propagandistiche su twitter vanno prima del caffè. Poi il caffè al bar, la brioche. Breve viaggio in macchina e siamo pronti per cominciare la camminata.
ieri pomeriggio #nicolettabourbaki e @alpi_molotov sono passati al bus dela lum e hanno lasciato qualcosa per i fasci che ci andranno oggi. pic.twitter.com/jlERJhhPRb
— me and the devil (@monster_chonja) 27 agosto 2017
Pero: Domenica ci svegliamo, sistemiamo le ultime cose, prepariamo gli zaini e saliamo in macchina per percorrere la strada che ci porta dalla malga all’inizio del sentiero. Il tragitto prevede il passaggio attraverso la Piana del Cansiglio dove ci fermiamo per un caffè. Il bar dove siamo è a meno di un chilometro dal Bus, ma per il momento non vi è traccia di nostalgici, ripartiamo sorridendo pensando a quando troveranno appesa la nostra inchiesta sotto la croce posta vicino alla cavità. Mentre facciamo colazione ci guardiamo ovviamente attorno per cercare di capire se ci sono fasci tra le persone che stanno riempiendo progressivamente la zona.
Risaliti in macchina e dopo aver percorso diversi chilometri in una strada secondaria in mezzo al bosco, dove decine di camper e auto arrivano per prendere le migliori piazzole dove fermarsi per un picnic, arriviamo nei pressi dell’imboccatura del sentiero. Mentre cerchiamo un posteggio gratuito vista la presenza di parcheggi a pagamento, ci rendiamo conto di quante auto sono parcheggiate lungo la strada. A latere discutiamo di quanto sia ridicolo far pagare per un parcheggio in una zona in cui non mancano sicuramente gli spazi, ma oramai i comuni per “far cassa” ricorrono a tutti gli espedienti possibili. Cima Manera è una delle gite classiche per chi vive nelle province limitrofe, per questo a salire troviamo gruppi di amici di qualsiasi età e famiglie. Il sentiero è perfettamente segnato e nonostante le dure pendenze inziali è tranquillamente percorribile, ma il vero “nemico” di giornata è il caldo tanto che lo zero termico viene dato ad oltre 4.500 metri slm. Già alle nove del mattino il sole è alto e fa molto caldo.
Oggi lo zero termico, ancora una volta, a oltre 4.500 m slm.
I ghiacciai lacrimano copiosamente. pic.twitter.com/flLSM4kRvZ— Alpinismo Molotov (@alpi_molotov) 27 agosto 2017
Tuco: Domenica 27, ore 8:00. Saliamo in macchina e cominciamo l’avvicinamento al Cavallo. Sono 14 km di stradine in mezzo a boschi maestosi. Parcheggiamo vicino a un gruppo di malghe e ci infiliamo gli scarponi. E io so già di essere nella merda. I miei scarponi belli sono andati in remengo e me ne sono accorto all’ultimo momento, così ho dovuto prendere gli scarponi di riserva, che però mi sono un po’ piccoli. In salita non ho grossi problemi; alla discesa invece preferisco non pensarci.
Il primo tratto è in piena battutta di sole, in mezzo ai prati. Fa già caldo e io sudo come un cammello. Per fortuna dopo il primo strappo il sentiero entra nel bosco e si respira un po’. Sento una gragnuola di bestemmie dietro di me: è Lord Running Flam, qualcuno deve aver nominato Raul Pupo. Mi piace pensare che le sue bestemmie siano la continuazione delle mie del 1982.
Lord Running Flam: il giorno dopo completiamo la parte dilettevole della due giorni: la salita a Cima Manera dal Cansiglio, precisamente da Malga Plan de Lastre. Forse si chiama Manera per l’effetto che ha sulle gambe? Il sentiero parte in bomba ma non è così erto, è il caldo terrificante che ci zavorra i piedi. Ricordo un’analoga salita con un caldo simile sul Krn-Monte Nero, la ricordo come una delle camminate più estenuanti del mio carnet personale, eppure il sentiero anche allora saliva costante e senza strappi ripidi.
Jota: La strada verso il rifugio Semenza comincia intensamente, un’aggressiva pendenza sotto il sole. Ringraziamo i veneziani che si sono contenuti e non hanno tagliato tutti i faggi della zona. Tappa veloce sotto l’ombra, sorso d’acqua e si riparte. Il gruppo si divide leggermente, ma non si lascia nessuno indietro. Passo oratorio da manuale. Man mano che saliamo, i muscoli si riscaldano, permettendo di goderci con serenità il paesaggio. Di fronte a noi, alte mura verticali di roccia biancastra sulle quali si alza timidamente un gruppetto di cime. “È una di quelle”, indica qualcuno. Guardando indietro, l’immensità del Cansiglio colpisce. Identifichiamo la posizione del Bus, ma non percepiamo alcun segno della assurda messa-rinfresco che dovrebbe avere luogo in quel momento. Una folla di gente sicuramente non c’è.
Lord Running Flam: Dopo un po’ il passo oratorio si trasforma in un più prosaico passo bestemmiatorio, in realtà l’epilogo di quasi tutte le altre salite più impegnative di AM, ma è sorprendente la velocità della metamorfosi stavolta. Nel gruppo serpeggia aria di scoramento, fortunatamente all’improvviso la pendenza si addolcisce e si apre il panorama sul lago di Santa Croce e sulle prime Dolomiti che sbucano oltre la valle del Piave, stento a riconoscerle, sono avvolte da quello che a Trieste chiamiamo forse impropriamente calìgo, una foschia particolarmente densa che di solito è più comune in località marittime. Fa niente, i muscoli si rilassano un po’ così come il cuore si apre: è il momento in cui si scorda la domanda fino allora incessante: «ma chi me l’ha fatto fare».
Kurubov: E poi la sete ho pasà… eh in montagna ci son mica i ruscelli dappertutto.
No non ci sono ruscelli sul Monte Cavallo, proprio no. La testimonianza di Remo Callone mi rimbomba in testa come un monito mentre cerco di mettere un piede davanti all’altro lungo la salita e mi chiedo se l’acqua che ho nella borraccia basterà sino in cima. Sono fuori allenamento, e sapevo fin dall’inizio di esserlo, ma non mi aspettavo di essere così inadeguato alla situazione.
«In Trentino son mica così erte le montagne» mi vien da dire. Che stronzata. Non è che qui son più erte le montagne. Son io che dopo mesi di vita da topo di biblioteca sto provando a fare un mille metri di dislivello nella giornata più calda dell’anno. Finisco per arrancare in coda al gruppo grondando di sudore.
Ce n’era di quelli che andava su come i caprioli, io no, non ero tanto abituato.
Continuano a venirmi in mente le parole di Remo Callone. Lo hanno arruolato nel ’44 nel CST, Corpo di Sicurezza Trentino, la truppa collaborazionista creata dai nazisti con la scusa di «tenere l’ordine» e la promessa che i giovani trentini non sarebbero stati mandati al fronte né coinvolti nella guerra civile che infiamma le province circostanti. E invece il suo reparto lo hanno spedito nel bellunese, proprio sul Cansiglio a dar la caccia ai partigiani. Vengono contattati dai partigiani. Remo non è né particolarmente patriottico né comunista, viene da una famiglia se non benestante almeno capace di dargli da mangiare, canta in un coro. È un trentino tranquillo, come tutti quelli a cui il prefetto De Bertolini promette appunto di poter continuare una vita tranquilla all’ombra della svastica. Non serve esser nazisti. Basta farsi i fatti propri e starsene buoni. Ma nel bellunese è diverso, lì c’è la guerra, ci sono gli spari, i rastrellamenti, la gente impiccata sulle piazze dei paesi, altro che «tenere l’ordine pubblico». L’elmetto tedesco in testa gli pesa più del solito davanti alle case bruciate e alla gente che lo guarda cupa. I partigiani contattano lui e i suoi commilitoni, gli propongono di disertare.
Una notte con un gruppo di commilitoni salta la recinzione del presidio mentre l’ufficiale tedesco e i suoi leccapiedi trentini gli sparano dietro ammazzando uno dei fuggitivi. Guidati dai partigiani che gli han proposto di unirsi a loro si inoltrano nei boschi, quando arrivano alla loro base con ancora la divisa del CST indosso in molti li guardano con odio, li scambiano per prigionieri. Poi si sente chiamare: «mandatemi qui i miei trentini».
È il commissario politico, Montagna. Dice «i miei trentini» ma parla con l’accento romagnolo. Remo non lo sa ma Montagna è Mario Pasi, nativo di Ravenna, ex-ufficiale medico degli alpini, chirurgo dell’ospedale Santa Chiara di Trento, organizzatore del PCI clandestino e commissario politico della Brigata Mazzini, della divisione garibaldina Nino Nannetti.
Una volta dopo aver corso per tre giorni senza mangiare siamo arrivati in un posto dove c’era da mangiare. «cosa c’è da mangiare?» chiediamo. «carne di maiale». Ehh la carne di maiale! Un blocco così, senza sale, dopo tre giorni che non si mangiava. Dopo mi è venuto mal di pancia subito.
Finché si il bosco almeno si respira, ma in una montagna così povera d’acqua il bosco finisce tra i 1.400 e i 1.500 metri. Guardo in su, non so bene dove dobbiamo andare per Cima Manera, ma so che è sui 2.000. Altri 500 metri di dislivello. Mi sento letteralmente sciogliere sotto il sole mentre le gambe si fanno di piombo.
Ci fermiamo, bevo dalla borraccia e noto che mi rimane si e no un terzo dell’acqua. La cosa mi abbatte definitivamente il morale. «Adesso gli dico di lasciarmi qui», si giusto che trovi la mia ignominiosa fine facendomi calpestare dalle arzille signore di mezza età che risalgono il pendio subito dietro di noi. Ma Lord Running Flam mi risparmia la figura di merda mostrandomi la cartina «vedi? Altri 50 metri in su e poi il sentiero procede via dritto». Fantastico un ultimo sforzo e poi in pratica si cammina in piano, almeno rispetto a qui, almeno per un po’.
Tuco: Dopo aver girato intorno a un costone usciamo dal bosco ed entriamo in un vallone completamente privo di alberi. Il sentiero sale a mezza costa tagliando un immenso ghiaione. Cima Manera è già in vista e dopo le prime curve compare anche il rifugio Semenza, su a quota 2000. Arrivati al rifugio, il gruppo si divide. In due si fermano, in quattro continuiamo a salire, dopo aver alleggerito un po’ gli zaini. Dal rifugio alla cima è quasi tutto ghiaione, tranne l’ultimo tratto.
Pero: Dopo circa tre ore di camminata arriviamo al rifugio Semenza a 2020 metri, mi sento molto provato anche se le gambe vanno ancora ma decido di fermarmi e di non proseguire per la cima del monte Manera che si trova relativamente vicina (2251 metri). Mi sento disidratato a causa del gran caldo della giornata che ci ha fatto sudare tantissimo. Mentre gli altri continuano io cerco di riacquisire qualche energia bevendo molto e mangiando.
Jota: Il sentiero si accosta sulla montagna e, dopo qualche tornante, appare il rifugio di fronte a noi. Una piccola casa con due o tre tavolini fuori. Abbastanza integrato nella montagna, tenendo conto del livello di sfruttamento medio delle Alpi.
Una parte del gruppo decide che quella è una meta soddisfacente. Io mi unisco a quelli che vogliono raggiungere la cima, anche se le parole “tratto attrezzato” non mi convincono del tutto.
Kurubov: dopo l’ultima salita si cammina in piano e ormai siamo in quota con una piacevole brezza cha asciuga il sudore anche al sole. Procediamo su un sentiero stretto che si infila tra due alture, la roccia sulla sinistra, ghiaioni sulla destra.
Dopo un buon tratto si riprende a salire, l’ultimo pendio per arrivare al rifugio Semenza sotto Cima Manera. Quando ci arriviamo ci dividiamo, in quattro decidono di raggiungere la cima. Io rinuncio a farmi altri duecento e passa metri di pendio e rimango al rifugio con Pero.
Dopo aver preso dell’acqua seduti all’ombra riflettiamo che si il Cansiglio è boscoso e poco popolato ma qui se vuoi farci la guerriglia devi portarci tutto, compresa ogni maledetta goccia d’acqua, tranne quella piovana che può accumularsi nelle cisterne.
Ricordo che Nelson Mandela nelle sue memorie scrive che una pistola semiautomatica con un centinaio di colpi pesa quanto un neonato. Immagino cosa debba essere risalire una montagna come abbiamo fatto con uno zaino pieno con tutto quello che ti occorre per sopravvivere in spalla e pure il fucile con relativo munizionamento.
Montagna ci ha radunati, saremo stati duemila partigiani e ha detto «ci dobbiam dividere a piccoli gruppi per sfuggire all’accerchiamento. Vedrete che ai tedeschi gliela mettiamo in culo anche stavolta».
Fermato ad un posto di blocco tedesco e riconosciuto da una spia che lo aveva visto aiutare una partoriente, Mario Pasi è stato torturato per mesi e impiccato il 10 marzo 1945 al Bosco dei Castagni sopra Belluno.
Lord Running Flam: al rifugio Semenza alcuni di noi alzano bandiera bianca, mi spiace sempre non arrivare tutti insieme in vetta, tento una debole esortazione, ma il sorriso di chi rimane è più che sereno. Sì, d’altronde anche quella della vetta altro non è che un’ossessione. In quattro decidiamo di perseguirla senza rompere troppo i coglioni a chi legittimamente non la condivide.
Jota: Saliamo dunque. La vegetazione si rinchiude per lasciare ancora più spazio alla roccia. Man mano che saliamo la roccia lascia invece sempre più spazio all’aria. Dopo un paio di divertenti salite su dei ghiaioni (che qualcuno non considera tali), arriviamo su una cresta larga appena un paio di metri. Dall’altro lato, la montagna sembra sparire all’improvviso. Solo vuoto. E giù (giù, giù), la pianura. A questo punto la vecchia e buona vertigine reclama il suo posto. Glielo concedo gentilmente e comunico agli altri che li aspetterò lì. Altri decidono di fare lo stesso. Per fortuna un portabandiera ha la serenità necessaria per continuare gli ultimi cinquanta metri (il famoso “tratto attrezzato”). Così, Alpinismo Molotov corona la cima, la sua bandiera ne è testimone. La vista dalla nostra postazione è comunque spettacolare.
Tuco: Raggiungiamo la cresta e ci fermiamo a riposare. Siamo una trentina di metri sotto la vetta. L’ultimissimo pezzo è un po’ esposto e in tre non ce la sentiamo di continuare. La testa mi dice che non c’è nessun pericolo e che posso proseguire tranquillamente. La panza non è d’accordo. Vince la panza: in vetta ci va solo Lord Running Flam. Venti minuti per salire, scattare un paio di foto e tornare da noi. Mi sento un po’ mona, ma non troppo.
Lord Running Flam: come sempre il percorso è molto più esposto di quanto mi aspettassi, così come non lo è di solito quanto mi aspetto robe assurde. Niente di particolarmente pericoloso se uno rimane in piedi e cammina dritto per una trentina di metri, ma è aereo: parete da una parte e paretina altabbastanzadarompersilossodelcollo dall’altra. Gli altri sono titubanti. Decido di andare avanti a vedere com’è, poi magari gli altri mi seguiranno se se la sentono: c’è un tratto attrezzato brevissimo, me l’aspettavo pur non essendo segnato sulla mappa. Breve ma verticale, salgo su. Non è banalissimo, obbliga a fare un movimento che in arrampicata viene chiamato “sostituzione mista”, niente di che, si tratta di un gioco di spostamento del baricentro tra mani e piedi, ma mi rendo conto che non posso proporglielo agli altri nello stato di tensione in cui si trovano. Vabbé mi tocca andare su da solo, a farmi compagnia solo la bandiera di Alpinismo molotov. La maglietta è quella di #DiversoIlSuorilievo, idealmente tutta la banda disparata sale con me in cima.
Scorgo finalmente la spianata del Friuli, oltre i magredi. In tasca ho un adesivo di Ronchi dei Partigiani. Toh, proprio come quello che campeggiava sulla croce nera del Bus. Trovo che qui sia il luogo giusto per lui e lo stampo sulla vetta. Saluto le care crode che riesco a riconoscere: la cima dei Preti, Il Duranno, il Col nudo, il Pelmo, il Civetta e là da qualche parte c’è l’Antelao… ma da soli c’è poca voglia di perdere tempo a contemplare.
Tuco: Comincia la discesa e per me cominciano i dolori. I miei scarponi di merda si trasformano in stivaletti spagnoli, una tortura senza possibilità di redenzione. Arriviamo al rifugio dove i due sfaticati ci aspettano stravaccati al sole. Mangiamo i panini, beviamo acqua a garganella dalle borracce e ci rimettiamo in cammino.
Jota: Dopo aver raggiunto gli altri al rifugio, decidiamo di scendere da un altro sentiero. “Son sempre più belle le camminate circolari”. Le nostre ginocchia non concordano, dopo mezz’ora di scale rocciose. Alla fine del sentiero, la montagna ci regala un bel pezzo piatto dentro il bosco. Le gambe stanche e la pelle scottata ringraziano.
Pero: Dopo un’oretta il gruppo si ricompone, chi è salito arriva soddisfatto di aver portato la bandiera di Alpinismo Molotov fino alla vetta, anche se qualcuno decide di fermarsi prima viste alcune difficoltà nel tratto di ferrata e il forte vento. Dopo una breve pausa per rifocillarci ripartiamo.
Per scendere decidiamo di prendere un altro sentiero sia per non rifare la strada dell’andata, sia perché pensiamo di trovare un percorso che presenta delle forti pendenze iniziali e che avrebbe dovuto poi spianare molto presto e continuare in piano nel sottobosco per la gran parte della sua lunghezza. Prima di imboccare il bivio facciamo qualche rapido conto sulla distanza che ci separa dal “sasso della Madonna” una grande pietra con sotto un altare votivo che a vista sembra relativamente vicina e che per noi rappresentava la fine della discesa e l’inizio del percorso nel sottobosco. Dopo una mezzoretta il sasso sembra sempre alla stessa distanza e odo alle mie spalle bestemmie e diverse invocazioni alla Santa Vergine, mi sa che qualcuno di noi sta soffrendo molto per la discesa.
Quando raggiungiamo il masso ci fermiamo per una pausa e beviamo gli ultimi litri di acqua che ci sono rimasti. Durante l’ascesa e la discesa non abbiamo incontrato neanche una fonte, subito il pensiero va ai partigiani che combattevano in quelle zone salendo e scendendo quelle creste prive di acqua.
Dopo questo primo tratto il sentiero entrava nel bosco e la larga mulattiera che scende ci ha permesso di camminare appaiati e di continuare le nostre chiacchierate.
Tuco: Decidiamo di scendere per un sentiero diverso da quello fatto all’andata. E’ ripidissimo, e io coi miei piedi doloranti bestemmio il bestemmiabile. Non erano le bestemmie di Lord Running Flam la continuazione della mia del 1982, quindi. Sono le mie adesso, in discesa con gli scarponi stretti, e un’unghia che si sta lentamente maciullando. Facciamo un’altra breve pausa per bere e per pisciare, all’ombra di un enorme masso erratico. Poi ancora un centinaio di metri e raggiungiamo una stradina sterrata quasi in piano: la salvezza. Quando arriviamo alle macchine mi tolgo gli scarponi ed è come rinascere – in questo momento, mentre scrivo, l’unghia è lì lì per staccarsi. Anche gli altri sono abbastanza cotti: siamo tutti completamente disidratati. Raggiungiamo il primo bar e gli vuotiamo letteralmente il frigo: radler, birra, cocacola, acqua, qualunque roba purché sia liquida.
Sono le cinque del pomeriggio e tocca rientrare a Trieste. Altre ore di macchina nel traffico di fine agosto e nella l’afa oscena della pianura friulana. Se volevo mangiare la carne dell’orso, come la chiama Primo Levi, sono rimasto a digiuno. In compenso ho capito a fondo un’altra lezione di cui parla Levi: in guerra la cosa più importante sono le scarpe. “Ma la guerra è finita”. “Guerra è sempre”.
Lord Running Flam: torniamo giù a pezzi o meglio sciolti, liquefatti. Bestemmioni all’andata e bestemmioni al ritorno, nella miglior tradizione molotov. Salutiamo il contingente dell’estremo nord ancora sull’altopiano e anche lo spezzone dell’estremo nordest prende quindi la via di casa, fortunatamente senza le code massacranti del viaggio di andata. In auto tracanno qualcosa come due litri di coca-cola, ricordo un vecchio slogan più o meno ironico secondo il quale bevendo una coca si ammazzerebbe un vietcong… i rutti che trattengo in effetti mi sembrano un bombardamento da b-52, è una bevanda di cui sento bisogno fisiologico solo in condizioni del genere e così, con questo sapore dolciastro-chimico e le allucinazioni da disidratazione inizio a pensare a quali saranno le prime parole del rècit che tradizionalmente AM butta giù dopo imprese del genere.
Pero: Mentre scendiamo verso Sacile l’afa della pianura si fa sentire nuovamente e i capannoni lungo la strada riempiono tutti gli spazi tra un paesino e quello successivo, anche se potrebbe sembrare che i paesi riempiano gli spazi tra le enormi distesi di capannoni e fabbrichette. Imboccata l’autostrada facciamo una sosta per integrare altri liquidi.
Il rientro procede tranquillo, appena iniziamo a vedere il golfo di Trieste abbassiamo i finestrini e l’aria è ancora calda e pesante. Scarichiamo la macchina, ci salutiamo e ci diamo appuntamento alla prossima manifestazione contro il “decoro” organizzata in città.
Jota: Saliamo in macchina. Nella strada di ritorno, passiamo un’ultima volta dalla Piana e salutiamo da lontano il Bus e i suoi fanatici adoratori. Prendo le ultime note sul mio quaderno.
“Bella ‘sta cosa dell’Alpinismo Molotov. Speriamo mi facciano tornare.”
Alpinismo Bourbaki al Rifugio Semenza m. 2.020. (Il rifugio è dedicato a Carlo Semenza, l’ingegnere che progettò la diga del Vajont.
Peraltro il rifugio fu inaugurato nel 1963, pochi mesi prima della poco lontana catastrofe, n.d.r.)
#Barcellona, #Minniti, aviatori fascisti, Bus de la Lum... La Wu Ming Foundation continua il lavoro antifascista - Giap
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[…] scritto un utilissimo resoconto, che ora si può leggere sul blog di Alpinismo Molotov. Si intitola Dall’abisso alla vetta: come Alpinismo Molotov incontrò Nicoletta Bourbaki al Bus del la Lum. Buona […]
emmeti
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Aggiungo una mia piccolissima esperienza al Bus de la Lum: la prima volta che andai in questo luogo magico avevo più o meno 10 anni e sicuramente era una gita con genitori e parenti (estate del 1979 o del 1980). Il “buco” era lì senza recinzioni, ne croci, ne lapidi, c’era solo un cartello di legno che attestava il luogo e ricordo benissimo il racconto di un anziano signore lì presente (e presumo del luogo) che oltre alle leggende delle streghe ci disse di una donna incinta gettata nella forra da cui uscì il pianto del bambino portato in grembo. Indovinate chi gettò la povera donna nel Bus? I Tedeschi! Al che leggendo il vostro resoconto purtroppo ho appreso con orrore la mistificazione degli avvenimenti negli anni a venire…bravi continuate così a sbugiardare questi “paladini” della verità.
Pero
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Credo che questo commento sia sintomatico di come la memoria degli abitanti del Cansiglio si sia spostata nel corso degli anni. Ovvero, si è passati a raccontare storie di donne incinte gettate nel bus dai nazisti alle foibe dei Partigiani.
La nota sul pianto del bambino è un’esemplificazione di come le fonti orali vadano vagliate e inserite in un contesto di ricerca ampia e articolata e non prese a prescindere come verità assoluta.
rita stefani
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Grazie per questo gesto ho visto un tweet di wu ming foundation che ne parlava ed ho letto l’articolo. Conosco bene il cansiglio sono figlia di un partigiano bolognese della Mazzini. Ho visitato assieme a mio padre tutte le zone dove ha combattuto. Grazie ancora rita