La festa di Alpinismo Molotov ha esondato.
Ci aspettavamo centoventi, massimo centocinquanta persone a cena venerdì sera: sono state oltre duecento. E spalti gremiti per le presentazioni e i concerti. Meno male che il Vis Rabbia ha gestito tutto senza problemi. Grandissimi.
Ci aspettavamo di avere venti, trenta persone nelle escursioni. Per il Pertus sono partite più di novanta persone, arrivate in cima poche di meno. Continuavano a spuntare dalle auto e a imboccare il sentiero, così per più di mezzora. Prevedevamo di coordinarci mantenendoci in contatto visivo-vocale, invece ci siamo dispersi su tutto il versante in ogni modo possibile e immaginabile. Spiace dirlo, ma non fosse stato per un noto social media di messaggistica istantanea di gruppo staremmo ancora a cercarci nei boschi.
Ci aspettavamo che Mago Mariano sul Musinè ci parlasse di magia, suggestioni, cose che non esistono. Invece lui ha esordito dicendo che le cose che vengono credute ma non sono reali producono effetti reali. La sera prima un finto allarme in piazza a Torino aveva provocato morti e feriti reali. Magia nera, vera.
Ci aspettavamo continuamente un temporale da un momento all’altro, invece gli unici due che sono arrivati non hanno bagnato nessuno: il primo al rientro dal Pertus quando tutti erano già in auto, il secondo al Vis Rabbia ormai svuotato, striscione smontato, quasi tutti già partiti.
Ci aspettavamo che tutta l’organizzazione avrebbe traballato un po’, era la prima volta, nessuno ce ne avrebbe voluto. Invece, a parte la diaspora del Pertus, tutto è filato liscio, quasi perfetto.
Non ci aspettavamo, forse, di sentire l’interesse e l’affetto di così tanta gente che arrivava un po’ dappertutto. Salendo al Musiné si mescolavano i dialetti e le cadenze, Sicilia e Nordest senza soluzione di continuità. Neeeh?
Non ci aspettavamo che mancassero le parole per raccontare i tre giorni. Perché sono successe tante cose, tutto è andato molto meglio delle migliori previsioni, ma probabilmente le cose più importanti sono successe dentro di noi, più emozione che ragione, e siamo ammutoliti per un po’. Così invece di scrivere subito abbiamo aspettato il tempo di ascoltarci dentro e lasciar decantare. Adesso ci proviamo.
Luca Giunti
Social fin dall’inizio: a dicembre arriva un messaggio su [nota piattaforma di messaggistica istantanea, N.d.R.]. Filo mi avvisa delle decisioni di: organizzare una festa di Alpinismo Molotov, collocarla al VisRabbia di Avigliana, fissarla all’inizio di giugno, immaginare gite per i partecipanti. «Cerchiamo percorsi capaci di aprire contraddizioni e raccontare storie, Storia e paesaggio. Ti va di guidarne una?»
Ma certo, ne sono felicissimo. Perché raccolgo storie, talvolta le racconto, e soprattutto sono un contraddittore nato (“bastian contrario” era l’appellativo, affettuoso ma preoccupato, della nonna toscana; spesso accompagnato da “avvocato delle cause perse”. Antica saggezza contadina.).
Propongo una passeggiata ad anello da Martinetti, frazione di San Giorio, a Banda sopra Villar Focchiardo. Sapendo che vedremo e parleremo di natura addomesticata e risorgente, di boschi coltivati, di cave abbandonate e di certose medievali, suggerisco il titolo Pietre, castagni e santi. Accettato dagli organizzatori con un’adesione fiduciosa che mi commuove.
Mr Mill
La notte prima. A un certo momento tutti i pezzi, ancora sparsi, sono andati a incastrarsi perfettamente uno all’altro. Quasi da non crederci. L’antivigilia di Diverso il suo rilievo ho chiesto a Filo di sentirci al telefono – “Minibriefing telefonico, ce la fai?” – perché avevo bisogno di chiarire a voce con lui, che oltre a proporci la folle idea della festa ha mantenuto i contatti con le compagne e i compagni del Vis Rabbia, alcune questioni organizzative e logistiche dell’ultimo minuto. Ci sentiamo, facciamo il punto. Bònk, ci siamo.
Prima di salutarci, per poi rivederci a breve in quel di Avigliana, gli dico: «Sto aspettando che arrivi il momento in cui pescheremo la carta degli imprevisti, non mi pare possibile che fino a ora tutto sia andato così come avevamo programmato dovesse andare. Siamo stati bravi noi, certo. Ma che non ci sia stata fino a ora una singola roba fuori posto mi mette un po’ d’ansia…». Filo mi tranquillizza, con una sola frase: «Sono sicuro che quando arriverà l’imprevisto lo gestiremo al meglio, viviamoci la festa come viene».
Passano 36 ore, tarda sera del giorno prima dell’inizio della festa, Filo scrive sul gruppo di messaggistica istantanea che abbiamo creato per l’occasione (e che si autodistruggerà poche ore dopo la chiusura della festa) un messaggio: «Sara dice che sto somatizzando le mie insicurezze, in ogni caso, mettetela come vi pare, c’ho febbre, mal di gola, mal di testa e ossa rotte».
Non sarà questo malanno a fermare Filo, lo so. Penso che questa è la prima carta degli imprevisti che esce dal mazzo. Penso che insieme la nostra banda disparata vivrà e gestirà al meglio la festa. Fianco a fianco, per una volta. Corpo a corpo, poco importa se in piena forma o acciaccati.
Andrea
Siamo ad Avigliana presto, io, Moira e mia sorella, totalmente all’oscuro del nostro progetto. Abbiamo appuntamento con Natale per fare un sopralluogo in falesia, arrampicare insomma. Due svolte, un paio di errori di percorso ed eccoci, la giornata è umida, la falesia piuttosto affollata, il caldo respingente; faccio qualche passo alla base delle vie ma le condizioni climatiche unite alla nostra voglia di andare a vedere il luogo della festa – nessuno di noi quattro ci è mai stato – ci fanno presto abbandonare roccia ed idee di scalata.
Arrivo al VisRabbia carico di incertezze: alcuni tuoni, davvero il meteo si sta già guastando (e invece non pioverà mai)? Come sarà il posto? Come andrà questa tre giorni? che gente incontreremo?
Siamo i primi, ci accolgono alcuni ragazzi indaffarati e una coppia di apeini di Milano, hanno un vecchio furgone e sono partiti la sera prima, tutte facce simpatiche.
La prima cosa però, prima di qualsiasi ispezione, è montare il nostro striscione, Natale ha qualche elastico da portapacchi e fettucce a strappo, ci arrangiamo con quelli ma manca uno spezzone di spago, corda o qualcosa che le somigli. Decidiamo di inoltrarci nel Vis per cercare, primi passi sotto la tettoia e profumo, già si cucina per la sera, io perdo tempo e indago il menù ma vengo distratto da una presenza familiare, Piera, una carissima amica che non vedevo da tempo. Abbracci e gioia, comincio a sentirmi a casa, sensazione che non mi abbandonerà più: a causa di svariate circostanze questo è il primo incontro Molotov a cui riesco a partecipare in carne ed ossa, pensavo di dover riprendere le misure, quelle vere, fisiche: buona parte della mia conoscenza dei corpi era virtuale, frutto soltanto di mail, anche se sarebbe interessante avere un contatore e capire quante! Invece tutto è stato così fluido, come se ci conoscessimo tutti davvero, e da tempo.
Edoardo
È venerdì mattina, mentre preparo il caffè sento arrivare le prime notifiche dei cinguettii di @alpi_molotov. In casa dormono ancora tutti. Ho tempo per rosicare. So che questa sensazione di perdermi qualcosa non andrà via per i prossimi tre giorni. Di botto la mente inizia a andare per conto suo. Penso alla nascita di Franz e a quell’estate quando la mia compagna mi propone di andare in montagna. Un classico, mi dico, coi bimbi piccoli dove vuoi andare? Dico sí, senza troppo entusiasmo, ho i geni terroni, il mio paesaggio mentale è il mare. E invece sarà una (ri)scoperta.
Le prime passeggiate con mio suocero, montanaro di città e a suo modo molotov. Mi racconta storie di guerra, mi spiega, mi fa vedere. Poi, l’obbligato pellegrinaggio in un cimitero di paese, alla tomba di Sepp Innerkofler. Continuiamo a uscire a camminare, ho le vertigini e mio suocero fa finta di niente. Poi Point Lenana, dei fili sparsi che sembra che trovino un modo per espandersi tra pubblico e privato, tra storia e esistenza. Un primo post su Giap in cui sento parlare di Alpinismo Molotov, ci voglio capire di più. Un incontro virtuale con tanti compagn* che ne sanno (e ne fanno) molto più di me: posti da vedere, storie, libri, prendo nota, leggo. Qualcuno butta là l’idea di una festa. Ci sarò, mi dico. Cerco di coinvolge amici, c’è tempo per organizzarsi, penso a come collaborare. Nel frattempo la banda disparata immagina, progetta, scrive, produce. Non consuma e non crepa, anzi. Riesce a creare qualcosa che in questo venerdì mattina, dall’afa bassopadana, sembra bellissimo. Hasta la cumbre, compañeros! Ma anche no, non conta la vetta, ma il passo che racconta storie.
Vito66
È venerdì, primo pomeriggio. Siamo appena arrivati al VisRabbia e c’è questo tipo dalla faccia simpatica, guance rosse e voglia di chiacchierare, seduto tre tavoli più in là di noi. Ci dice qualcosa che non ricordo, e noi gli chiediamo del dinamitificio. Risponde.
– Ah, non c’è più nulla ora, han portato via tutto. Quando ero piccolo io, invece… Una volta sono entrato e mi son riempito le tasche di polvere e dinamite. Tornato a casa mio padre mi dice. – svuota le tasche.
– Io lo faccio, e lui raccoglie tutto e andiamo a buttarlo nel lago.
E io ho pensato.
– Sarà mica quel lago balneabile dov’è prevista una gita con tanto di bagno domani?
Bingo.
Wu Ming 1
Un cordone elastico mi riporta in Valsusa con la frequenza media di una volta al mese. Ero qui poche settimane fa, alla marcia No Tav da Bussoleno a San Didero, insieme a molti compagni di Alpinismo Molotov. Sto tornando adesso, per questa bellissima incognita della festa. Sarò di nuovo qui a luglio, per Alta Felicità. Il treno rallenta, vedo il cartello col nome della città, inspiro, espiro, e mi ritrovo per l’ennesima volta ad Avigliana, a valutare quanta distanza ho percorso, alla lettera e figuratamente, da quando ho cominciato a occuparmi di lotta No Tav. E a sentirmi un po’ valsusino anch’io.
Avigliana è stata più volte il mio campo-base. Qui, nel cuore – sul cocuzzolo – del centro storico, c’era l’Ostello del Conte Rosso, gestito da Nicoletta e Marco. Ci ho dormito diverse volte, mentre scrivevo il libro. Anzi, in una camerata del Conte Rosso mi venne l’idea di scriverlo. Era una notte di fine maggio del 2012. Sergio Bianchi ci intrattenne tutti fino a tardissimo con aneddoti sugli anni Settanta, maldestre azioni di lotta armata… Si rideva, poi i «buonanotte», il silenzio, il mio rimuginare su quella valle che ci ospitava e quel movimento che andava avanti da più di vent’anni e aveva portato la valle a nuova vita. Perché proprio in Valsusa? Ricostruire e raccontare quei più-di-vent’anni, per trovare una risposta.
Anni dopo, sempre di notte, sono tornato che in piazza c’era il Palio, anzi, gli ultimi scampoli di baldoria dopo il palio, gente in costume medievale che beveva birra e cantava, e io avevo intervistato qualcuno, e nella stanza ho riascoltato la chiacchierata, le canzoni irrompevano nel flusso e tutto sembrava incantato.
Nicoletta e Marco facevano lo sconto a chi veniva in valle per motivi No Tav, il luogo era “schierato” e forse per questo, nell’ottobre 2012, aveva subito un’incursione vandalica: devastata la reception, rubati duecento euro oltre a libri e altri materiali.
Oggi sul sito dell’ostello c’è questo avviso:
L’Ostello del Conte Rosso chiude i battenti il 31 ottobre 2016, in attesa del bando di affidamento di gestione dell’amministrazione comunale.
Di riposeremo e, se ci aggiudicheremo nuovamente l’ostello, torneremo.Un saluto a tutti gli amici, ospiti e viaggiatori.
Stavolta non dormirò lì, dunque. Mi ospiterà Mecu, un compagno del VisRabbia, nella sua mansarda.
Al VisRabbia sono stato due volte: una volta era chiuso, l’altra volta c’era la festa per il ventennale di Radio Black Out. Un centro sociale dentro il complesso dell’ex-Dinamitificio Nobel, al limitare dei boschi, e alzando lo sguardo ci sono i due monti, il Pirchiriano (con la Sacra di San Michele) e il Musinè.
La prima festa di Alpinismo Molotov. Di tutti i collettivi nati da Giap, AM è quello più basato sull’esperienza di stare insieme in carne e ossa. È letteralmente nato qui in Valsusa, in un altro mese di luglio, mentre si saliva sul Rocciamelone, poi sono seguite altre scarpinate, ma stavolta c’è un “salto”, è la prima volta che gran parte della mailing list organizza insieme un’iniziativa. E che iniziativa! Una festa nazionale.
Vecio
Vis Rabbia. Mi aspettavo un posto “duro e puro”, nei muri e nelle facce. Conosco la bassa Valsusa da quattro decenni e sono riuscito a sbagliarmi ugualmente. Che badòla…
Della rabbia non c’è traccia. Della durezza men che meno. Aria di resistenza sì, magari di quella resilienza che da qualche tempo fa tanto figo citare.
Ma la parola più adatta che mi viene in mente (anzi, senza nemmeno passare dalla mente: direttamente sottocutanea) per tenere insieme un posto pieno di luce ma nascosto in mezzo al bosco, abitato da genti di tutte le età ma indistintamente e imperterritamente giovani, aperti a ospitare bene qualche ventina di decine di persone rendendole tutte automagicamente parte integrante del posto e della situazione, quella parola è garbo.
Wu Ming 1
Dentro AM ci si classifica come «orientali» (soprattutto fauna del Friuli e della Venezia Giulia), «centrali» (fauna della Lombardia), «occidentali» (fauna del Piemonte) e «appenninici» (da Bologna e dal “cratere” marchigiano). Alla stazione non vengono a prendermi due occidentali, ma due centrali, i due camuni, Franco e Andrea. Insieme andiamo a prendere Matteo Melchiorre e la sua compagna Irene. L’appuntamento è nella città alta, proprio davanti al vecchio Ostello del Conte Rosso. Ho incontrato Matteo una volta sola, dodici anni fa, dopo una presentazione di New Thing a Bassano del Grappa. Il suo Requiem per un albero era uscito l’anno prima e ne avevamo scritto su Nandropausa.
Quel libro d’esordio era già molto bello e «ibrido» – e ora Matteo lo sta aggiornando per una nuova edizione – ma nel frattempo di strada ne ha percorsa ancora parecchia: La via di Schenèr è un libro che in inglese definirei mind-boggling, l’ho appena cominciato ma già le prime settanta pagine mettono in fila una quantità di spunti nei quali cerco di mettere ordine, per capire – prima di domani sera – cos’è che tanto mi colpisce in quel modo di scrivere.
Mr Mill
La prima notte. Saranno state le due di notte. Io e Andrea siamo tra i pochi che ancora si aggirano al Vis Rabbia. Prima di avviarci verso i nostri igloo in tela impermeabile decidiamo di passare dall’area dove sono state montate la gran parte delle tende. Il prato adibito a campeggio è ai bordi dello spazio del Vis Rabbia, le tende occupano tutto lo spazio disponibile, posizionate vicine una all’altra, qualche fioca luce illumina gli interni, rumore di cerniere che si chiudono. Un botto di gente, ci diciamo io e Andrea. Evidentemente siamo in cerca dell’ennesima conferma. La festa ha preso avvio dal tardo pomeriggio, sono stati serviti un numero di pasti per la cena che ci ha spiazzato, la presentazione di Alpi ribelli è stata partecipata e viva di interventi, durante i concerti – prima l’Anonima Coristi, poi Wu Ming 2 & Frida X – le gradinate piene, un continuo movimento animato di persone che si spostano negli spazi del Vis Rabbia.
La festa è iniziata nel migliore dei modi, fermi tra le tende, prima di togliere il disturbo, con Andrea ne prendiamo definitivamente atto scambiandoci uno sguardo. Sarà che da quando siamo arrivati, a metà pomeriggio, è stato tutto un vortice di saluti e abbracci, cose da sistemare e definire. Siamo riusciti anche nell’impresa di perderci per le vie di Avigliana, io e Andrea, i due camunisti, mentre recuperavamo Wu Ming 1 in stazione e Matteo Melchiorre e Irene, la sua compagna, che ci aspettavano in Piazza Conte Rosso.
Quando mi infilo nella tenda – che divido con Marco di Ape Brescia, già beatamente perso nel sonno profondo – ripenso a quelle prime ore di festa: della presentazione con Enrico Camanni ho colto solo una piccola parte del molto che è stato detto e discusso, anche i concerti li ho visti e ascoltati solo a tratti. L’Anonima Coristi ci ha offerto l’occasione di una cantata liberatoria, poco importa qualche scivolone nell’intonazione (a rimproverarsene solo alcuni componenti del coro). A chiudere la serata Wu Ming 2 & Frida X: volume alto, voce declamatoria, una bella botta.
Io lo so cosa mi succede in questi casi, penso un po’ scocciato con me stesso, entro in uno stato febbrile di operatività, faccio fatica a star fermo, devo camminare spostandomi da un punto all’altro, anche se tutto sta filando liscio, anche se con le compagne e i compagni stiamo coprendo al meglio tutte le posizioni del campo. E finisce che mi perdo momenti che desideravo vivere con attenzione.
Filo
Questa festa è un ricamo. In questi tre anni di Alpinismo Molotov ognun* di noi ha mostrato dei fili, i suoi fili (i suoi filoni). Ad Avigliana, al VisRabbia, nelle quattro escursioni che abbiamo organizzato, per tre giorni, fili e filoni li abbiamo variamente annodati. Due settimane ormai sono passate e io sono ancora qui a osservare gli intrecci. Ci sono forme sorprendenti che si sono delineate. Non mi aspettavo di vederle, eppure ce le ho davanti agli occhi e ne seguo i contorni con l’indice.
La prima figura comincia a delinearsi nelle parole di Enrico Camanni, le ha pronunciate venerdì 2 giugno durante la presentazione di Alpi ribelli:
Tutto questo finisce con Utrecht, perché quando passa la teoria cartesiana che i confini passano sulle creste delle montagne (e quindi se l’acqua cade di qua è di uno stato e se scende di là è di un altro stato), le montagne smettono di essere il centro e diventano una periferia. Diventano frontiere, diventano barriere. Erano già barriere dal punto di vista naturale, ma non certamente dal punto di vista sociale. Dal ‘700 in avanti si forma quello che conosciamo tutti. Per noi è naturale pensare che dietro quella catena là c’è la Francia, non lo era affatto prima che Cavour cedesse Nizza e la Savoia ai Francesi, perché la Savoia era uno stato intorno alle montagne e quindi il Monte Bianco non era un frontiera, ma era una cerniera, un luogo al centro di qualcos’altro.
Mentre lo dice provo a visualizzare il concetto. Immagino di avere del pongo, lo lavoro, lo scaldo per bene, e gli do la forma di un massiccio montuoso. Poi con due stuzzicadenti punzecchio la pasta e segno i passi di ipotetici viandanti. Traccio sentieri da contadini, magari un po’ più lunghi, ma senza troppi strappi, i più morbidi possibili. La mia montagna di pongo è tutta un ghirigoro. Poi prendo una lama di rasoio di quelle da barbiere e la infilo longitudinalmente nella montagna. la cima si slabbra, i percorsi si interrompono. È questo il post Utrecht? È questo un confine?
RobertoG
«Bonatti in tanti anni di alpinismo non ha mai trovato una giornata di bel tempo» dice Camanni per ironizzare sulla retorica obbligata della sofferenza nella battaglia con l’alpe, e penso a quanto artificiosa mi sembri questa posa, certo figlia dell’impostazione del cattolicesimo italiano, per cui il bene supremo del paradiso non può essere conquistato che con la sofferenza in terra, e dunque per analogia ogni bene rilevante deve essere conquistato soffrendo lungo il percorso che porta ad esso. Penso al fatto che quando ero piccolo e andavo in montagna con mio nonno mi diceva che in salita non si doveva bere, e non ho parole per ringraziare Motti per gli orizzonti che ci ha aperto.
Simonetta
La presentazione del libro Alpi Ribelli con Enrico Camanni è quasi finita. Devo ricordarmi di bere sempre due birrette prima di una presentazione, forse riesco a sembrare meno orso del solito. Il pubblico è attento. Le persone intervengono, fanno domande.
Poi arriva Marco:
– Io sono venuto qui dalle Marche, dalla terra del terremoto. Ha qualche consiglio da darci? Che cosa possiamo fare per… risollevarci?
Credo che Enrico, e noi tutti con lui, avrebbe voluto tantissimo avere una risposta. Io avrei anche voluto semplicemente abbracciarlo, per esempio. Ma mi servivano due birre in più poi avremmo avuto altri problemi.
Nemmeno io ho una risposta ovviamente. Ma forse tutti dovremmo iniziare ad abituarci o a riabituarci a considerare l’Italia un Paese di montagna. Perché oltre alle Alpi c’è un Appennino di cui non si parla mai. Un Appennino meraviglioso che si spopola, un Appennino dalla bellezza nascosta, che viene ignorato prima ancora che trascurato. Ricordiamocelo tutti quando parliamo di montagna: non ci sono solo le Alpi.
L’Appennino (r)esiste e diverso è il suo rilievo.
Enrico Camanni
Il nostro mondo è ben strano. In un mare di cose senza senso ti imbatti in ciambelle con un bel buco, e ti chiedi banalmente perché. Non credo sia mai un caso. L’incontro degli alpinisti molotov è certamente dovuto all’impegno e all’abilità degli organizzatori, ma anche all’intuizione che le montagne – sentimentalmente, politicamente – cementino attitudini e speranze contemporanee. Ad Avigliana ho avuto la dimostrazione che le alture ribelli non sono solo uno slogan o un bel sogno; all’idea di montagna si abbina ancora, certo più oggi di dieci anni fa, una presenza forte e indipendente. L’ombra viva delle cime si allarga sul conformismo delle pianure. Come una luce.
Wu Ming 2 &Frida X on stage
Camilla
A me camminare mette felicità. Farlo insieme ancora di più! Con queste parole ho condiviso sul social blu la foto del numeroso gruppo arrivato ai Quattro Denti. È proprio così, sulla strada, sul cammino che si fa discorso di me e con gli altri, ritrovo il tempo per scoprirmi felice e intessere passi con parole, suoni ed emozioni.
Avevo deciso di partire all’alba da Brescia così da riuscire a raggiungere il gruppo all’inizio del sentiero 810, tre gli amici già alla festa con cui avevo cercato di mettermi in contatto così da capire tempi e spostamenti. Chiaramente i tre baldi uomini non si erano tanto preoccupati di fornire informazioni sapendo della mia tenacia e caparbietà… Quando già stavo per mettere in conto, dato il mio ritardo, di accordarmi alla gita child friendly ecco che mi squilla il telefono, è Franco: «Sì, sono partiti da 10 minuti ma sono in tanti, almeno settanta, ce la fai a raggiungerli!»
Con questa buona notizia, decido di arrivare a Ramats, intanto seguo sulla chat di Ape Brescia l’ascesa di Bendi che ogni 15 minuti manda una foto dal sentiero 810. Con la scusa del mio arrivo decide di rallentare il passo e aspettarmi e proprio così avviene. Al primo gruppo di case riesco a raggiungerlo ed insieme ai compagni del CAZ procediamo lungo il cammino. Da qui in avanti il percorso è compagnia, parole, assaggi culinari dalle terre di provenienza, è fatica, è incrocio, è essere tutti sullo stesso sentiero pur prendendo bivi diversi, è pensare di essere la coda del gruppo e trovarsi al Pertus per primi, è stupore, è bellezza, è orrore per i territori deturpati e consapevolezza che qualche volta l’uomo semplice porta giovamento – come dare acqua ad una valle esposta a sud che non ne ha, è nuvole in arrivo, è voglia dell’arrivo.
La pausa al Grand Pertus e il racconto di Roberto ci danno insieme la misura della nostra comunità in cammino – siamo proprio tanti e alcuni decidono di proseguire per raggiungere la meta – e di come ciascuno possa fare la sua parte all’interno e per il bene di una comunità e di un territorio. Dopo aver ascoltato gli aneddoti su Colombano Romean, sul suo cane, sul compenso e le strane circostanze di morte, proseguiamo per l’ultimo tratto che ci separa dai tanti Denti sparsi sul monte.
Futura Tittaferrante
Serena
Sono in alto, cammino da sola, sono quasi al Pertus – anche se ancora non lo so – e sto bene, mi sento a casa, per nulla fuori luogo.
Ma siamo in tanti qui, oggi. È strano per me che quando penso al camminare in montagna penso all’incedere solitario. Qualcuno lo conosco, tanti sono volti sconosciuti.
Mi fermo a guardare il panorama dall’alto della curva di un tornante. Se guardo in su nella direzione del sentiero, vedo una manciata di persone, invece, più a valle, si intravedono gli altri. Sono puntini colorati tra le fronde degli alberi, sono persone ma sembrano fiori.
Riprendo a camminare, dopo un poco raggiungo il primo gruppo, si è fermato per fare una pausa. Anche se siamo in pochi e non ci conosciamo, l’istinto ci porta a fermarci vicini, insieme.
Scambiamo qualche parola all’ombra:
– Qualcuno vuole un pezzo di cioccolato?
– Dove sono gli altri?
– Quanto manca alla cima?
Si riparte, silenziosi in fila sul sentiero facciamo parlare il nostro passo, ognuno con se stesso e la montagna.
Anche per questo in montagna mi sento bene, perché quando siamo in montagna – concentrati sui passi, con i muscoli attenti – siamo tutti un po’ meno concentrati su noi stessi.
Il gruppo che ha raggiunto i Quattro Denti di Chiomonte
Camilla
L’occhio vorrebbe la sua parte ma la natura – si sa – stupisce sempre, ecco che le nuvole coprono tutte le altre cime, riusciamo a intravedere un nevaio, una cascata e il paesaggio più bello diventiamo noi, in 84 a rifocillarci, chiacchierare, condividere stanchezza e la gioia dell’arrivo.
Enrico Montanari
Guido
[13:44, 3/6/2017] Guido: Io e Paolo stiamo scendendo
[13:44, 3/6/2017] Guido: Già da un po
[13:53, 3/6/2017] Guido: Io e Paolo ci siamo ricongiunti non so come al sentiero di salita e stiamo scendendo da quello
[14:08, 3/6/2017] Guido: Niente come non detto
[14:09, 3/6/2017] Guido: Io e Paolo siamo ufficialmente fuori strada
[14:09, 3/6/2017] Guido: Direi sopra exillles
[14:09, 3/6/2017] Guido: No scusate volevo dire il Cels
[14:09, 3/6/2017] Guido: Credo
[14:09, 3/6/2017] Guido: Boh
[14:09, 3/6/2017] Guido: Chissà
[14:09, 3/6/2017] Guido: Vedremo
[14:09, 3/6/2017] Guido: Ahhaha
[15:02, 3/6/2017] Guido: Noi siamo al Cels e precisamente a Ruinas
[15:02, 3/6/2017] Guido: Ben forniti di vino
[15:02, 3/6/2017] Guido: Nei pressi della chiesa
[15:02, 3/6/2017] Guido: In serena attesa senza alcuna fretta
Wu Ming 1
Mentre tutto questo accade, io non sono né al Pertus né alla Palude dei Mareschi (dove si nascondeva l’Entità negli anni successivi alla vittoria No Tav a Venaus, dal 2006 al 2011, e dal suo antro pilotava il cosiddetto «Osservatorio»).
No, la mia “escursione” è a Villar Dora, al funerale di Elisio Croce.
Elisio Croce è stato sindaco di Villar Dora dal 1990 al 2004. Pioniere della lotta alla grande opera inutile, esempio di amministratore No Tav, ma dire questo sarebbe ancora poco, pochissimo. Operaio alle Officine Moncenisio quando al Consiglio di Fabbrica passò la famosa mozione contro la produzione bellica, inveterato antimilitarista e antifascista, autore di testi teatrali, di poesie e di guide escursionistiche… Quand’è arrivata la notizia, nella mailing list di AM Simone ha scritto:
«Fra le tante passioni di Elisio, l’impegno politico e nelle associazioni, la storia, l’archeologia, c’era anche la montagna e l’alpinismo. Alle montagne qui intorno ha dedicato due libri, vi mando le copertine, che non solo spiegano i sentieri ma raccontano le storie dei luoghi. Mancherà, tanto.
P.s. In Timira c’è uno scambio in piemontese, aveva controllato lui che le parole fossero scritte correttamente».
Ci tenevo ad esserci, ed eccomi. Quando arrivo, una folla enorme straripa dalla chiesa, riempie il sagrato e continua ad affluire. Parte il corteo, e sono migliaia di persone. La banda suona e tra i vari gonfaloni, c’è anche il gonfalone No Tav. Andiamo al cimitero, dove Gigi Richetto non tenta l’impresa impossibile di riassumere una vita ma cerca di rendere l’idea di quante vite abbia vissuto il vecchio (ma mica poi tanto) nonviolento. Lo storico Adriano Viarengo legge una lettera aperta ad Elisio, poi c’è il saluto dell’ANPI.
Mi viene in mente una raccomandazione che ho sentito tante volte: «Chi vuole capire quant’è radicato il movimento nella valle, deve assistere a un funerale No Tav».
Camilla
L’unico corpo che diventiamo in discesa mi colpisce, un lungo serpente di donne e uomini che semplicemente stanno insieme, si supporta reciprocamente tra bacchette prestate e cadute sfiorate. Un corpo unico che cerca di capire e capirsi, di condividere anche strumenti di approfondimento e di lotta.
Arriviamo in piazza, alle macchine e inizia a piovere, acqua e arcobaleni ci accompagnano fino al Vis Rabbia, dove una birra fresca ravviva gli animi e il corpo dalla stanchezza. L’aria di casa e lo stare insieme, la felicità della meta raggiunta, l’aver condiviso un tempo e uno spazio rendono tutto famigliare e piacevole.
L’occasione per noi apeini era importante anche per incontrarci dopo una prima volta a novembre e per provare a confrontarsi e trovare una quadra sul prossimo campeggio apeino. La gioia del vedersi e le mille idee hanno prevalso rispetto agli aspetti più pratici, ma è bello così come quando si rincontrano amici di vecchia data – bisogna innanzitutto raccontarsi.
Filo
Lorenzo e Valentina chiudono il canto. Lasciano che l’applauso scemi, poi Lorenzo dice: «Avete sentito tutti questi lalalà? Questi sono gli scherzi della cultura orale, probabilmente lì c’erano delle parole, ma in qualche passaggio della trasmissione del canto si sono persi».
Non posso fare a meno di ricordare quanto è scritto nella quarta di copertina de La via di Schenèr:
L’archivio induce sempre le domande, dottor Schuster, ma non sempre conserva le risposte; anche in questo assomiglia un poco alla vita.
Le escursioni di Alpinismo Molotov sono questo: un’esplorazione collettiva a caccia, se non di risposte, delle domande necessarie, di quelle che ci servono per interrogare il passato, indagare il presente, immaginare il futuro.
Camilla
Sono tornata a casa piena di entusiasmo e felicità. La consapevolezza che si possono creare sempre più spazi di socialità andando a creare faglie, fratture nella nostra quotidianità ad alta velocità. Forse solo la montagna con il suo diverso rilievo ci può dare un cambio di prospettiva per cercare di far posto ad una nuova umanità.
Mr Mill
Nella mattina dello stesso giorno, anche per non arrivare cotto all’appuntamento della presentazione, mi sono aggregato all’escursione più leggera – nettamente più leggera – dal punto di vista fisico: attraverso la Palude dei Mareschi per giungere poi alla sponda del Lago Grande di Avigliana. Siamo tra i venticinque e i trenta partecipanti, una buona parte bambine e bambini. Con noi anche Armin, Roberto e Maurizio, rispettivamente regista, produttore e fonico di un progetto cinematografico sulla comunità dei giapster e le sue diramazioni.
Filo
Venerdì sera ho incontrato Matteo Melchiorre, mi sono presentato e gli ho detto subito che il suo libro mi era piaciuto un casino.
«Poi domani ci mettiamo d’accordo per la presentazione, ma nel frattempo ti voglio dire che ci sono due temi che ho trovato illuminanti e che mi si sono palesati come strumenti concettuali da utilizzare anche altrove: quando dici che una strada non è solo UNA strada e quando dici che il confine non è una linea, ma un’area in cui soggetti diversi vivono una vita strettamente connessa».
Tornai al monte Pavione, a quella volta che vidi il mare da una parte e le montagne dell’Austria dall’altra. Le carte dei notai mi avevano fatto comprendere che quanto allora avevo visto estendersi intorno e sotto di me era tutto un mondo di confine. Gli uomini, gli interessi politici, le iniziative economiche fluivano liquide in entrambe le direzioni, da nord a sud e viceversa, sormontando confini e ramificandosi come rigagnoli fra valli, passi montagne. Insomma, mondi confine: essere solvente ed essere colla. […] Un confine, mi dissi, non è dunque la mera linea a cui pensavo quella notte (…), ma una fetta spessa di territorio. (La via di Schenèr, Marsilio, 2016, p. 77)
Siamo noi, binaristi, che cerchiamo sempre di dividere ciò che in realtà è unito. Il lavoro di Melchiorre restituisce vita e tangibilità a quella via lì, tagliata sull’orrido del Cismon, e la rivela per ciò che è stata: l’asse di comunicazione di due comunità che a dispetto del confine avevano concretissima necessità di incontrarsi.
Mr Mill
Il progetto è in fase di pre-produzione, ma l’occasione della festa di Alpinismo Molotov è stata colta per un primo giro di mutue presentazioni. Sulla sponda del lago, mentre il gruppo si rinfresca nell’acqua, Roberto chiede a me e Andrea di raccontargli il nostro rapporto con la montagna, com’è nato, cosa ha significato. Ascoltando quel che racconta Andrea, giungo a chiarire la mia risposta a queste domande: il mio è stato un rapporto mediato principalmente dalla cultura materiale legata alle attività quotidiane del vivere nelle e sulle montagne. Sono cresciuto in una famiglia di cacciatori, il padre di mia madre in montagna liberava le capre, in estate le sue – poche – mucche salivano in alpeggio. La montagna a me più familiare è quella autunnale, è quella che non sale oltre i duemila metri di quota, la montagna i cui declivi sono coperti da boschi di ontani, carpini e conifere. La passione per l’escursionismo, l’andare dal punto A al punto B, magari per raggiungere una cima, seguendo sentieri mappati e segnalati, è arrivata molto dopo. Il mio ambiente ideale, quello dove mi sento più a mio agio, è il bosco.
Filo
Sabato allo stesso tavolo ci siamo Mr Mill, Matteo Melchiorre, la sua compagna ed io. Mr Mill chiede a Matteo: – Quando ti presento dico che sei di Tomo?
– Certo! – fa lui.
– Ma preferisci Tomo o Feltre?
– Tomo!
Nei suoi libri Matteo marchia Feltre, di cui Tomo è frazione, in vari modi: città in miniatura, piccolissima città, subcittà. Come a dire “infimo centro di potere”. Ma non basta, in questi giorni sto leggendo l’altro libro suo, La banda della supestrada Fenadora-Anzù, Matteo mette in bocca ai suoi eroici e patetici sovversivi una indicazione identitaria che mi ha fatto vibrare, mi ha fatto riconoscere: «noi liminari» dicono.
Wu Ming 1
«Noi liminari». Ho capito, finalmente, cosa davvero mi sta intrigando (anche nell’accezione del verbo tipica delle mie parti: cosa mi si sta incastrando dentro) ne La via di Schenèr. Alla presentazione, mi alzo, raggiungo il microfono e lo dico.
– Il libro mi sta entusiasmando perché hai la continua conferma e sorpresa al tempo stesso, riconosco i miei stessi crucci, le mie stesse euforie, come si dice nel Nordest (e mi ci metto in quanto del basso Ferrarese) «mi ride anche il culo», quando senti quel pizzicorino… Riconosco le frustrazioni, il mal d’archivio, quando ti sembra di aver imboccato un vicolo cieco, ma anche le intuizioni. «L’archivio e la strada» è il binomio che come Wu Ming da tanto tempo proponiamo. A connettere l’archivio e la strada è il corpo di chi fa ricerca, e il movimento di quel corpo è la narrazione. L’archivio, perché ci sono i dati, i fatti, i documenti, la «non-fiction»; La strada – e il percorso del corpo lungo quella strada – perché per rendere vivi quei dati, quelle scoperte, quelle intuizioni, quelle conferme, quelle analisi anche, hai bisogno della storia, nel senso proprio del racconto. L’equilibrio, tenere insieme queste due cose. Ci si pone continuamente delle questioni di metodo, e delle questioni di etica. Io ho una formazione storiografica, sono laureato in storia ma non ho mai voluto fare lo storico accademico, perché ho sempre pensato che il linguaggio accademico, la gergalità accademica, la lingua di legno accademica, le procedure accademiche costringano il corpo, quindi ho trovato altre vie, pur mantenendo le acquisizioni, le competenze, il metodo storiografico di interrogazione delle fonti, però trovando altre maniere, fare storia in un altro modo. E ci si pone questioni di etica: in questo mélange di fiction e non-fiction, fin dove posso spingere la fiction senza falsificare i dati? Posso fare «autofiction» – e Matteo in questo libro la fa in maniera egregia – nel senso di trasformare il ricercatore nel personaggio, nel protagonista della narrazione, e magari alterare la scansione diacronica delle fasi in cui è avvenuta la ricerca, ad esempio una cosa successa più avanti la posso mettere all’inizio, ma quello che non posso fare è tradire i dati, far dire alle fonti qualcosa che non dicono, manipolarle. Se c’è un’interpolazione di fiction nel piano più fattuale della narrazione, la devo annunciare, dicendo che è una mia speculazione, e lo devo fare in modo che non sia uno “spiegone”. Non è camminare su una fune, è camminare su una lama di rasoio, per chi ha una formazione storiografica e al tempo stesso vuole fare il narratore. I problemi che ti poni possono essere laceranti. Io mi sto ritrovando in questo libro perché sono appena uscito da un tunnel (il tunnel del TAV, proprio qui vicino), tre anni e mezzo di lavoro, e qui riconosco alcuni stratagemmi, ipotesi di lavoro, scelte fatte. I due libri sono usciti più o meno insieme e in entrambi c’è un ricorso al soprannaturale. Il ricorso al soprannaturale è proprio l’esempio di come tu possa forzare al massimo la fiction – fantasmi, sogni premonitori, mostri – e al tempo stesso essere rigorosissimo quando usi le fonti, quando fai storia. Bisogna riuscire ad armonizzare questi due piani al contempo tenendoli separati. Perché anche questo è un confine che è una fascia. Il confine tra fiction e non-fiction non è una linea: è una borderland, è un mondo di confine. Fiction e non-fiction dialogano, ma c’è un confine, perché Primiero e Feltre non sono la stessa cosa. C’è un confine però dialogano. Riuscire a mantenere quel confine, che è al tempo stesso colla e solvente, è la vera fatica di un lavoro come questo. È più difficile che scrivere un romanzo «vero e proprio». Io di romanzi ne ho scritti, anche di molto impegnativi, ma scrivere queste cose qua, che alcuni anni fa abbiamo chiamato «oggetti narrativi non-identificati», che si possono chiamare «ibridi» e che si possono non chiamare affatto, e forse in futuro li chiameremo comunque «romanzi» perché il romanzo è un genere a canonizzazione «debole» [nel senso di non rigida] che pian piano ingloba tutto, non importa come li chiamiamo, ma posso garantire che scrivere un libro così è più difficile che scrivere un romanzo, ed è molto più difficile che scrivere un saggio accademico. Sì, si fa un’enorme fatica per scrivere un libro su una chiesa padovana del XV secolo, con tutti i crismi della ricerca e dando importanza al «quantitativo», ma il tutto avviene entro binari più rassicuranti, che ti mantengono in equilibrio e al tempo stesso ti annoiano. Scrivere un libro come La via di Schenèr, invece, pone una sfida continua, ed è un continuo torturarsi: «Sarà giusto quello che sto facendo? Non starò facendo un’operazione intellettualmente disonesta?» Non te lo chiedi a ogni pagina: te lo chiedi a ogni riga.
Filo
Ma la formulazione più esaustiva del tema è tutta in uno scambio di battute fra Lorenzo del Duo PassAmontagne e Enrico Camanni durante la presentazioni di Alpi Ribelli. Eccolo riportato per intero.
Lorenzo: «Io da cittadino dico che purtroppo i politici si occupano delle città. Io mi appassiono da tanto tempo alle resistenze della montagna. Mi piace molto la parola resistenza. Mi piacerebbe che a un certo punto si trasformasse in qualcosa di attivo, di propositivo, che dalla resistenza si passasse all’offensiva. Io ho sempre abitato in quartieri che subivano delle scelte prese dal centro della città. Ho sempre vissuto in quartieri che dovevano resistere, difendersi. Anche nella città dove abito adesso. Adesso abito a Marsiglia che è sotto attacco da un’operazione di gentrificazione terrificante che mira come al solito a cacciare i poveri dal centro, a trasformare i quartieri. Forse sarebbe anche interessante che questi esempi che arrivano dalle montagne fossero vissuti non più soltanto in un ottica di scontro colonizzatore città-pianura contro la montagna, ma che c’è un nemico comune e che questo nemico non si chiama città o pianura, ma si chiama capitalismo. E che lo stesso nemico fa delle cose terrificanti tanto nei quartieri periferici, poveri delle città, quanto sulle montagne e che forse questa alleanza potrebbe produrre veramente dei paradigmi nuovi e degli esempi nuovi per noi. A Milano è stato così il No Tav, è stato un esempio. Abbiamo pensato: ma noi nei nostri quartieri dovremmo fare lo stesso. È stato magnifico, meraviglioso.
Questa vulgata della montagna che ha sempre-subito-sempre-subito-sempre-subito, ma la montagna potrebbe diventare l’esempio delle lotte future anche per le città. Perché le città non è che con i politici che si occupano delle città stiano diventando dei posti belli in cui vivere. Anzi, forse proprio da qualche anno a questa parte finalmente è evidente che le città fanno cagare come modello di vita e allora forse sarebbe bello immaginarsi delle alleanze piuttosto che continuare con questa idea della resistenza. È bellissimo resistere, ma a un certo punto… Io parlo anche di queste lotte contro la gentrificazione di Marsiglia: a volte ho l’impressione che siano lotte di retroguardia per conservare la vecchia Marsiglia come era negli anni 80. Ma chi se ne frega! Noi dobbiamo avere un’idea di come vogliamo che cambino le cose, perché non siamo i conservatori, siamo i rivoluzionari.»
Camanni: «Infatti sarebbe più giusto parlare di centro e periferie. Perché anche questa contrapposizione basata sul’altitudine non ha alcun senso. Bisogna parlare di centro e periferie, perché Courmayeur è un centro, non è una periferia.»
Viviamo in questo mondo post Utrecht. Le montagne sono state sezionate con linee di confine, la loro centralità è divenuta periferia. E le periferie che cosa sono?
Territori non ufficialmente investiti di potere. Territori di confine. Quel posto dove finisce la città, il decoro, la rispettabilità e cominciano i tamarri, i cafoni, i zaurdi, i maranza, i muntagnin, i villani quelli che scendono dai tremila, quelli tagliati col piulèt…
Le periferie sorgono sui confini, ma sono cerniere. Luoghi in cui le vite dei diversi sono connesse, luoghi in cui si possono tessere le alleanze.
Allora, mi dico: forse è questa la motivazione per cui mi sento legato così strettamente ad Alpinismo Molotov, sebbene difficilmente potrò mai seguire le discussioni delle/dei mie/miei compagn* sulle gesta di Honnold o chissachicazzo.
Qui si parla dalla periferia e di periferia, delle connessioni possibili fra le periferie e segnatamente di una periferia che per ragioni geologiche e storiche ha un diverso rilievo.
Mr Mill
La seconda notte. Il giorno mediano della festa – il sabato – è quello più impegnativo. La mattina colazioni ed escursioni, al rientro presentazione, poi alla sera cena e concerti. Quando terminerà ci troveremo nuovamente io e Andrea raminghi, poi finalmente seduti a sorseggiare un Ginevis, il liquore prodotto artigianalmente al Vis Rabbia con il genepy, pianta perenne d’alta quota. Non ci diciamo molto, scambiamo giusto qualche frase, ma è un buon momento per tornare mentalmente a quanto vissuto durante la giornata.
Ripenso alla presentazione di La via di Schenèr con Matteo Melchiorre, è stata esaltante perché, avendo letto il libro, ogni suo intervento era al contempo scoperta e conferma. Ho passato metà della presentazione a sfogliare la mia copia del libro alla ricerca di passi sottolineati che nella presentazione di Matteo s’illuminavano di una profondità che alla sola lettura si intravedeva, rimanendo però sempre in penombra.
Con Matteo ci siamo capiti subito, sarà che anche lui è nato e cresciuto nelle montagne, sarà che da qualche anno io sono “imparentato” con Lamon, comune che si trova sulla sponda opposta a quella di Sovramonte, lì dove era il passaggio della via di Schenèr, a pochi chilometri da Feltre e da Tomo. Prima della presentazione io e Filo ci siamo presi un po’ di tempo per concordare le domande da porre a Matteo. Da tempo abbiamo in cantiere la recensione di La via di Schenèr, diverse volte ci siamo scambiati impressioni su questo oggetto narrativo non identificato, ora ne parliamo vis à vis, cosa molto poco ordinaria per chi fa parte della banda disparata di Alpinismo Molotov. Siamo pienamente d’accordo che il libro sia un libro importante, ma quel che ci sorprende è come questo sia in risonanza con il punto di vista di Alpinismo Molotov, fino a trovare passaggi che ci diciamo potrebbero benissimo stare nel nostro manifesto. Come la riflessione sulla misura dell’atto del viaggiare, in un raffronto tra il passato e il nostro presente: non chilometri, ma «ore-minuti-secondi». E ancora:
[…] ogni epoca ha i suoi orizzonti, e la gran parte dei viventi si trattiene in essi. Soltanto gli eroi, i grandi intellettuali, gli assetati di spirito o gli affamati di pane possono avere il coraggio di infrangerli. Ai tempi di Marco Polo, di Erasmo da Rotterdam, di Elizabeth Maesh, di Phileas Fogg, di mio nonno Vittorino che andò in Somalia, superare gli orizzonti significava spingersi al di là delle montagne, al di là delle pianure, al di là del mare. Ma al giorno d’oggi? Oggi abbattere l’orizzonte comune non può che significare l’astensione del movimento a oltranza, scoprire il Borneo non dico dentro di noi, ma in quegli infiniti spazi dimenticati che ci stanno accanto, e da cui la vita umana, per effetto della storia, si è ritratta come una marea. (La via di Schenèr, Marsilio, 2016, p. 182)
Matteo Melchiorre
Sono tornato a casa con l’animo felice e pieno di contentezza. Ho trovato un ambiente stimolante e persone, voi tutti, attente e con una sensibilità così simile alla mia che mi dispiace abitiate così lontano. La presentazione, per la quale ringrazio te e Franco (e WM1), è stata intensissima anche per me. Mentre parlavo, in quell’ambiente, mi vedevo scorrere davanti tutte le ore trascorse da solo al computer, o a camminare per le mie montagne e mi sentivo, stupendamente, compreso e non solo. Grazie di cuore, grazie a tutti.
RobertoG
Ieri, davanti all’imbocco del Gran Pertus, dopo aver raccontato la storia di quella piccola grande opera, ho spiegato a chi mi ascoltava come il mito della “natura incontaminata” (nel senso di non modificata dall’uomo) sia uno dei miti che con alpinismo molotov cerchiamo di sfatare, insieme al suo compagno secondo cui ogni impatto umano sull’ambiente lo rende peggiore; dicevo di come, almeno alle nostre latitudini, anche in quello che sembra del tutto “naturale” in realtà c’è una componente umana. Oggi siamo partiti da pochi minuti per l’escursione “Pietre, castagni e santi” e Luca Giunti, che è nostro amico ma non fa parte di alpinismo molotov, ci spiega di come il castagneto, all’apparenza così naturale, è frutto di un grosso lavoro umano, e di come il fatto che questo non sia immediatamente riconoscibile in autunno provoca regolarmente liti tra i contadini e i turisti, con questi ultimi pretendono di raccogliere liberamente le castagne in quanto “frutto della natura”. Che belle le risonanze.
Luca Giunti
Di come è andata la gita, diranno altri. Qui provo a spiegare cosa mi intriga del territorio, di tutti i nostri territori, e cosa provo a trasmettere – a socializzare – a chi mi accompagna. La natura che ci circonda non è mai “naturale” ma sempre influenzata in maggiore o minore misura dalle attività umane, odierne o antiche o antichissime. A partire dal Neolitico e fino solo a 50 anni fa, la nostra specie si è insediata in colline e montagne disboscando, arando, pascolando, cacciando, regimando acque e suoli, introducendo nuove specie e annientandone altre. Poi, di colpo, ha lasciato tutto. Una ritirata epocale, un esodo monodirezionale senza prospettive di ritorno. La natura non ama i vuoti e li ha riempiti, piuttosto velocemente. Oggi in Italia ci sono più boschi e più animali selvatici di quanti ce ne siano mai stati da 10 secoli.
Guidare un gruppo lungo percorsi che mostrino i segni nascosti di questa commistione inestricabile tra Natura e Paesaggio, da un lato, e Lavoro, Arte, Cultura, Storia e storie dall’altro, vuol dire declamare camminando la Costituzione della Repubblica Italiana. Detto con rispetto e sottovoce: proprio quelli sono i suoi capisaldi. E un simile intreccio armonioso e stratificato si trova solo in Italia. I turisti di tutto il mondo vengono a cercarlo, consapevoli magari confusamente della sua unicità e bellezza, mentre talvolta noi, che ci viviamo immersi, lo diamo per scontato.
“Accompagnare”, poi, significa farsi compagni. Di strada, di passi, di storie. Percorso uguale con persone diverse significa percorso diverso. Gli stimoli, le esperienze, le domande, le osservazioni, le curiosità, le scoperte, variano da gruppo a gruppo, diventano social, condivise, variabili, irripetibili.
Dunque, raggiungere gli obelischi abbandonati della cava di Comba Carbone, riaprendosi il sentiero attraverso ai rovi invasori, rappresenta un percorso di conoscenza e consapevolezza, uno dei tanti possibili. Non per recriminare un’antica “età dell’oro” mai veramente esistita, né per rimpiangere la vita di quegli scalpellini, che in realtà lavoravano di braccia anche 14 ore consecutive, senza ferie né contributi, e si facevano un culo tale che nessuno sarebbe in grado di ripetere oggi. Semmai, per rivolgere a quegli sconosciuti un pensiero ammirato per l’esempio del loro rapporto utilitaristico ma rispettoso con le risorse naturali, e per la coscienza dei limiti – umani, fisici, planetari – che quotidianamente frequentavano e, soprattutto, comprendevano. Loro, ignoranti: mentre noi, colti, non ci riusciamo.
Alpinismo Molotov
Filo
Siamo partiti da poco, con tre quarti d’ora di ritardo sulla tabella di marcia, dalla frazione Martinetti. Giulia si ferma. Prende in mano una foglia di acero montano e la guarda perplessa. Luca Giunti le dice: – Quelle cosine rosse sono case di insetti.
Tira fuori una lente di ingrandimento e la porge a Giulia.
– Che meraviglia, sembrano dei fiori. Anzi, dei frutti.
Luca dice: – Siamo soliti dire che questo insetto è un parassita dell’acero, ma questo che vedi è un tessuto protettivo che crea la pianta e l’insetto a sua volta ne beneficia per starsene al sicuro finché non è pronto a uscire.
Giulia mi passa la lente e in effetti, viste così nel dettaglio, le “case” dell’aceria sembrano lamponi o gelsi.
Luca continua: – Noi abbiamo l’abitudine di dividere, di tracciar confini, di marchiare: questo è un parassita, questo è infestante, ma il mondo è più complesso di così…
– Possiamo dire – interviene Giulia – che vivono in simbiosi?
– Possiamo dirlo.
Roberto Cavallini
Luigi
Cinque righe per ringraziare tutt* coloro che hanno immaginato, poi reso reale e possibile questa festa. In particolare, grazie a Gemma e Emiliano, che mi hanno accompagnato al Vis, e alla sconosciuta che mi ha indicato la stazione, quando sulla via del ritorno sono riuscito a perdermi ad Avigliana (ho un senso di disorientamento insuperabile); al Vis per l’ospitalità, la merenda finale e le birre a prezzo politico; al Vecio per la sua magnifica affabulazione in cima al Musinè, gli sono debitore della scoperta di 2 libri che non vedo l’ora di leggere, La morte sospesa e Volevamo solo scalare il cielo; a Mariano che mi ha veramente riportato indietro nel tempo, a quel 21 settembre 2014 quando siamo saliti insieme sul Musinè, se ora riuscisse anche a smaterializzarmi i 5 chili che si sono accumulati nel frattempo, sarebbe prodigioso; e a tutt* i/le compagn* che non ho riconosciuto e/o non sono riuscito a salutare di persona, la prossima volta farò sicuramente meglio.
Andrea
Ultimo giorno, gli ultimi minuti della festa, un caro, caloroso abbraccio gratuito mi commuove, e questo per me è EX (exceptionnellement difficile).
Sono commossi anche altri pare: facciamo un applauso al Vis tutto ed è lunghissimo, sembra non voler terminare più.
Tornare alle proprie mura e sentirsi analfabeta. Meglio, incapace di scriverne o parlarne, rendendo l’idea.
Resto muto e osservo scorrere un fiume in piena, emozioni che avrebbero bisogno di sedimentare e invece travolgono.
Mi piacerebbe poter bloccare tutto, far tornare quell’acqua al monte, cristallizzarla, aspettare il disgelo ed esserne investito ancora, e poi ancora, e ancora.
AlpinismoMolotov, l’inondazione piacevole che dà dipendenza.
Filo
Un po’ più avanti. Il gruppo è fermo, Luca parla. Io e Miriam siamo rimasti un po’ indietro e li vediamo da lontano. Sara mi fa quel segno con la mano di quando mi ha preso in castagna. Appena sono nel raggio della voce mi dice:
– Mi hai sempre detto che quella siepe dove parcheggi il furgone è di… cosa?
– Ligustro.
– E invece no! È caprifoglio. Guarda, ha i fiori uguale a questi. – E mi indica un caprifoglio in piena fioritura.
– Tu mi hai chiesto di cosa sia la siepe, non di cosa è infestata.
Luca sorride a Sara: – Vedi, qua in mezzo al bosco incontriamo un caprifoglio e ne ammiriamo la bellezza, ma se la troviamo nel giardino chiediamo al giardiniere di toglierla.
Già.
Corrado
Ieri sera durante un momento di calma del nubifragio mi sono messo in macchina per rientrare in città, ero in quello stato di piacevole ottundimento che ti scende addosso dopo tre giorni di festa e camminate, mi godevo la luce soprannaturale che da ovest accendeva un bagliore giallastro in tutto il cielo nuvolo, facendo attenzione ad evitare i rami caduti in mezzo alla strada (e tirando via i più grossi) e pensavo proprio a quanto le divinità molotov ci siano state sorelle; era una sorta di quiete immersiva, media smark fra stanchezza e trance panica, quando ad un certo punto un tasso ha fatto per attraversarmi la strada, ho rallentato fino a fermarmi, lui si è voltato a guardarmi, poi è tornato indietro a nascondersi nell’erba a ciglio strada, mi ha fatto passare, ma nello specchietto l’ho visto trotterellare verso la sua meta di là dell’asfalto. È come se quell’incontro (non vedevo un tasso da parecchio tempo!) sia stata la risposta ad una domanda che non mi rendevo nemmeno conto di sentire dentro.
Filo
La periferia. L’altro tema che ha percorso la festa è cominciato a inizio maggio. Volevamo pubblicare un mini post sugli Hooligans’ Mountain. Scrivo a Riqu, il batterista, e gli chiedo di mandarmi due righe. Niente, non mi manda nulla che vada oltre a quel poco che si trova in rete su di loro. Allora tocca farsi la domanda giusta e provare a rispondere.
Perché li abbiamo invitati?
E a quel punto le parole fluiscono chiare:
Il punk è la musica di chi sta ai margini, di quelli e quelle che abitano le periferie, le zone di confine, aree in cui l’ibridazione è d’obbligo. Per chi osserva dalla città, la montagna è margine, periferia, zona di confine. Proprio per questo non è poi così raro che il punk –musica e attitudine tipicamente urbana –abbia un suo risvolto montano.
Poi il tema ritorna poco prima che si dia il via ufficiale alla festa. Transito nei pressi del gazebo che Fornelli in lotta ci ha prestato e intercetto un pezzo della conversazione di WM1 e Fabio Panicco che è venuto farci i gofri: «Ma lo vedi come siamo combinati ad Alpinismo Molotov? Veniamo tutti dai paesini, ci riuniamo nei paesini, per questo nessuno sente il bisogno di atteggiarsi a montanaro».
Mr Mill
Il bosco. La mattina di domenica ne avrò conferma partecipando all’escursione che il guardaparco Luca Giunti ci ha proposto: un anello che attraversa castagneti, certose abbandonate e cave dismesse. E dalle storie che ci racconta lungo il percorso, che mi suonano familiari.
Filo
Ci sono esseri umani che tracciano confini che divengono limiti invalicabili per la stragrande maggioranza degli altri esseri umani. Ma nessuna delimitazione è davvero efficace in un mondo che di fatto ne ha pochissime. Dove si traccia un limite in breve si organizza il contrabbando, il passaggio clandestino, lo scavalco, il sottoattraversamento.
Alpinismo roncola. Il percorso immaginato da Luca si chiama Castagne, santi e pietre. Siamo transitati nei castagneti: curatissimi. Alcuni alberi sono monumentali e mostrano un gigantesco rigonfiamento al punto di innesto. Luca dice della diatriba di ogni autunno fra il gitante che passa e raccoglie le castagne e le collera di chi il castagneto lo cura. Il gitante dice che la castagna è un prodotto naturale del bosco e la risposta più comune è: «Naturale un par di palle, voglio vederti a raccogliere in scarpe da ginnastica se qua non tengo pulito io».
Più avanti abbiamo poi parlato di pellegrini e vie francigene, perché come dice Matteo Melchiorre una strada non è UNA strada, ma un fascio di possibilità, di incontri, di scontri, di deviazioni, di alternative, di scorciatoie e di vie clandestine.
Superata Banda cominciamo a incontrare monoliti, cavati dalla montagna e abbandonati lì, come se oggi fosse finita la giornata e il lavoro dovesse riprendere domani.
Ora siamo fermi, Elio Giuliano, ex guardaparco valsusino, convoglia la nostra attenzione su un gruppo di fascine.
«È molto raro oggi trovarne di fatte così, all’antica».
E ci spiega il nodo che le tiene unite e insiste: «la cultura di montagna è una cultura del risparmio, esattamente come quella contadina. Non si avanza niente, si riutilizza tutto. Oggi si fa legna coi mezzi grossi, si caricano via i tronchi e il bosco rimane più incasinato di prima di ramaglie e scarti di lavorazione. Una volta a terra non rimaneva nulla e le fascine si vendevano ai panettieri per accendere i forni».
Quando Elio finisce di parlare ci accorgiamo che Luca ha tirato fuori dallo zaino un «Podèt!» dice Franco in camuno. «Piulèt!» gli fa eco Sara in valsesiano.
A colpi di roncola Luca apre il sentiero, ma non si tratta di una via nuova. Camminiamo su una mulattiera antica: – Questa era un’autostrada – dice Elio.
Giungiamo a uno spiazzo. Ci sono in bell’ordine una dozzina di travi in pietra. Ci sediamo. Luca ci indica i fori di separazione, ci spiega di come il lavoro fosse organizzato a terzetti, uno scalpellino che reggeva un punzone e due che si alternavano a colpirlo a mazzate. Otto ore per fare un buco.
Cerco di immaginarli lì, intenti al lavoro, ma il silenzio di questo pomeriggio d’estate non mi aiuta.
Qui era come una fabbrica, doveva esserci un rumore infernale. Non so scollarmi da quello che vedo e quello che vedo non è l’unica realtà di questo posto.
Elio dice: «Qui ora siamo all’ombra degli alberi, ma dovete immaginare che la valle era tutto un enorme giardino coltivato, il bosco è una novità degli ultimi 50 anni».
Provo a immaginare, e niente, mi sfugge qualcosa.
Wu Ming 1
Una volta a casa, sulla chat del social media di messaggistica istantanea di gruppo, invio il messaggio «Ragazz*, questi giorni sono stati talmente belli e intensamente comunitari che quando si torna a casa arrivano i blues, vi avverto! Anche se stanchi non si riesce ad accettare di stare in casa e si cercano subito amici per ancora un altro po’ di convivialità».
Luca Giunti
Postilla: l’esperienza ha uno strascico ancora social. Filippo mi chiede queste righe mentre sono in vacanza in Calabria, senza possibilità di connettermi per spedirgliele. Chiedo in giro, e finalmente qualcuno mi dice:
– Prova vicino all’ufficio postale: dev’esserci una rete wifi.
– Come lo sai?
– Perché ci sono tanti neri che stanno lì ore con gli smartphone in mano…
Ancora contraddizioni, Storia e storie. E che storie! Più social di così…
Filo
La Val di Susa si distende da Ovest verso Est. Ha quindi un versante Sud, freddo e ombroso di inverno, rigoglioso di boschi in estate, e un versante Nord, perennemente in luce, coi suoi ginepri coccoloni, piante che è più comune trovare in Toscana che in Piemonte, e le sue praterie xerotermiche.
Elena di Spinta dal bass è di Vaie, sul versante Sud, e una volta mi ha raccontato che lei e le sue vicine sanno esattamente in quale giorno, dopo mesi di buio, a marzo inoltrato, torna il sole in casa.
A volte, soprattutto quando le frustrazioni lavorative ci assalgono, con Sara fantastichiamo di trasferirci in valle e tutte le volte io dico: «però niente Villar Focchiardo, Vaie, Sant’Ambrogio o posti del genere, andiamo sul lato giusto, quello al sole, sennò mi viene la depressione».
Stiamo entrando nella borgata Banda, nel comune di Villar Focchiardo. Chiacchiero di non so più cosa con Luca e poi mi fermo di botto. Nespole di una bella tinta arancione si affacciano da un giardino.
– Non è possibile, quando mai si sono viste nespole mature da queste parti?
– Banda ha una posizione incredibile, benché sia da questo lato prende luce e allo stesso tempo è ben riparata dal vento.
Mentre Luca ci parla della Certosa di Banda io sono un po’ distratto e penso che quando diciamo il territorio rischiamo di ingenerare degli equivoci. A maggior ragione in un posto accidentato come la penisola italica: forse sarebbe più corretto parlare di territori.
Banda è sotto il comune di Villar Focchiardo, sul versante Sud della valle, ma ha un suo microclima e sue peculiari attività umane, non la possiamo confondere con Martinetti, a soli 30 minuti di cammino, né con qualsiasi altra borgata valsusina. Banda è, come ogni singolo territorio, unica e insostituibile. Ogni territorio è speciale, ognuno ha le sue caratteristiche fisiche, climatiche, ognuno la sua storia di relazione con gli esseri viventi. Ognuno, a tutti gli effetti, è un individuo. Come ognuno di noi che siamo la risultante del nostro corpo, della nostra storia, delle nostre esperienze.
Poi penso al biodiversity offsetting, quel meccanismo che consente a multinazionali e governi di assassinare territori con la promessa di ripristinarne o salvaguardarne altri di pari valore. È come prendersi la licenza di uccidere Ombretta perché si è promesso di prendersi cura di Chiara che è di corporatura simile e guadagna supergiù lo stesso.
Sogno il sorgere di una tribù di cantastorie partigiani che, come gli uomini-libro di Bradbury, incarnino e sappiano cantare le epopee e le stagioni dei territori e che, come gli hobbit di ritorno dalle imprese, abbiano il coraggio di mettere di mezzo i loro corpi per difenderli dai Saruman che li minacciano.
Mr Mill
La notte dopo. Apro la porta, la casa è vuota. Francesca ed Ettore, la mia compagna e nostro figlio, rientreranno tra un’ora abbondante, ho il tempo – né più né meno del tempo necessario – per farmi una doccia, svuotare lo zaino, azzannare una pizza. Sono frastornato, in hangover senza essermi prima sbronzato. Con i pensieri sono ancora al Vis Rabbia. Se ci provo, appena riesco a focalizzare un’immagine della tre giorni di festa, subito se ne sovrappongono altre, accumulandosi così velocemente che presto decido di lasciar perdere: diamo al cervello il tempo di elaborare, mi dico. Diamogli prima ancora il tempo di rallentare, mi auto-correggo mentalmente.
Appena mi trovo con Ettore gli porgo, ben piegata, la bandiera di Alpinismo Molotov. Il dono è apprezzato, Ettore non ha ancora compiuto i 3 anni, è nato tra l’escursione al Rocciamelone e quella al Triglav, in pratica è nato mentre nasceva Alpinismo Molotov. Alla vista della bandiera, mentre concitato la dispiega, esclama: «Bellissimaaa!». Subito dopo aggiunge: «Domani porto all’asilo!». La cosa mi inorgoglisce, anche se, certo, penso, una bandiera rossa con impressa una bottiglia molotov… e infatti, quasi mi leggesse nei pensieri, Ettore punta il suo minuto indice della mano destra a indicare la boccia e chiede: – Còs’èèèè?
Eh, cos’è.
Ma certo, «È la bandiera dei pirati della montagna!», rispondo. «Wow!», e via con lo sventolio. Poi a nanna. L’indomani all’asilo nido Ettore ci ha portato uno zaino di costruzioni, la bandiera è rimasta accanto al suo letto, il nostro galeone, fissata a un’asta improvvisata. Se ancora non è il tempo perché emergano immagini e momenti significativi della festa, beh, penso, possiamo aggiungere anche questa dei “pirati della montagna” e partire e ripartire da lì, da qui.
Alpinismo Molotov
Diverso il suo racconto. Voci dalla prima festa nazionale di #AlpinismoMolotov - Giap
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[…] Sul blog di Alpinismo Molotov, un récit d‘ascension collettivo. Tre giorni memorabili nelle parole e immagini di chi c’era. Buona lettura. […]