“Lo sapevo, caxxo, che avrei buttato 7 euri”. Mentre uscivo dal cinema questa frase mi girava in testa come il peggior ritornello da tormentone estivo. Ma d’altra parte andavano gli amici e ho fatto uno sforzo di elasticità mentale entrando al cinema con le migliori intenzioni e tanta buona fede (chiaramente mal riposta).
Prima di dire quanto non mi sia piaciuto Everest di Baltasar Kormákur devo fare una premessa: non ho ancora letto i libri a cui è ispirato, pur conoscendo la storia, e ho quindi visto il film solo come un film di montagna, senza poter ovviamente fare confronti. I già menzionati amici mi hanno detto che la storia è abbastanza fedele ad Aria Sottile di Jon Krakauer ed include in parte Everest 1996, in cui la guida russa Anatoli Boukreev si difende dalle accuse di aver lasciato indietro i compagni.
E qui arriviamo alla prima pecca di questo kolossal che è costato circa 65 milioni di dollari (65 fottuti milioni!): a detta di tutti, i libri, soprattutto Aria Sottile, sono potenti. Il film no. I personaggi non sono affatto approfonditi, c’è troppa gente e per chi non ha letto il libro è quasi impossibile starci dietro: ogni tanto salta fuori uno e tu rimani lì a chiederti chi cazzo sia. L’impressione poi è che un po’ di attori famosi siano stati sbattuti dentro come “acchiappafolle”: c’era davvero bisogno di prendere Keira Knightley e Robin Wright per fare 20 minuti complessivi di recitazione nella parte delle mogli che stanno a casa?
E nel caso non fosse sufficientemente chiaro quel che voglio dire:
Ora, seriamente, perché?
Ad ulteriore dimostrazione della scarsa propensione all’approfondimento ci sono le questioni più scottanti e controverse delle spedizioni himalayane che vengono sfiorate quasi per sbaglio, come quando Rob Hall nel film raccoglie un po’ di spazzatura, 30 secondi che facilmente puoi perdere se in quel momento bevi dell’acqua o ti gratti un polpaccio. Ma la questione del pattume lasciato dalle spedizioni sull’Everest non è proprio una robetta secondaria: nonostante le regolari missioni di pulizia, si stima che sull’Everest ci siano circa 10 tonnellate di rifiuti e giusto a marzo di quest’anno Ang Tshering, presidente dell’Associazione degli alpinisti del Nepal, ha detto che sull’Everest c’è troppa cacca e la cosa potrebbe trasformarsi in un disastro ecologico e un problema per le popolazioni che usano l’acqua dei fiumi a valle. Insomma, sembrerebbe che la vera impresa alpinistica sarebbe scalare la montagna di merda accumulata sull’Everest, più che la montagna in sé.
Per non parlare della questione del sovraffollamento: nel film è forse l’unico aspetto affrontato con un minimo di attenzione in più. C’è una scena in cui, a causa della coda, gli alpinisti sono costretti ad aspettare ore per passare un ponte di scale. Per affrontare il problema, le guide delle varie spedizioni si incontrano per stabilire dei turni di ascensione. Ma poi finisce tutto in una nuvola di fumo, e la cosa rimane solo funzionale a spiegare perché le spedizioni guidate da Rob Hall e Scott Fischer si uniscono. Ma il sovraffollamento non è una cosuccia da poco ed è stata una delle ragioni che hanno contribuito al disastro del 1996. Forse un minimo di ragionamento in più sul fatto che chiunque (ai giorni nostri dagli 80 agli 11 anni) salga sull’Everest, poteva starci, anche considerando che nessuno dei clienti di Rob Hall nella fatidica spedizione aveva esperienze di 8000. Insomma, se il governo nepalese pensa di trasformare la scalata in una ferrata, vuol dire che abbiamo un problema e grossomodo è iniziato una ventina di anni fa.
Ultimo, ma non meno importante, gli sherpa. Nel film si fa un accenno ad uno sherpa che si è fatto male mettendo delle corde fisse (di nuovo, 30 secondi di sfuggita) e deve essere portato giù, ma poco altro si dice riguardo ai portatori che accompagnano le spedizioni himalayane. Non si può, credo, non considerare le morti sul lavoro (ricordate la valanga dell’anno scorso dopo la quale gli sherpa hanno minacciato uno sciopero?) che accompagnano le spedizioni sull’Everest e a me, guardando il film, è riuscito impossibile non pensare che questo alpinismo dipende molto da certe dinamiche di classe. Il Capitale sulla vetta più alta del mondo!
Jon Krakauer in un articolo sul New Yorker ci dice che delle oltre 200 persone morte sull’Everest dalla prima ascesa, solo un’ottantina non sono state Sherpa. Dal 2004 al 2014, la mortalità per gli sherpa sull’Everest è stata quasi 12 volte più alta che quella per un soldato americano in Iraq tra il 2003 e il 2007. Poi ovviamente le situazioni sono molto complesse e tutto non può essere ridotto a sherpa sfruttati vs alpinisti sfruttatori, e sicuramente Simone Moro ha ragione quando dice che ci sono dinamiche di sfruttamento in primis tra le popolazioni locali, ma non si possono invertire le carte e dimenticarsi quali sono, sempre e comunque, le parti forti in queste relazioni. Sfugge il senso di far vedere uno sherpa infortunato e i dissidi tra portatori di diverse spedizioni, senza elaborare nemmeno un po’.
Nello sfarfallio di neve bianca bianca e battute scontate però c’è un pezzetto in cui ci si avventura in una riflessione un po’ più profonda sul senso dell’andare in montagna e Doug Hansen racconta di voler scalare l’Everest per dimostrare ai bambini di una scuola americana, che hanno fatto una colletta per aiutarlo a pagare il viaggio, che anche una persona “normale” può inseguire sogni impossibili. Poi in realtà Doug Hansen purtroppo non sopravvivrà alla scalata, e io immagino che un’intera scuola di bambini abbia fatto anni e anni di psicanalisi per riprendersi.
In quello stesso spezzone di film, c’è una battuta che mi ha irritata particolarmente, ed è quella messa in bocca a Yasuko Namba, che alla domanda “Perché vuoi scalare l’Everest?” risponde: “Be’ ho 47 anni, ho scalato 6 dei Seven Summits, ora devo fare il settimo”. Sbam! Le ovaie cascano a terra. Soprattutto perché al personaggio di questa fortissima alpinista vengono fatte dire forse altre due battute in croce in tutto il film, contornate da qualche risatina da manga giapponese. Yasuko Namba è stata la seconda donna giapponese a scalare i Seven Summits ed ai tempi era la donna più anziana ad aver mai raggiunto la vetta dell’Everest. Io mi immagino la forza di questa donna, la volontà di ferro, la risolutezza… e davvero non c’era nient’altro da farle dire? (Da notare: nel film le figure femminili sono pochissime. È vero che la storia è quella, ma l’unica che non si inserisce in un cliché da ruolo di cura – le mogli, la dottoressa, la figura materna di Helen Wilton, manager del campo per la spedizione di Hall – è proprio Yasuko, che per contro viene sminuita).
Certo, non si poteva fare un film di 10 ore. Ma che senso ha raccontare una storia vera, e complessa, per tirarne fuori qualcosa che non ti lascia niente, se non un po’ di ammirazione per gli effetti speciali, quando esci dal cinema? Sì perché di quelli hanno dovuto usarne a piene mani, dato che in buona parte il film è realizzato su una pista da sci in Trentino. Messner (proprio quello di “altissima, purissima…”, ma anche quello che per primo ha scalato i 14 ottomila senza ossigeno) quando hanno presentato il film alla Mostra del Cinema di Venezia, senza averlo visto, ha detto:
Sarà un tipico film di Hollywood, dove l’Everest serve come palcoscenico, come cartolina. Non racconta, non può raccontare la realtà: è stato girato su una pista da sci, mal che vada a 2.500 metri! (…) Sarà Hollywood, ci saranno grandi attori, ma manca l’attore principale che è la montagna, con tutta la sua grandezza, la bufera, il freddo e specialmente la mancanza di ossigeno. È molto difficile ed è molto costoso girare gran parte del film sull’Everest. Allora cosa si fa? Si fa esattamente quello che fanno i turisti: si è trovato un sistema di lavorare senza rischio, senza freddo, senza alta quota, dove la montagna non esiste, ma è soltanto un palcoscenico.
E avendolo visto, il film, come dargli torto?
La pecca più grossa di questo kolossal credo, tuttavia, che non stia in nessuna delle cose dette finora: dove Everest ha veramente fallito è nella rappresentazione delle persone a cui in teoria dovrebbe rendere omaggio. Relegando i personaggi nel ruolo degli eroi morti facendo gesta grandiose, credo che il film faccia un torto agli alpinisti che hanno perso la vita sull’Everest nel 1996, alla loro umanità, alle loro contraddizioni e alla loro forza. Mentre guardavo le scene tragiche alla fine del film, le uniche parole a cui riuscivo a pensare erano quelle che Robert MacFarlane scrive nel suo stupendo Come le montagne conquistarono gli uomini:
È facile compiangere e glorificare i caduti in montagna. Ma quelli che si dovrebbero ricordare, quelli che troppo spesso vengono dimenticati, sono coloro che restano. Tutti quei genitori, quei figli, quei mariti, quelle mogli, quei compagni che hanno i loro cari. Vite distrutte che devono essere portate a termine. Chi corre regolarmente grossi rischi non può che essere giudicato o profondamente egoista o privo di sensibilità nei confronti di coloro che gli vogliono bene. (…) Non esiste nessun irresistibile bisogno di rischiare la vita in montagna o in parete. L’alpinismo non è un destino. Non è scritto da nessuna parte che uno vi si debba dedicare. Oggi sono quasi certo che non vi sia nulla di intrinsecamente nobile nella morte in montagna, che anzi essa sia sempre uno spreco atroce[1].
[1] Come le montagne conquistarono gli uomini. Storia di una passione, Robert MacFarlane, Mondadori (2005), pag. 104/105.
fabiopanicco
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altre riflessioni http://www.montagna.tv/cms/76809/da-polenza-everest-una-montagna-non-ancora-dominata-e-il-film-lo-fa-ben-capire