Ciò che non ho detto sulla Via Dei Montecchiani Ribelli
e su Toni Giuriolo, Luigi Meneghello, Gino Soldà, Giacomo Albiero, Luisa Muraro.
di Alberto Peruffo (guest blogger).
Ho conosciuto Toni Giuriolo a Campogrosso, molti anni fa, entrando al Rifugio dell’Alpe dove si fermano tutti gli scalatori e gli amanti delle montagne che salgono dalla pianura. Avevo circa vent’anni.
Senza prendermi sul serio, consideravo e considero lo “scalare montagne” la forma migliore, o perlomeno la più anti-accademica, di ribellione contro la linea orizzontale del nostro essere, la sedentarietà della nostra volontà, l’entropia che tutto chiama e che trasforma la vita, ogni vita, in un “classico” divenire. Casalingo. Poltronesco. Affamato di divani e di poltrone. Un necessario antidoto alle scuole, alle dottrine, alle fabbriche, agli stadi, agli schermi piatti, a tutte le istituzioni che vorrebbero chiudere dentro a specifiche stanze l’originaria libertà di ogni ricerca ed elargire impieghi, cattedre, premi, confezioni a destra e a manca per alimentare quel regime di stantio che tutti noi, nostro malgrado, annusiamo: il logorroico annuncio “istituzionale” del nostro finire. Se dentro a quelle stanze non si apre una porta per uscire fuori e alzare lo sguardo, siamo fottuti. Si muore seduti. Piegati. Piagati. Pagati.
Quando perciò entrai al Rifugio di Campogrosso e sulla soglia della porta incontrai Toni Giuriolo, il suo nome, ebbi un sussulto. Dove avevo sentito quel nome? E perché questo luogo di rifugio ne portava il richiamo? Chi me ne aveva parlato e come mai ora Toni Giuriolo mi destava paura, rispetto, mistero? Proprio nel mentre iniziavo a scalare montagne! Montagne verticali dove speravo di incrociare persone pronte per scendere in città… In modo risoluto. Senza esitazioni. Per affrontare cause civili, ingiustizie, misfatti. Cose di tutti i giorni.
Nell’animo di un giovane tutto si muove verso qualcosa.
Non ci volle molto a scoprire che il Rifugio di Campogrosso si chiamava e si chiama ufficialmente “Rifugio Toni Giuriolo all’Alpe di Campogrosso”, 1457m. In memoria del Capitano Toni, partigiano della Resistenza antifascista alla guida di un gruppo di giovani studenti ribelli rifugiatisi sulle montagne vicentine dopo l’8 settembre 1943. La vicenda di questo manipolo di studenti è raccontata nel romanzo autobiografico I piccoli maestri di Luigi Meneghello, il grande scrittore maladense “dispatriato” in Inghilterra con il quale ebbi la fortuna di coltivare una singolare forma di amicizia gli ultimi anni della sua vita, “rimpatriato” in Italia.
Ricordo il pomeriggio del nostro primo incontro nella sua casa di Thiene. Immagino la fatica del nipote nel tentativo di presentare le mie “competenze professionali”, parole per me insidiose, nonché lo stupore immaginifico del grande Luigi quando, dopo un paio di ore passate a sfogliare libri e a conversare sulle nostre comuni passioni, ad un certo punto, scosso dalle mie “devianze”, esclamò: “ma come rívito alla fine del mese con tuto sto ambaradan?”. Volle, addirittura, in gran segreto, venire a spiarmi nella mia libreria-laboratorio dedicata al nonno Giovanni, a Montecchio. Passammo insieme alcune giornate straordinarie.
Quel giorno mi portò in dono tre suoi libri tradotti in tre lingue diverse, tra cui il preziosissimo Outlaws, I piccoli maestri in inglese, dotato di mappe geografiche e relativi toponimi, dieci volte più bello dell’edizione italiana. La sera, a cena in un’osteria famosa per il lesso, escogitammo, parlando della bellezza e del pericolo delle parole, il cren della lingua, il nostro futuro lavoro. Ma qualcosa mi era rimasto sul gozzo. A quel tempo non metabolizzai l’inquietudine che mi stava montando per quel libro in inglese. Poi sopraggiunse la morte di Luigi, e piano piano capii che “outlaws”, ovvero sia “fuorilegge”, non mi era mai piaciuto, fin dal primo momento che l’avevo preso in mano. C’è diversità tra chi è fuori della legge e chi è contrario alla legge, a un accordo, a un contratto, a un incontro impossibile tra le parti. Non mi soffermo. Ma i primi sono delinquenti, nel senso comune del termine, i secondi ribelli. Su questo ritorneremo.
Quando Meneghello scomparve dal mio orizzonte, la sua effervescenza intellettuale, rimpiansi la perdita, ma non mi preoccupai. Portai con me il suo spirito e continuai a scalare montagne, a volte esplorando nicchie geografiche ancora vergini, a volte innescando vere e proprie deflagrazioni fisico-culturali. Una cosa era certa: come detto a Luigi, non avrei mai separato l’esplorazione culturale dall’esplorazione geografica, la mente dal luogo, lo psichico dal fisico, la stanza dalla porta, l’Accademia dal suo antidoto, la polvere dalla miccia. Per fare questo, trovare spinta in questo mio procedere “molotoviano”, avevo bisogno – e continuo ad averne – di esempi, esperienze, percorsi, confronti, compagni. E forse anche di un maestro che non fosse un maestro, il cosiddetto “grande” maestro, ma un “dato di fatto” che per chissà quale affinità di “spirito e tono” trasferisce le sue qualità sulle tue: un Giovanni Battista delle “montagne ribelli” che basta guardarlo negli occhi per essere bagnato dalla sua fonte battesimale senza bisogno di tante parole o di tediose lezioni scolastiche.
Giacomo Albiero, montecchiano, mi avviò al grande alpinismo, quello fatto di pareti verticali, corde doppie e chiodi mai certi, qualche anno dopo dal mio primo passaggio al Rifugio di Campogrosso. Era impossibile non incontrarlo, quest’uomo, dal fascino magnetico e dai modi discreti, paesani, essenziale e senza ornamenti, con gli occhi sempre pronti a contrastarti lo sguardo e dal magico potere di fare apparire le sue pupille come uno schermo, lucido e mai arido, dove scorrevano storie di montagne, amici, partigiani, donne, uomini, gioie, miserie, omicidi, amori. Da Giacomo ottenni l’amicizia “post mortem” di Renato Casarotto e in seguito della moglie Goretta. Solo per questo gli dovrei essere grato una vita intera. Non solo. Giacomo, primo fra tutti, mi mostrò la grandezza di un altro uomo legato indissolubilmente alla soglia “molotoviana” del Rifugio di Campogrosso: Gino Soldà. L’uomo che voleva uccidere il Duce. Il Comandante Paolo. Grande alpinista, apritore di memorabili vie.
Giacomo, oggi novantenne, nella sua vecchia casa di Montecchio, nel comò dell’intricatissima piccola sala, tra libri, cimeli, sassi, fossili, ricostruzioni di arnesi primitivi, fototessere di parenti, amici, alpinisti, al centro del mobile tiene una folgorante foto di Gino Soldà, la stessa che si trova al cimitero di Recoaro. Giacomo “ce l’ha a morte” con i valdagnesi e i recoaresi perché non hanno ancora fatto un monumento come si deve al grande Gino, alpinista straordinario e comandante partigiano. Partigiano silenzioso che portò in salvo decine di ebrei attraverso le montagne svizzere, partigiano come lui che incrociarono e militarono al fianco della Brigata Stella che tanto fece per liberare le nostre valli dal fascismo, lasciando innumerevoli giovani sui campi di battaglia, spesso vittime di imboscate, rappresaglie, delazioni. Lo stesso Giacomo sopravvisse miracolosamente all’eccidio della Piana di Valdagno dove furono trucidati amici compaesani. Sulla soglia dei 18 anni… non si possono dimenticare queste cose… mi suggerisce con gli occhi Giacomo ogni volta che ci vediamo mentre con le parole racconta i fatti di quegli orribili giorni come fossero capitati ieri l’altro. Non possiamo dimenticare questi ribelli.
Da qui si arriva alla nuova via sul Baffelàn. Dal grande rapporto con Giacomo, che forse più di ogni altro ha capito e mai osteggiato il mio “alpinismo molotov”. Nel senso che ad un certo punto, lui, Accademico e veterano del CAI senza volerlo e senza pensarci, dopo gli anni delle mie grandi salite dolomitiche e sulle Alpi, il mio 8000, le mie spedizioni esplorative, qualche via nuova di qua e di là, non riusciva a capacitarsi del mio rifiuto “fisiologico” per l’Accademia, per l’Accademico CAI. Un’Accademia di per sé molto strana e contraddittoria già di suo, essendo di provetti alpinisti non-professionisti, ma pur sempre un cerchio sacro che poteva diventare, come la maggior parte delle Accademie, un luogo chiuso costruito ad hoc per tenere sotto controllo mediante imbonimenti referenziali le menti più fervide e tutto ciò che si ritiene pericoloso per i poteri costituiti. Non riusciva inoltre a capire come potevo conciliare le grandi montagne con le grandi energie che la controcultura di impegno richiede. Specie il mio folle lavoro di libraio-volante, irriverente al genius loci, prigioniero della politica-partitica.
Mi vedeva portare giù cimiteri dagli altipiani tra lo stupore generale, puntare i piedi e osteggiare con tutte le mie forze le zotiche operazioni di politici e banchieri che hanno militarizzato Vicenza, i locali sindaci Hüllweck e Variati, abbeverati dal vino congestionato di finanza firmato Gianni Zonin; mi osservava scalare montagne come il Cervino con fumogeni in mano per ispirare una ribellione collettiva tra la comunità alpinistica internazionale a favore della causa tibetana; o, estrema ratio, veniva a sapere che mi divertivo a scalare campanili e ciminiere vertiginose, in città, con l’ausilio di indomiti “vecchietti”, il cosiddetto Commando della Gialla o Rossa – non si è mai capito – Cotogna Garibaldina, niente di meno che Paolo Rumiz e Bepi De Marzi, compagni di montagne e di letterature ribelli; per infine, drammatico, bivaccare sulla strada della Vallarsa, disegnando, durante la notte, mille morti sull’asfalto. Qui avremmo fermato con un’azione memorabile la menzogna della Padania, il suo Giro ciclistico sui luoghi falsamente sacri – lo scopersi in itinere – agli ipocriti Alpini. O perlomeno ai burocrati di questo e di ogni corpo d’armata. Ai piedi del Monte Pasubio.
Al ritorno da ogni mia azione “molotoviana” Giacomo veniva a trovarmi in libreria per dirmi: “Scolta, te fè mille cose strambe (“sei un folle” voleva dirmi), ma te si’… o te podarisi essere un forte alpinista”. In quel potresti essere c’era un non so che di indecifrabile, come dire lo sei, ma non lo sei, potresti, ma forse lo sei perché te ne freghi della storia alpinistica che conosci meglio di me e di molti altri alpinisti e incarni la “ribellione” che lo scalare nasconde. Quell’essere partigiano che un tempo io fui. Ribellione che significa “essere contrario” alla legge quando questa mortifica il diritto di esistere secondo il tuo proprio destino. E per essere contrari, costruttivamente contrari, Giacomo lo sapeva bene, ci vuole coraggio e creatività. Doti che ogni alpinista, anche discreto, deve avere. Anche nelle semplici cose di paese.
Così accade che durante una serata culturale voluta dagli alpinisti del mio paese, Montecchio, sala zeppa di cittadini CAI e non CAI, escursionisti e protoalpinisti, alla fine della mia presentazione sulla recente spedizione esplorativa al Kanchenzonga (Himalaya del Sikkim), il sottoscritto esprima la propria preoccupazione sulla grande opera, in odor di mafia, malavitosa, Superstrada Pedemenontana Veneta, che sta distruggendo la Valle dell’Agno, da Montecchio a Recoaro, percorso che tutti noi aspiranti-alpinisti facciamo per raggiungere il Rifugio di Toni Giuriolo. Il presidente della Sezione, di fronte alle foto dello scempio, stizzito, esce dalla sala e poi mi accusa di aver fatto politica. Che schifo… mi dico. E mi interrogo: quali insulsi e infantili leccapiedi dei partiti stanno invece facendo politica-partitica di bassa lega, il gioco di rimbalzare tra le parti, non portando mai all’attenzione dei soci problemi di prima politica, questioni di salute pubblica, ambiente, diritto alla critica? La “prima politica”! Definizione che ho imparato da Luisa Muraro, montecchiana, e ribelle, pure lei!
Quella sera trovò definitiva conferma la mia opinione sul disimpegno “in loco” degli affiliati alle Sezioni CAI: un enorme bacino di voti astutamente coltivato e manovrato dai potenti di turno grazie a dirigenze senza spina dorsale, figli dei fiori in montagna, amebe appiccicate ai banchi di chiesa e alle poltrone in città. Questo genere di soci – la maggioranza! – vede la montagna come terreno di fuga, di vacanza, di passeggera transizione domenicale per lavarsi la coscienza e ossigenarsi il fisico, mentre scarichi cancerogeni di sostanze perfluorurate ammorbano le strade su cui crescono i nostri figli. Figli senza padri, fagocitati da appartenze, patacche, associazioni, regioni, padanie, scuole, palestre. Patrie inventate. Che invitano al “dispatrio”. Caro Luigi, quante volte ho pensato alla pena e alla forza di questa tua dura parola.
E io dovrei tacere? Quando nel 2011 scopersi la perturbante ipotesi di linea sulla Nord del Baffelàn, avrei voluto dedicare la nuova via, proprio con spirito “molotoviano” – e visto che ero in mezzo alle Vie Thiene, Vicenza, Verona – a Montecchio e alle derive padano-razziste del suo Sindaco, ma in modo estremamente creativo, anche sui passaggi “toponomastici”. Mi immaginavo l’infida e viscida Fessura Borghezio e la placca bombata di roccia marcia da dedicare a Calderoli. Vi immaginate la Placca Calderoli? Assurda e druida, sdrucciolevole come il personaggio chiamato in causa e contro la cui indecente presenza in paese, per il comizio finale della futuro sindaco, avevo messo in opera una rarefatta, quanto rischiosa, azione solitaria. Già! Via Milena da Montecchio sarebbe potuto essere un gran nome. Ma anche Via Maurizio da Montecchio, o Via Ceccato da Montecchio… I precedenti sindaci meritavano una nomina quanto il nuovo, non tanto a futura memoria, ma a immediato viatico. Stavo arrampicando sopra a un dilemma toponomastico.
Quando uscimmo dalla nuova via nel luglio del 2015, increduli di fronte alla bellezza, alla difficoltà, all’originalità della linea, confidai al mio compagno che mai e poi mai avrei usurpato quella bellezza consegnando alla storia nomi barbarici. Il non-nominarli sarebbe stato più forte di ogni giustizia. Il silenzio sul nome è più forte della spada sul cuore.
Perciò, la Via Dei Montecchiani Ribelli è dedicata solo per via indiretta, silenziatrice, ai sindaci, ai presidenti, a tutte le persone che negli anni hanno fatto molto per osteggiare, fermare, maledire l’operato mio e dei miei fratelli, ribelli. La Via è invece un dolomitico omaggio – lo stile di apertura è radicale – a “dei” Montecchiani, dove il partitivo diventa elemento fondamentale per dire che “non tutti i montecchiani sono ribelli”. Per dire che il partigiano che ognuno di noi può essere non appartiene a nessuno, non appartiene alle stanze e alle burocrazie dei partiti e delle borse, ma solo a se stesso e alla coscienza dei propri compagni che hanno deciso di prendere parte contro qualcosa che non funziona. Là fuori, sul fronte degli eventi. Senza se e senza ma.
Tuttavia, alla fine dei conti, oltre ai pochi alpinisti che incarnano quest’ideale, chi sono o saranno veramente questi celebrati montecchiani ribelli?
Se davvero Monticulus significa Piccolo Monte, e Piccole sono le nostre Dolomiti, Piccoli saranno e sono i nostri i maestri, a cui è dedicata la via: a Toni Giuriolo, Gino Soldà, Luigi Meneghello, Giacomo Albiero, Luisa Muraro, i “maestri” ribelli delle Piccole Dolomiti che ci “accompagnano” con le loro gesta verso un’edificante conclusione: i Piccoli maestri “insegnano” fuori dalle Grandi Accademie. Perché? Perché “le Piccole” sono “le pratiche nel mondo”. Perché “non si può insegnare tutto”. Perché solo fuori dalle Accademie è possibile accendere fumogeni, innescare le molotov delle coscienze, “apprendere” da chi non è “preso”. Il restare Piccolo dietro alla prepotenza della grandezza, alla sua arroganza e illusione, consegna qualcosa di inespugnabile. Poi qualcuno torna dentro, rischiando di sedersi sui risultati, assecondando il potente di turno, ma è solo là fuori che avviene lo scoppio, la deflagrazione culturale che porta all’azione concreta, all’operazione efficace. Alla propria singolare rivoluzione. Che forse potrà un giorno diventare opera condivisa. Collettiva.
Chiudo con un’immagine istantanea. Prima domenica di settembre 2015. Sto scrivendo questo testo chiestomi espressamente da Alpinismo Molotov. Sono seduto sul balcone di legno esterno del nuovo spazio biblioteca voluto nel cuore del primo piano del Rifugio di Campogrosso dal magnifico gestore Davide Ferro, che al posto di fare una cacofonica SPA, ha preferito una sala di lettura. Alla mia sinistra, Giacomo Albiero, 90 anni, è salito come sua abitudine al “monumento” (le pietre che danno “monito”) di Toni, per portare acqua, nutrimento, ai fiori della memoria, di Giacomo, Toni, Gino, Luigi e tutti i compagni della sua vita. Giro lo sguardo e prendo il binocolo: ad ovest, molto in alto e distante qualche chilometro, mio figlio è salito su Punta Lovaraste, la più alta del Sottogruppo del Fumante, 1942m. Metto a fuoco il cannocchiale: in mano tiene a braccio teso un fumogeno rosso appena acceso.
Mio figlio? Si chiama, anche lui, Giacomo. Ha appena compiuto 18 anni. L’età dei ragazzi della Piana. Forse un regalo, un segno per la mia incontenibile spinta. Le montagne fumanti – le Fu The Sad Smoky Mountains – non sono più tristi. L’acqua del vecchio ha acceso il fuoco del giovane. La primitiva ribellione continua.
E io continuo a scalare montagne. A modo mio. Con una molotov in mano.
HYPERLINK
Il primo resoconto della via su Planetmountain.
Una galleria fotografica della via e relazione.
Uno storyboard visuale delle “molotov” dell’autore.
Le attività “esplosive” della Casa di Cultura C.
Il Rifugio Toni Giuriolo all’Alpe di Campogrosso.
LIBRI ESSENZIALI
Toni Giuriolo. Un maestro di libertà, Antonio Trentin, Cierre Edizioni (2012).
Antonio Giuriolo e il «partito della democrazia», a cura di Renato Camurri, Istrevi Cierre Edizioni (2008).
Gino Soldà e il suo tempo, AA.VV, Cierre Edizioni (2008).
I piccoli maestri, Luigi Meneghello, Bur (2013).
Dispatrio, Luigi Meneghello, Bur (2000).
Dio è violent, Luisa Muraro, Nottetempo (2012).
Non si può insegnare tutto, Luisa Muraro, Editrice La Scuola (2013).
P.S. Citazione finale da I piccoli maestri:
«Bastava conoscere i testi giusti, essere un po’ meno ignoranti. Si doveva proclamare l’insurrezione, subito. Non la resistenza, ma l’insurrezione. […] Era niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione. L’Alto Vicentino avrebbe preso fuoco in poche ore. Bastava pensarci. Se c’è un comitato, nell’aldilà, questa non ce la perdoneranno mai. Naturalmente ci avrebbero presto sterminati, almeno la prima infornata, e poi anche la seconda e la terza. Ma almeno l’Italia avrebbe provato il gusto di ciò che deve voler dire rinnovarsi a fondo, e le nostre lapidi sarebbero oggi onorate da una nazione veramente migliore».
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