di Filo Sottile
1. Primo incontro
La prima volta che ho prestato attenzione a un esemplare di ailanto è stato nel 2004. Lavoravo in un capannone della zona industriale di Rivalta di Torino. Un luogo infelice, benché pinzato fra le amene campagne e il torrente Sangone. A gennaio avevo posto fine alla mia carriera di educatore e da febbraio, riciclato nell’artigianato, parcheggiavo la macchina sotto questo albero spoglio, corteccia grigia, liscia, alto poco meno di dieci metri. Al suo fianco c’era un altro albero, poco più basso, apparentemente della stessa specie, ma privo di quelli che mi parevano ciuffi di fiori secchi. Quei due alberi erano spuntati nelle fessure del marciapiede e si erano fatti strada allargando e spaccando. Si trattava evidentemente di abusivi, nonostante questo sembravano molto più in salute degli aceri e dei carpini piantumati.
La puntualità non è mai stata il mio forte. Quando arrivo io, con il mio consueto margine di ritardo, ho sempre la certezza che il posto che trovo libero è quello che nessun altro ha voluto occupare. Franchino, un mio collega puntualissimo, diceva che vicino a quegli alberi lui non ci parcheggiava mai: sotto la furia dei temporali spesso si rompevano i rami, e poi gli dava fastidio il pacciame di foglie marcite che stazionava a terra.
Quello è diventato il mio posto auto e, tolti i mesi da giugno a settembre in cui parcheggiare lì sotto significava mettere la macchina al fresco, nessuno l’ha messo in discussione.
Cinque o sei giorni alla settimana, per quarantotto settimane l’anno, per dieci anni fa un bel po’. Quei due alberi ho avuto modo di osservarli per bene. Nel 2009 mi è poi venuta persino voglia di sapere come si chiamassero. Mio padre mi ha detto: in Sicilia lo chiamano summaccabolico, summaccu.
Si sbagliava, ma non era il solo.