Le montagne sono generalmente intese come confini naturali, ma basta modificare il punto di vista per leggerle come cerniere, come linee di contatto disseminate di punti di passaggio, versanti contrapposti segnati dalle tracce di un continuo scambio tra uomini e donne. Intrecci di relazioni economiche, sociali e culturali.
L’esplorazione storica che Matteo Melchiorre ha condensato nelle pagine del suo La via di Schenèr mette in evidenza questi intrecci. È il frutto della messa in opera di uno sguardo obliquo, di un’appassionata – e ostinata – ricerca d’archivio, che è affiancata da una capacità rara nel dare voce a quegli archivi e, dalle pagine ingiallite conservatevi, a restituire fisionomia agli uomini e alle donne che ne emergono come spettri del passato. Alle loro vicende umane, nel continuo andar in dentro e andar in fuori lungo una strada fra le montagne: la via di Schéner, appunto.
Un passaggio più che una vera e propria strada, a sbalzo sull’orrido del Cismon, ricavato con fatica e con altrettanta fatica tenuto percorribile per secoli, prima che nel volgere di qualche decennio scomparisse il suo tracciato e anche il suo ricordo, con una nuova strada dal percorso meno impervio percorsa da carrozze trainate da cavalli, anziché dallo zoccolo sicuro degli asini che battevano lo Schenèr.
Come in Requiem per un albero – di cui ha scritto sul nostro blog Filo Sottile – la ricerca storica qui non è mai fine a se stessa, s’innesca nel presente e vi si innesta, in un corpo a corpo con la vita, perché come scrive lo stesso Melchiorre: «L’archivio induce sempre le domande, dottor Schuster, ma non sempre conserva le risposte; anche in questo somiglia un poco alla vita».