Negli ultimi anni in diverse occasioni abbiamo manifestato il nostro disgusto per la retorica di guerra che ha scandito quest’ultimo triennio, 2015-2018, in occasione del centenario di quella carneficina che fu la Prima guerra mondiale. Una retorica che lungo un secolo si presenta come linea di continuità e che ha fatto della “grande guerra” il mito fondativo dello stato-nazione Italia. Una retorica che, come abbiamo scritto, non avrebbe risparmiato le Alpi, un secolo fa assurte a «sacro confine» che andava per l’Italia spostato di forza verso nord per logiche imperialiste e di annessione, le stesse ragioni che portarono alla guerra e che produssero una carneficina senza precedenti, facendo della popolazione civile un bersaglio allo stesso modo delle truppe degli eserciti nemici e di ogni territorio un campo di battaglia in cui sperimentare nuove e micidiali tecnologie militari.
La Grande Sbornia Nazionalista dovrebbe aver raggiunto il punto più alto con le cerimonie del 4 Novembre, «Festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate», giornata celebrativa istituita nel 1919 e che ha attraversato decenni di storia italiana: l’Italia monarchica e liberale, quella fascista e quella repubblicana. Non solo le grandi celebrazioni con le alte cariche dello stato sull’attenti, ai piedi dell’Altare della patria come nelle città simbolo dell’irredentismo italiano Trento e Trieste, non solo nei discorsi dei generali e dei settori conservatori e reazionari della società italiana (che in maniera inquietante, ma non sorprendentemente, si amplificano rispecchiandosi uno nell’altro), ma in ogni paese e città. Perché quella guerra si è cristallizzata in una memoria di stato che si è stratificata lungo il secolo passato fino a divenire parte stessa del paesaggio italiano: nei fiumi e nelle montagne “sacri alla patria” (si veda la recente intitolazione del monte Adamello), nell’odonomastica dei paesi e delle città, nei monumenti ai «figli migliori» ammazzati per la grandeur nazionale disseminati in ogni paese.