All’inizio furono “normalissime evasioni”, ché uscire da casa e attraversare le strade ci era parso nulla di eccezionale ma al contempo fondamentale, tanto che dopo una sola settimana queste evasioni erano per noi una pratica necessaria per non cedere a capo chino all’imperativo del #stateacasa. Stare in casa, senza distinguo (ad esclusione delle tante e dei tanti costretti a lavorare in condizioni tutt’altro che sicure), un buco nero di produzione e feticizzazione del capro espiatorio che tendeva ad assorbire ogni energia, ad attirare – anche – ogni forma di pensiero critico disinnescandone il potenziale liberante.
Per superare la soglia della propria abitazione e attraversare piccole frazioni dello spazio pubblico c’era da arrabattarsi tra modulistica in continuo (diciamo così) aggiornamento: le nostre evasioni rimanevano una necessità nonostante le si dovesse “autocertificare”. Non potevano però più dirsi normalissime. La finalità inizialmente individuata di «raccontare le nostre escursioni […] nel tentativo di inquadrare da prospettive oblique quel che ci circonda e restituire ex post, almeno nel racconto, la dimensione collettiva di quel procedere a passo oratorio che oggi ci è negata» era, ci pareva sempre più chiaro, una forma di resistenza di cui noi – e non solo noi – non potevamo privarci. Le nostre (e vostre) evasioni divennero “cospiranti”: cospirare nel senso di «unirsi per conseguire uno scopo comune», e lo scopo comune era non rimanere schiacciate e schiacciati – tra ansia, depressione e senso d’impotenza – dalla condizione di confinamento e segregazione sociale.
Tutto questo è presente, nulla è passato; le evasioni di cui raccogliamo traccia sono vitali per più ragioni e contrastano l’egemonia del discorso tossico con cui viene generalmente raccontato il confinamento che ha effetti socialmente funesti. L’espressione “distanziamento sociale” è entrata nel linguaggio comune, provenendo da quello specialistico dell’epidemiologia; quando un’espressione diventa d’uso comune in un contesto diverso da quello in cui è stata coniata, questa assume anche un significato differente e agisce performativamente: il linguaggio non è mai neutro.
L’uso funzionale a un discorso tossico di un’espressione linguistica appiattisce dinamiche complesse, maschera e occulta quest’ultime per presentarle in futuro come naturali, frutto disincarnato dalle relazioni di potere.
Il “distanziamento fisico” (con cui si descrive il mantenimento di una distanza tra i corpi e che ci pare un’espressione meno connotata e fraintendibile che “sociale”) alimenta una condizione di rarefazione sociale in costante crescita che, nel medio periodo, produrrà sì un “distanziamento sociale”, da intendere come allentamento delle relazioni sociali. Tutto questo produrrà un surplus, rispetto al presente, di sofferenza psichica diffusa.
Continuare a intrecciare racconti di insubordinazione minima è per noi agire al fine di impedire che il “distanziamento sociale” non divenga col tempo lo spazio della definitiva atomizzazione sociale, lì dove le ingiustizie sociali e le sofferenze psichiche sono considerati questioni individuali.
In attesa di ritrovarci, nelle strade e lungo i sentieri.