di Filo Sottile e Mr Mill
«Non portare via un sasso dalla Toscana, altrimenti la Toscana muore»: è l’allarme affranto e paradossale di Maurizio Crozza, fra le tracce di Cicciput [1]. «Chi viene in Toscana – dice invece Marco Armiero nella premessa a Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia (Einaudi, 2013) – si aspetta di vedere oliveti e filari di viti con un campanile sullo sfondo, uno scenario naturale dove la quota di ciò che è antropico è in ogni caso molto alta».
Presenze complementari – il sasso e il frantoio, i colli e i vigneti – sono elementi che con pari importanza contribuiscono a definire quel dato paesaggio.
La Toscana è un pretesto. Ogni luogo, in quest’ottica, diventa un’intersezione di tensioni ecologiche, culturali, politiche, geologiche. Nessun luogo frequentato dall’uomo è naturale, così come non esistono questioni umane del tutto esenti dal dato ambientale.
C’è un altro aspetto:
«Capire la natura nelle nostre teste è altrettanto importante che capire la natura intorno a noi, perché l’una modella e filtra senza posa il modo in cui percepiamo l’altra».[2]
La natura può essere compresa solamente tenendo conto del rapporto di forte interdipendenza fra questa e la cultura di chi la racconta, che varia sia temporalmente che spazialmente.
L’Italia è un paese accidentato: percorsa in longitudine dagli Appennini, coronata dall’arco alpino, frazionata da valli, massicci e guglie. Non si può prescindere da questi elementi fisici per parlarne. La montagna è parte costitutiva dell’idea stessa di Italia. Per quanto le montagne siano lì, imponenti nella loro mole, apparentemente immutabili ai nostri occhi, il solo osservarle già implica una continua risignificazione.