“The serene side of Slovenia” – Il Carso isontino dopo gli incendi dell’estate 2022
C’è un giornalista infeltrito che ogni volta che ha freddo e deve mettersi il loden, poi per rappresaglia scrive un elzeviro in cui inveisce contro i gretini che credono nel riscaldamento globale. C’è anche una certa quantità di persone che gli va dietro. E c’è la reazione standard degli attivisti climatici, o anche solo delle persone di buon senso, che replicano più o meno così: il riscaldamento globale è appunto globale, quindi va valutato globalmente e non sulla base di osservazioni locali. Tutto giusto, ma non basta. Non basta perché è troppo astratto. L’alfabetizzazione scientifica è in generale molto bassa, in Italia e un po’ ovunque, e di certo non ha aiutato a migliorare la situazione l’uso demenziale della “scienza” come manganello durante la pandemia (in realtà, l’uso di una serie di proposizioni apodittiche e prescrittive infiocchettate in un linguaggio che suonava scientifico). Il fatto è che però il riscaldamento è ben visibile anche nelle osservazioni locali ed empiriche, e se si vuole convincere le persone della gravità della situazione bisogna insegnare loro a leggerne i segnali sul proprio territorio.
Lo scorso dicembre in tutta la pianura padana occidentale si sono avute a più riprese temperature massime sopra i 20 gradi. Effetto del foehn, certo, che ha soffiato con raffiche record sopra i 200 km/h. Ma il foehn non è il Vento dal nulla, è una delle manifestazioni dello sconvolgimento climatico. E infatti dopo il foehn è arrivata l’inversione termica, e l’anomalia si è spostata in quota. Forse vale davvero la pena cominciare a mappare i territori, per toccare con mano gli effetti dei cambiamenti globali nelle loro ricadute locali.
Prendiamo ad esempio le Alpi Giulie.