Dopo la guerra non rimangono eroi, rimangono soltanto zoppi, mutilati, deturpati, davanti ai quali le donne girano lo sguardo.
Dopo la guerra tutti dimenticano la guerra, persino quelli che vi hanno preso parte.
Anche questo è giusto, perché la guerra è inutile, e non bisogna elevare alcun culto a coloro che si sono sacrificati per l’inutilità.[1]
Le catene montuose – insieme a fiumi, mari e deserti – si identificano sovente come frontiere naturali, dando la falsa idea che naturale sia il confine che rappresentano, mentre questo è sempre politico e costituitosi lungo un processo storico-sociale. Una catena montuosa può essere infatti rappresentata come un linea spaziale che separa e divide, ma allo stesso modo può essere una linea di giuntura, una cerniera tra popoli e culture.
Un secolo fa le Alpi vennero mutate in un fronte che sul confine italo-austriaco si sviluppò per 370 chilometri lungo l’arco alpino, un esteso campo di battaglia su cui si combatterono migliaia di soldati, in un ambiente – spesso a quote superiori ai 3.000 metri s.l.m. – dove fino ad allora mai si pensò si potesse fare la guerra, tra erte pareti di roccia, spesso coperte di neve e ghiaccio. Furono allora trincee e baraccamenti, strade militari e posti di vigilanza, cunicoli scavati nella roccia o nel cuore dei ghiacciai, passerelle sospese fra le creste e postazioni d’artiglieria. Filo spinato e carni straziate.