Nel marzo scorso è stato pubblicato il nuovo libro di Alberto “Abo” Di Monte, nostro compagno di scarpinate, siano queste una serie di passi o cordate di parole. Il libro arriva a chiudere una tetralogia “anomala”, composta da narrazioni dedicate ai rilievi montuosi (in maniera esclusiva o parziale) e a chi, a diverso titolo, ne ha fatto esperienza.
Esperienza che va intesa qui – come scrive Stefania Consigliere nel suo Favole del reincanto – come «conoscenza della trasformazione», ricordando che allo stesso modo, viceversa, «non c’è conoscenza che non sia trasformativa»; tutt’altra cosa rispetto a quel marketing esperienziale impegnato a colonizzare le menti, anche quando i nostri corpi salgono di quota lungo i sentieri, e che è uno strumento della totalizzazione dei regimi immaginari (ancora Consigliere) perseguita dalla modernità e dal capitalismo neoliberale.
Una tetralogia, dicevamo, aperta con Sentieri proletari. Storia dell’Associazione Proletari Escursionisti, pubblicato nel 2015, un libro attorno al quale ai tempi intervistammo l’autore e che fu poi – l’intervista – uno dei primissimi post di Alpinismo Molotov.
Sentieri migranti. Tracce che calpestano il confine – questo il titolo della recente pubblicazione per Mursia – parla di migranti e della incomprimibile necessità di movimento dei corpi, e lo fa dal punto di vista situato di chi si oppone a quel dispositivo di controllo politico e sociale che sono i confini, linee immaginarie che si materializzano nella violenza agita dallo Stato-nazione in ostacoli alla libertà di movimento. Non a caso il sottotitolo del libro richiama alla mente un’azione che si svolse a inizio 2018 – Calpestiamo il confine! – tra Ventimiglia e Mentone, organizzata da Ape Milano (di cui Abo è un infaticabile animatore) e dal Collettivo Alpino Zapatista.
Nelle parole dell’autore, «il testo racconta cinque tracce, disseminate per l’intero arco alpino, lungo le quali muovono i propri passi le persone migranti irregolarizzate e in cerca di un futuro non ancora scritto.»
In questi anni, su questo blog ma anche per le strade o lungo i sentieri, abbiamo dedicato attenzione e più di un contributo a queste tracce che attraversano le catene montuose, disvelando di quest’ultime il loro essere cerniera anziché spazi separatori come vengono perlopiù rappresentate nel discorso pubblico. Tornare a chiacchierare con Abo su questo suo nuovo libro è stato un passo conseguente al discorso costruito fino a oggi.
Buona lettura.
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AM: Iniziamo con uno visuale panoramica: come è nato il libro e come hai lavorato, chi ti ha aiutato, con chi hai collaborato?
Abo: Ci sono due possibili risposte a questa domanda. Da una parte il lavoro che ho fatto si compone di letture, tanta rassegna stampa, e soprattutto tantissimo cammino, appunto quel reiterato e incessante andare avanti e indietro per alcuni di questi sentieri, in parte tutt’ora utilizzati, in parte ampiamente sfruttati nei dieci anni che ci separano dall’inizio delle primavere arabe. È stata un po’ anche la mia personale liberazione, diciamo così, dalla fase uno del lockdown eccetera: ritagliarmi via via che era possibile i fine settimana per prendere al volo un treno (perché quasi tutto è stato fatto in sella agli interregionali) per raggiungere appunto i confinali.
L’altra possibile risposta, anche se è più intimista e forse meno interessante per voi, appare con chiarezza nella mia testa: questo è il quarto libro che ho fatto con Mursia editore e mi piace immaginarla un po’ come una tetralogia. Anche se non lo è in senso pieno, c’è però qualcosa di tutti i tre testi precedenti dentro questo. Il primo – quello dedicato alla storia dell’A.P.E. – si chiamava Sentieri proletari. Se una storia del ‘900 aveva per titolo Sentieri proletari, una storia ambientata nel nostro presente poteva portare nell’intestazione, appunto, Sentieri migranti. Al sottotitolo (Tracce che calpestano il confine, ndr) il compito di chiarire il resto.
Il secondo testo della serie narrava invece di sport popolare (Sport e proletariato. Una storia di stampa sportiva, di atleti e di lotta di classe, ndr) e stampa sportiva. Ogni volta che mi è capitato di presentarlo – o comunque di ragionarci sopra – mi sono sempre sorpreso a soffermarmi sul racconto di questi italiani che sul colle del Frejus – migranti della classe meno abbiente – perdevano la vita affrontando una bufera senza i mezzi necessari. In uno dei numeri del settimanale c’era questo articolo di denuncia che riprendeva un rotocalco francese sull’assurdità che in tempi così moderni, quali erano quelli del 1923, ci fossero ancora persone che, per il solo fatto di non avere i documenti in regola, affrontavano le Alpi tra quei pericoli nonostante tutte le possibilità, l’offerta diciamo tecnica e scientifica, a cui si era arrivati all’indomani del primo conflitto mondiale e per la precisione novantotto anni fa.
L’ultimo volume, apparentemente più distante e in altra misura più prossimo, è appunto La via del sale. Un testo che tratta di un cammino di più giorni, di viandanza e di una postura, diciamo così, distante da un approccio turistico anche nelle sue versioni dolci, e orientato più al tema di una nuova scoperta di un passato di commercio lungo mulattiere oggi celato tra le fronde.