di Filo Sottile
Avevamo una casa su un albero, un grande olmo
che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock.
Oggi in quel lotto c’è una società di traslochi,
e l’olmo è scomparso. Progresso.
Stephen King, Il corpo, in Stagioni diverse
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Al centro dell’inquadratura ci sono tre prunus cerasifera atropurpurea. Sullo sfondo, prato e condomini di edilizia popolare. Le case marroni, le case di via Aldo Moro. Ci ho vissuto per diciotto anni.
Ieri sera ho finito di leggere Requiem per un albero (Spartaco, 2007) e stamattina sono tornato qui. Il libro ritrae un’assenza, il suggello di un’epoca, l’incombere di un nuovo corso. I tre prunus hanno chiuso l’infanzia di tanti bambini e ragazzi delle case marroni. Requiem per un albero me li ha ricordati, sono venuto a fotografarli. Qui, in questo prato, prima che arrivassero loro, si giocava. Soprattutto a calcio.
A Rivalta c’erano proprio dei tornei fra case. Le case rosse, le case bianche, le case gialle, le case dei ferrovieri, le case di via Labriola, le case di via Brodolini. Ogni agglomerato condominiale aveva il suo campo (quasi sempre rettangolare e, in due casi fortunati, con le porte) e a turno ospitava le compagini delle altre case. Una roba informale, completamente organizzata dai ragazzi. Questo era il nostro campo. Le porte non ce le avevamo, ma le panchine ai due estremi erano al posto giusto. Prima della partita, il portiere saltava a piedi giunti con le braccia in su. Dove arrivavano le punta delle dita c’era la traversa. Più o meno.