di Simonetta Radice
Faccio sempre molta fatica a trovare dei libri di montagna che davvero mi piacciano. Mi annoio da morire con i récit d’ascension, mi irrita la retorica della grande impresa, detesto le descrizioni stereotipate del paesaggio alpino, locus amoenus o locus horridus che sia. Per questi motivi e per molti altri ho amato invece tantissimo Tre Montagne (Fusta Editore, 2015), il primo romanzo di Matteo Meschiari, scrittore, antropologo e studioso del paesaggio.
Il libro è in realtà una raccolta di tre racconti: in Svernamento, un vecchio parte per un’ascensione – forse l’ultima – portando con sé un bagaglio di ricordi forse troppo pesante. Primo Appennino è invece una rivisitazione dell’epopea di Gilgamesh in chiave partigiana e racconta dell’amicizia di due uomini “dove finiscono le mulattiere”. Pace nella Valle, infine, è il dialogo ritrovato tra un padre e un figlio in un bosco primordiale, per una battuta di caccia che porterà entrambi molto lontano. Per usare le parole dell’autore, il libro è «una stratificazione di geologie personali e temporali molto particolari. La sua origine è assai lontana perché il primo pezzo, Svernamento l’ho scritto nel 2000, poco dopo Pace nella valle mentre Primo Appennino, quello centrale è più recente e risale a circa tre anni fa.»
Tre Montagne colpisce innanzi tutto per la potenza evocativa delle descrizioni d’ambiente. Tanto che viene il dubbio che proprio l’ambiente, lo spazio e la montagna siano i veri protagonisti dell’opera, mentre le persone rischino costantemente di esserne inghiottite.
Ho scritto di questo libro in mailing list e sono stata felicissima quando ho saputo che avrei potuto facilmente intervistare Matteo, per dare voce e condividere alcune suggestioni che mi avevano particolarmente colpita durante la lettura.