INTRO
– inquadramento-
La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone.
In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie*.
Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroici bardati assaltano il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello spazio e appiattimento dell’immaginario.
Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido, sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e riflessione generale crediamo vada fatta.
La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario. Bocchette centrali di Brenta.
Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma esplicitamente per cercare la difficoltà.
Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto.
Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata Castiglioni alla Cima d’Agola.
Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di fruizione.
- Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in alpi occidentali;
- attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica, rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel gruppo dell’Adamello;
- ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura: scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi, la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark.
A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza.
A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta. Per anni è stata accompagnata da polemiche, più volte ne sono stati sabotati i fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo incivile».
Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole.
Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente aumento del potere d’acquisto del ceto medio.
Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in Paganella e Intersport nel Donnerkogel. Tra questi ultimi e gli itinerari classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza.
Sopra la ferrata delle Aquile in Paganella.
Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel.
PARTE PRIMA
– l’approccio sceriffo –
Ci pare che negli ultimi anni le modalità di fruizione abbiano appiattito le sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile.
Così già da tempo (immagine del 2016): botta-risposta su un noto blog dedicato al tema.
Si vendono – si compra-vendono – ferrate. L’espansione tremenda della frequentazione alpina e del movimento dell’arrampicata sportiva, se da un lato testimoniano di una moda, dall’altro concorrono alla creazione e all’ingigantimento del problema. Notiamo che il modo di stare sulla ferrata, la terminologia di che ne racconta le difficoltà, gli entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti assimilabili al tipo 3.
Ci si concentra sull’adrenalina e si riflette poco – o per nulla – di sicurezza o rispetto dell’ambiente col quale si interagisce. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso risolte con ‘compra l’attrezzatura’), si possono generare fattori di caduta nettamente più alti che scalando, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’.
Come per gli orsi e i lupi, come per il Natisone, buona parte delle criticità che stanno alla base del discorso sono la turistificazione e lo sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si racconta l’atto acrobatico con la go-pro. Nel frattempo si intasa, si erode, si sovra-alimenta la bulimia del profitto, e così ferrate che potevano tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario schizzano dritte nella 3: adrenalina.
Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da marketing, come nel caso dell’Epic trail.
L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei geometri che progettano siffatti percorsi.
Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori.
Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco.
In alcune zone – Dolomiti su tutte – si esaspera il ruolo di parco giochi dei sentieri attrezzati, pensati esplicitamente per cercare la difficoltà e frequentati da individui accessoriati. In altre la dimensione tecnica conta molto meno, i percorsi sono stati conservati come retaggi militari o sono nati soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno senso.
Se si costruiscono parchi giochi si promuove una certa idea per cui si paga il biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e cool per agganciarti alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che userà sarà in buono stato, funzionante e certificata.
PARTE SECONDA
– l’approccio bimbominkia –
Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro in sé niente, non si sa, non si dice.
Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può – si deve visto che si fa poco o nulla per evitarlo – morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo.
Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta ancora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa).
Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero, alla preservazione della ‘carne-lavoro’.
Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali.
La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere qualcuno che ne ha colpa.
In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle pagine de Lo Scarpone di predisporre un non meglio descritto codice di ‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa.
A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.»
Tuttavia rileggendo l’articolo de Lo Scarpone le certezze vanno sgretolandosi.
Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’ potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, da quanto? Quanto sono manutenute una ferrata o una falesia (ecc.)? Ce lo chiediamo perché in fin dei conti una via di roccia, misto o ghiaccio – e a maggior ragione una ferrata – non sono altro che sentieri tecnicamente più difficili.
In secondo luogo leggiamo: «i volontari che si occupano della manutenzione della rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i sentieri con troppa leggerezza».
Questa frase suona un po’ come uno scarico di responsabilità post tragedia in Marmolada.
O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione.
Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei territori, si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo l’assicurazione, che l’individuo paghi.
Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo di comportamenti non corretti per la morale corrente?
Criminalizzare l’individuo è una mossa del cavallo tipica, utile a tutelare l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto.
Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza.
In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata) è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo: se c’è ghiaccio ci si può andare?», come se un percorso fosse equiparabile o assimilabile a un impianto di risalita. Col relativo gestore a attivarne e regolarne la corrente, il flusso.
L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto.
Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo morale.
Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della salute di interi gruppi amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura, anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento ‘riservato’».
Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro.
Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua».
Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.
*Segnaliamo per attinenza, fra i libri di storia dell’alpinismo, Montagne della mente. Storia di una passione di Robert Macfarlane (Einaudi tascabili, 2020).