Alle 9:30 di domenica prossima, 28 agosto, calcheremo i passi su uno stupendo anfiteatro montuoso rovinato da una moltitudine di questioni “storte”. Le incantevoli creste che percorreremo spaziano tutt’attorno al nuovo cratere di scavo del cementificio di Tavernola, e non soltanto a quello.
Cammineremo a partire da Parzanica per raggiungere, prima tappa, il Santuario della Santissima Trinità, da cui la vista abbraccia lago e valle.
Man mano ci avvicineremo al Saresano, un monte sconvolto sin dai declivi, pendenze di paesaggio mutato in cui a causa dello sbancamento è cambiato persino il panorama, per non dire delle condizioni microclimatiche: una costa abituata a lunghi periodi d’ombra che si riscopre soleggiata.
Una costa, quella sopra e sotto la miniera Ca’ Bianca, che vista frontale, a mo’ di parete, sembra un qualsiasi bosco fitto di queste zone solcato da un alpeggio in vetta. Il prato sommitale è l’unica porzione di monte risparmiata, grazie a chi ha resistito all’assalto dell’industria e non ha venduto.
Sopra: vista dal Santuario della Santissima Trinità
Sotto: il monte Saresano sventrato dalla miniera. Prima che fosse sbancato, Monte Isola – a sinistra della vetta – non era visibile
Dalla Santissima in poi il percorso necessario a osservare lo scavo è una lunga serie di creste curve, l’anfiteatro di monti che cintano Parzanica. Il sentiero che oltrepassa la chiesetta conduce dapprima nei pressi della vetta del monte Creò, picco modesto, eppure in posizione sufficientemente favorevole per scoprirsi deturpato da fitte batterie di ferraglia aguzza. Una selva “binaria” di antenne e ripetitori a disegnare un territorio ronzante, morfologie antiche sconvolte da cementificazione e sfruttamento.
Consumo di suolo.
Ripetitori sul monte Creò
Poco oltre il Creò, nei pressi del monte Mandolino, gli evidenti segni delle stalle e dei pascoli che hanno popolato queste zone sono stati rimpiazzati da proprietà talmente aduse alla privatizzazione da rendere inaccessibili passaggi sui vecchi sentieri. Reti e steccati a cancellare pratiche, storie, abitudini di queste piccole comunità.
Dal Mandolino scenderemo al Col de Ru e potremo valutare due diverse alternative. Chiudere qui la prima parte del nostro anello scendendo per la vecchia mulattiera asfaltata nei giorni in cui il crollo di 2 milioni di metri cubi di monte pareva imminente – perché era l’unica possibilità di transito verso valle per gli abitanti di Parzanica e Vigolo –, oppure imboccare la salita che conduce al monte Cremona, e di lì la discesa verso il Saresano, il monte sventrato.
Questa seconda opzione non è “paesaggistica”, ci si immerge in boschi di conifere che progressivamente sostituiscono quelli di latifoglie, la vista non spazia granché ma si può percepire tutta la spettralità della cava a picco sotto i piedi. La traccia rimane comoda e tuttavia il terreno è sconvolto, il sentiero lambisce più volte le reti che perimetrano l’area mineraria.
In ogni caso, mulattiera o Saresano, l’ultimo tratto di cammino per tornare al parcheggio sarà una porzione transitabile della strada solcata da crepe e interrotta, sconvolta dal movimento franoso. Una lingua d’asfalto ormai spettrale lungo la quale non si incontra nulla più che qualche raro e sparuto abitante.
Ci sarà di che discutere insomma. Del, e oltre il cementificio. Di un territorio incantevole e sfruttato all’inverosimile. Di politiche miopi e dannose, dell’incapacità di vivere col territorio e con le comunità anziché a loro scapito.
Recinzioni a monte della cava, poco sotto la vetta del Saresano
L’itinerario è adatto a tutti, la salita alla Santissima è ripida ma tranquillamente camminabile, su mulattiera. Il resto della percorso in cresta tra saliscendi e criticità da osservare ci consentirà di procedere con passo oratorio.
In tutto sono circa 400 metri di dislivello positivo. Necessaria acqua, lungo il percorso non ce n’è, per il resto traccia comoda, sufficienti calzature sportive. Durante l’escursione pranzo al sacco (in autonomia).
Al 28, pronti a indagare lo scempio. Qui a seguire anticipiamo un po’ della storia – delle storie – che sentiremo risuonare lungo il cammino.
Abbiamo raccontato l’onda e la percezione che di essa si è avuta quaggiù e sulla stampa. Sarebbe tuttavia riduttivo dire del cementificio solo per l’onda granda – anziché tsunami – come abbiamo preferito definirla: un cementificio non è soltanto quello, è prima di tutto devastazione e saccheggio.
Nel bel Paese del mattone – uno dei paesi che più consuma suolo, vorace di nuove edificazioni e abbandono delle preesistenti – questo tipo d’industria ha la strada spianata, peccato che a esser letteralmente spianato sia però altro: territorio, geografie, saperi e collegamenti tra comunità.
E allora raccontiamolo brevemente, questo mostro contro il quale opporremo i nostri spettri, le nostre visioni.
Il cementificio di Tavernola nasce ai primi del ‘900 e da allora passa di mano in mano in un alternarsi di gestioni più o meno fortunate.
Fino a tutta la metà dell’800 i paesi che affacciano sul Lago d’Iseo e sulla Valle Camonica erano poveri e contadini, i collegamenti fatti di mulattiere e barconi. Si campava di caccia, raccolta, agricoltura strappata ai pendii. Le risorse del territorio erano minerarie o legate alla ricchezza forestale, camminando a mezza costa è frequente imbattersi in Pojacc (carbonaie vegetali).
In questo contesto di miseria e in quello post seconda guerra mondiale un cementificio era sicuramente ‘tollerabile’, collaterale allo sviluppo infrastrutturale e civile – il tratto di strada che collega Tavernola a Lovere non si ebbe che nel 1915, si passava lentamente dalle baite alle case – e fonte di guadagno per intere comunità.
Allora, dall’apertura del 1906 e fino alla ricostruzione post bellica. Ma ora?
Ecco, appunto, a cosa serve questo mostro oggi?
Italcementi a Tavernola è un pugno nello stomaco, un’intera porzione di costa è abbruttita da corpi di edifici disarmonici. Il biglietto da visita di questo scorcio lacustre, in bella mostra all’ingresso del paese, o salendo verso Parzanica, è una serie di edifici abbarbicati sui pendii, i primi tornanti sono percorsi da una fitta serie di nastri trasportatori, silos, ciminiere e torrioni. Tanto il panorama è da meraviglia, da cartolina, quanto questo gigante malforme minaccia lo sguardo metro dopo metro. La montagna fitta di vecchie mulattiere e collegamenti è inagibile, pericolante, cintata e inavvicinabile.
Cementificio e panorama abbruttito
Sopra alla fabbrica, sopra e attorno Tavernola denti d’acciaio, martelli e mine hanno lasciato una costa mangiata, instabile, nuda di vegetazione. Se crollasse tutto il danno sarebbe incalcolabile, gli scarti di lavorazione, i rifiuti stipati fin dentro al ventre della montagna, nei cunicoli scavati per trasportare la marna a valle, rovinerebbero nel lago. E anche in assenza di cedimento la situazione non è poi tanto migliore. Che garanzie ci sono che i liquami non percolino tra le rocce, che non intacchino le sorgenti circostanti o recentemente scoperte?
L’onda in sé sarebbe il minore dei problemi, pietre, silice, solventi, scarti, rifiuti si riverserebbero nel lago compromettendo irrimediabilmente il suo intero ecosistema. E giù, a cascata chissà fin dove. Fino alla pianura padana, fino al Po?
Nonostante tutto questo per il comune di Tavernola riuscire a far definire il cementificio – con le sue continue cariche esplosive, con la continua erosione dei monti – concausa del possibile smottamento è stato molto difficile, perché chi è abituato a mimetizzarsi si gioca sempre una chance di fuga dalle responsabilità. Nel caso in questione, ad esempio, il fatto che buona parte della costa bergamasca è instabile, basta oltrepassare l’abitato di Castro per accorgersene, e che la porzione di Saresano interessata dal pattinamento sia percorsa da una paleofrana dietro la quale la proprietà è riuscita a nascondersi.
Ovvio, nel paese dei rovesciamenti minare un monte in dissesto non è un’aggravante, bensì prova utile all’assoluzione.
Del resto c’è chi ha più santi in paradiso che noi comuni mortali, come quella volta che la frana fece chiudere la bretella (la strada che collega Tavernola a Parzanica e Cambianica), era il 2010. Il Comune ottenne dal Tar che a pagare per il 70% fosse il cementificio, questi si appellò, perse il ricorso e così si nascose dietro una crisi finanziaria che gli avrebbe impedito di intervenire cacciando i soldi. Un ricatto bello e buono: per i nostri prodi imprenditori, colonna portante dell’economia, è sempre pronta alla bisogna una crisi provvidenzialmente apparecchiata ad uopo, dietro l’angolo del loro interesse.
Risultato presto detto: 8 anni e mezzo di chiusura.
Lo stesso nel 2020, ci sono voluti 15 mesi perché la bretella riaprisse, come abbiamo già scritto le comunità si sono trovate isolate, è stata asfaltata una mulattiera che ha notevolmente allungato gli abituali percorsi di salita e discesa. La strada che collega Parzanica e Vigolo versa invece in uno stato pietoso, nei pressi di Squadre è solcata da una lunga crepa nascosta da teli che dovrebbero impedire le infiltrazioni, ma che a occhi nemmeno troppo attenti si svelano subito per quel che sono: suture coreografiche a nascondere il disastro.
Quella strada, prima asfaltata allo spasmo per nasconderne il cedimento e ora chiusa da sigilli fatti di reti e plinti, continua inesorabile la sua discesa e con ogni probabilità non riaprirà mai più.
Ci si può convivere, si è obbligati a farlo, ci si abitua a esorcizzare la paura. Infatti i plinti sono stati spostati e biciclette, piccoli motorini, qualcuno a piedi passa. Quando crollerà, perché riteniamo sia inevitabile, e se mai ci scappasse l’incidente, a chi si darà la colpa? Alla causa di tutto quanto è stato descritto o ancora una volta si preferirà volgere lo sguardo altrove? Sarà criminalizzata un’amministrazione che non reprime? Si colpevolizzeranno i singoli esasperati?
La crepa aperta lungo il tratto di strada interdetto
Torniamo al Saresano, il monte sventrato. Il paesaggio post-apocalittico rimediato in anni di scavi selvaggi quantomeno ieri sfamava la comunità, per questo era tollerato. Il lavoro in cava, per quanto pericoloso e decurtante l’aspettativa di vita tra polveri e mine, era ambito. Lavorare in cementificio ha significato potersi permettere un tenore di vita migliore che quello della “normale” classe operaia.
Il cementificio mangiava Tavernola e Tavernola mangiava col cementificio.
Fino a pochi decenni fa nessuno si curava di strade e tetti imbiancati da polveri a mutare la percezione, borghi in centro alla Lombardia come villaggi polari.
A tal proposito abbiamo raccolto una storia: prati imbiancati e coppi che andavano in frantumi (anche interi tetti) perché il cemento depositato si legava con l’umidita, saldandosi, e poi li tirava fino a spezzarli, solidificandosi al sole. Tetti pagati dal cementifico che si comprava così il silenzio dei contadini poveri di mezza costa, particolarmente danneggiati dalle fumate. Ogni tanto il direttore faceva qualche sopralluogo accompagnato da un ingegnere, chiedeva ai contadini che nemmeno accusavano, riferivano semplicemente del problema, e faceva scrivere cosa andasse sistemato a spese “sue”.
Oggi si contano 70 operai, la maggior parte dei quali provenienti da altri cementifici chiusi in questi anni. Non sarebbe difficile ricollocarli, buona parte ne sarebbero anche avvantaggiati, trovandosi a lavorare più vicini a casa.
Tavernola non mangia più con la sua fabbrica, Tavernola sta per essere digerita da essa stessa. Fauci che s’ingozzano di territorio per sputare arroganza.
La marna che si cava è sempre meno pura, via via più ricca di silice, sporcata da argille. Esaurita (o pericolante) una cava si passa a un’altra, senza soluzione di continuità, in un costante e progressivo processo di accerchiamento del territorio.
Il movimento franoso del 2020 non ha fatto altro che mettere in luce il disastro di un’industria vecchia. Di un forno ormai trentenne più cotto lui che utile alla cottura della materia prima. Un forno che registra problemi continui, con una media di 30 fermate all’anno contro le 3-4 per ordinaria manutenzione.
Qui tocca aprire un inciso: da tempo i comitati segnalano fumate che fuoriescono dal camino del forno e vengono monitorate dall’ARPA, quando queste sono però dovute alle fermate, in un processo di riscaldamento che va dai 2 ai 3 giorni, nessuna legge obbliga al monitoraggio. 30 fermate annue per le quali non si registra nessun dato, digerite dal ventre di un camino in uno Stato cieco, in transizione ecologica apparente, ma in realtà ligio nell’assecondare gli appetiti del capitale. Basta grattare via la patina di retorica ed ecco che lo si trova scattante ad approvare e finanziare l’utile – il danaro – dei signori del cemento: la loro conversione da cementificio a inceneritore.
A quel punto il gioco sarebbe fatto: i cementifici possono bruciare rifiuti speciali in deroga – pratica non consentiti a normali inceneritori – e schiaffarli nel cemento prodotto. Altra perla italica, novello gioco delle tre carte: il combusto finirebbe dritto nel cemento, ne diverrebbe materia prima. In Italia si è ben pensato di non normare l’impiego di questo cemento: in altri paesi i sacchi vanno marchiati e utilizzati per opere infrastrutturali, da noi quel cemento può essere impiegato in tutta tranquillità per la realizzazione di edifici civili, con gli ovvi problemi che ne conseguono.
Eppure si continua a lavorare, la scusa stavolta è che non si cava dove il monte collassa ma altrove. Sì, sul versante opposto e in maniera più ‘intelligente’, mimetica.
La miniera attiva è invisibile agli occhi. Un’alta cresta la copre finché non si è sufficientemente alti. Soltanto da sopra, in quota, si vede la cava. I mezzi apricano e scaricano, si cava senza mine, a martello pneumatico ma si cava. Tutto attorno alle vecchie miniere, appena sotto alla nuova, stanno seconde e terze case di turisti alla ricerca di panorami incantevoli, con ogni probabilità ignari delle fauci d’acciaio che divorano sopra le loro teste. Fagocitatori di suolo anche’essi, piccoli emuli avvezzi alla mentalità del consumo gabbati dal pesce grosso: il cementificio costruisce, scava, sbanca, distrugge anche loro. Profitto sul territorio e profitto sulla gentrificazione, senza rispetto alcuno per le comunità stabili.
Potremmo continuare a oltranza, ce la chiacchiereremo invece in loco, del cementificio e di quanto poco sia il rispetto per tutto il territorio circostante.