“Assembramento” è la parola che abbiamo forse ascoltato di più negli ultimi tempi. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di assembramento?
Secondo l’ordinanza emanata lo scorso 21 marzo dal governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, per esempio, un’ammenda fino a cinquemila euro è prevista per chi non rispetta il divieto di “assembramento” nei luoghi pubblici (fatto salvo il distanziamento, si intende). Assembramento o adunata sediziosa? Considerando la pena, sembra ormai non esserci una grande differenza.
Eppure, almeno guardando certe foto che hanno circolato parecchio negli ultimi giorni, sembra che le strade italiane siano piene di “assembramenti”? È davvero così? O si tratta di persone che esercitano il loro pieno diritto a camminare, a respirare, a esercitare qualche segnale di vita al di fuori delle quattro mura in cui sono detenute da un mese?
Solo pochi giorni fa si è detto invece qui di come non sia difficile offrire una prospettiva distorta di un’immagine, anche senza troppi effetti speciali e far passare per un – oddio! – assembramento quello che, più probabilmente, e per ragioni del tutto fisiologiche, altro non è che una via centrale di un agglomerato urbano non deserta.
In questi giorni ci sono arrivati moltissimi racconti, talmente tanti che abbiamo deciso di tenerne un po’ per una prossima puntata. Nessun assembramento ma tante rivendicazioni solitarie del diritto inalienabile di muoversi nello spazio. Non proprio solitarie. Nel racconto di R. si parla di una passeggiata fatta da un padre e un figlio piccolo. È già stato detto che i bambini sono stati i grandi assenti nel caotico susseguirsi di divieti & decreti. Come è stato scritto su Facebook da un nostro contatto: A un certo punto, per un quarto d’ora, mia figlia ha avuto gli stessi diritti di un cane”, il tutto nel bel mezzo di una confusione al limite del grottesco.
Come ha scritto l’antropologa Rosa S. nell’articolo sopra citato:
Chi si occupa delle paure di questi bambini? Chi si occupa di rispondere alle loro domande? Le loro vite procedono sospese, appese ad un balcone [quando c’è, ndr] in attesa di un futuro “ritorno” che appare sempre più lontano.
Sta di fatto che poco o nulla sappiamo dei modi in cui le più piccole e i più piccoli stanno vivendo una condizione che somiglia per più di altri agli arresti domiciliari.
Per questo vi chiediamo di raccontare le vostre evasioni con i più piccoli, reali o anche immaginarie.
Il racconto di S1
La quarantena va avanti e non mi basta più neanche la comoda strada bianca che da casa si spinge verso est, d’altra parte uscire dal percorso tracciato è un esercizio che fa bene al corpo ed alla mente. Così qualche giorno fa decido di abbandonare quella striscia bianca, scendendo per i campi che la costeggiano, con l’idea di seguire i fossi sottostanti e vedere fin dove riesco ad arrivare senza incrociare strade battute. Non nascondo che la situazione è tale per cui lo stato d’animo è simile a quello che ho provato altre volte solo prima di partire per lunghe e impegnative escursioni in montagna: quel misto di incertezza ed euforia, impazienza e gioia.
La tempistica della mia scelta lascia un po’ a desiderare, dopo quattro mesi di precipitazioni pressoché nulle, decido di partire con il primo giorno di sole a disposizione dopo 48 ore di piogge abbondanti. Risultato? Il simpaticissimo terreno argilloso che caratterizza questo tratto collinare, reso zuppo dagli acquazzoni, ha intrapreso un rapporto morboso con le mie scarpe e dopo poche decine di metri la mia statura è aumentata di 5 centimetri e il mio peso di almeno 3 kg. Ma tant’è, è una splendida giornata di sole, si va avanti cercando di preferire i tratti erbosi e “scaricando” le scarpe quando la quantità di terra che le abbraccia è veramente eccessiva.
Unico compagno di viaggio in questa escursione è il mio bastone nodoso ricavato dal ramo di un olmo spezzato dal vento. Nei giorni di pioggia che hanno preceduto l’uscita mi sono dedicato alla sua sistemazione, levigandolo con un coccio di bottiglia e scoprendo che sotto al sottile strato di corteccia oramai secca il lavorio dei vermi aveva creato dei disegni fantastici, tracce di “escursioni legnose”, linee di Nazca indecifrabili.
Dubito che di fronte a un cinghiale sarà sufficiente brandirlo urlando “you’ll shall not pass” per evitare problemi, ma come appoggio nei punti più scoscesi farà egregiamente il suo lavoro. Raggiunto il fosso inizio a seguirlo procedendo verso est / sud-est, con l’Appennino, che a volte si nasconde dietro alle colline, di fronte a me. La prima cosa che noto con piacere è la continua presenza di tracce di fauna selvatica: impronte, sentieri e soprattutto merda. L’osservazione della merda degli animali, lo confesso, per me ha sempre avuto un certo fascino. Perché, è bene ricordarlo, la merda non è mai tutta uguale – se vi sembra che questa possa essere una metafora anche per altro, non preoccupatevi, è esattamente quello che voglio dire – e spesso dalla sua osservazione riusciamo a capire chi potremmo trovarci di fronte lungo il cammino. Qualche esempio. Escrementi di piccole dimensioni intrecciati con il pelo vi indicano che molto probabilmente una volpe gira in zona. La dimensione della cacca è quella di un cane di taglia medio-grande e il pelo abbondante? Probabilmente un Canis lupus ha abbandonato le tracce di cappuccetto rosso per liberarsi di un peso. Le fabbriche sono aperte e gli operai sono costretti a lavorare? Molto probabilmente Confindustria è passata di lì. Merda a parte, durante la mia camminata ho incontrato solo fauna pennuta: qualche colombaccio, un fagiano maschio, due poiane che con il loro lamento acuto mi hanno accompagnato dall’alto per i primi chilometri. Lungo il fosso, spinta da pioggia, vento e forza di gravità si è qua e là accumulata anche altra merda: buste di plastica, contenitori di detersivo, bottiglie di birra, pacchetti di sigarette e, immancabili in campagna, cartucce di ogni colore.
Anche queste tracce ci dicono molto su chi vive questi luoghi, credo si tratti della tipica merda di Homo sapiens. Continuo a camminare e magicamente riesco per svariati minuti a liberarmi da quella nenia costante che da giorni mi riempie il cervello “quarantena, quarantena, quarantena, quarantena, quarantena, quarantena, …”. Momenti preziosi in cui riesco a concentrarmi esclusivamente su altro, non una fuga dalla realtà, semplicemente quel fosso mi ha chiesto “vuoi svuotare la cache?” e io per una volta ho risposto “perché no!”.
Come da programma, arrivato a poche decine di metri dalla strada asfaltata, ho girato i tacchi – e in questo caso non solo in senso metaforico, data la quantità di terra accumulatasi in corrispondenza dei talloni – e ho ripreso la “strada” verso casa. Decido di percorrere per un tratto l’altro lato del fosso e scopro che, complice il pendio ripido, ha da offrire più campi incolti rispetto a quello percorso all’andata. Margherite, qualche tulipano selvatico e l’immancabile colza mi dicono che la primavera se ne frega del virus. Guardo le lancette dello smartphone e scopro che sono fuori da circa tre ore: il mio stomaco aveva ragione. Accelero il passo con le endorfine che nel frattempo fanno il loro lavoro e arrivo a casa con l’idea di aver passato qualche ora “necessaria”, almeno per me. Necessaria per mantenere una lucidità che ora ci serve come il pane, per evitare di essere travolti e per scovare la morale della favola, di questa favola collettiva a tinte fosche che stiamo attraversando. Perché una morale come sempre c’è, ma bisogna trovarsela da soli.
Gli uccellini, i lupi, le margherite, Confindustria, a me queste storie di merda mi fanno scoppiare la testa (semicit.)
Il racconto di M1
Sono tre giorni che dormo poco e male nonostante mi sia sforzata di mantenere un ritmo biologico mediamente ordinato in queste assurde giornate di isolamento; ieri sera, parlandone al telefono, un amico mi ha chiesto quando fossi uscita l’ultima volta a fare una passeggiata. Ho esitato “non lo so”, non me lo ricordo. Stamattina riesco ad alzarmi dal letto intorno alle 12.30 e devo aver dormito almeno un po’ perché ricordo di aver sognato che mi inserivano sottopelle un pesce ancora vivo coperto con del sale grosso nell’avambraccio sinistro e poi mi ricucivano; non saprei dire chi né perché lo avesse fatto ma ricordo la sensazione orribile di angoscia che provavo per quel gesto crudele e incomprensibile che avevo subito e per quell’arto mostruoso. Guardo il telefono e un messaggio di mia madre sul gruppo famigliare ci avvisa che G. è morta. Faccio un caffè, mi lavo la faccia, stavolta sono sveglia.
G. aveva più di 90 anni, era costretta a letto senza potersi muovere da due, ma con questo virus di merda non c’entrava niente. È stata una donna libera, fortissima e indipendente, non si è mai sposata, non ha avuto figli e ha sempre vissuto da sola finché ha potuto, ma la sua casa e le sue mani sono sempre state piene. Era una di quelle che ci teneva ai riti, il caffè da lei era un riferimento per tutte le anziane del quartiere ed era bellissimo ascoltare da loro le stesse storie che ogni volta si animavano di richiami diversi. G. avrebbe voluto un funerale con la chiesa piena, la messa commossa e tutti i suoi bei fiori. Ci ho messo un paio d’ore a riprendermi poi ho tagliato al gambo due rametti storti di fresie bordeaux dall’unico vaso che ho in cortile, ho rubato due rami di verde dalla siepe di fronte e li ho legati insieme con un nastro di riciclo a colore. Ho cambiato il pigiama con la tuta, coperto le lacrime con gli occhiali da sole, preso lo zaino e sono uscita a portarglieli.
È domenica, è cambiata l’ora ed è tornato il sole; intorno alle 14.30 la maggior parte della gente del paese si affaccia al balcone a cercare un’interazione coi vicini o a giocare nel giardino coi bambini; li percepisco ai lati procedendo a passo lento e testa bassa al centro delle strade vuote. Al mio passaggio le conversazioni si sospendono, immagino che mi guardino interrogandosi su quale genere di insolente motivo mi faccia trascinare in modo così lento e distaccato con quel triste regalo in mano. So già cosa rispondere, per fortuna nessuno ha da dire, forse si intravede la testa agonizzante del pesce affacciarsi dal mio braccio scoperto a causa del caldo, o se ne sente l’odore. Le disposizioni sanitarie prevedono che a casa di G. si possa entrare due alla volta ma so da mia madre che la donna che se ne occupava, consumata dalla prolungata assistenza premorte e dalla paura del contagio, non vuole gente intorno quindi busso, le passo i fiori, ci scambiamo due frasi senza senso e vado via senza entrare percorrendo strade diverse, con le mani vuote nelle tasche.
G. l’avevo già salutata molto tempo fa, quando ancora riusciva ad accertarsi dal suo letto che qualcuno mi avesse preparato il caffè e mi salutava augurandomi tutto il bene del mondo e ringraziandomi per la visita.
Il racconto di S2
Cavriago, paesino quieto d’una valle emiliana. Sono arrivata qui un mese esatto fa, per salutare l’uomo che amo e la sua famiglia. La sera stessa, Reggio Emilia si aggiudica il titolo di zona rossa, e io, per non fare la parte de “L’esule dal Nord” resto buona buona dove sono. Ho, certo, qualche esitazione: passerò la quarantena in dolce compagnia, ma lontana da casa. E poi, quanto durerà? Gli ospiti sono come il pesce: dopo tre giorni puzzano… Mi rincuorano le passeggiate con R..
Il paese è calmo e svuotato, ci portiamo le cuffie e scambiamo nuova musica come figurine. Galoppiamo gli isolati a suon di album, facciamo gli sciocchi per strada. C’è gente ancora che ne sorride. Ma passano le settimane e i decreti, e anche R. si spaventa: non esce più volentieri, e se lo fa, diventa paranoico. Mai come prima in vita mia, mi trasformo in una gentilissima dissidente. C’è un campo gigantesco, accanto alla mia casa adottiva. Ettari di margheritine, piscialletto e bei platani. E altri alberi che stanno fiorendo, e che ancora non sono riuscita a catalogare. Un’occasione troppo ghiotta: comincio a frequentarlo, ogni giorno, fino a sera. Mi porto prima i libri, poi acquisto fiducia e prendo in spalla una chitarra. Non c’è nessuno. Sono pomeriggi di grandi soddisfazioni musicali e cinguettii nelle registrazioni. Ma forse, alla zitella che porta a spasso il chihuahua sei volte al dì, la cosa non dev’esser riuscita troppo digesta. Insomma, una ragazza tutta sola sotto un platano che canta è un veicolo letale di goccioline… così, oggi, a tempo di sei ottavi, mi corre incontro una figura maschile.
No, non è R.. Ha una vistosa mascherina e un’ancor più vistosa divisa della Municipale. «Signorina, lei è maggiorenne?». L’approccio è certamente gratificante per una che ha passato il quarto di secolo. «Mi dispiace, lei non può stare qui. Ha un documento?» Non ho documenti. Sono una sprovveduta. Una ragazza tutta sola canta sotto un platano senza documenti. «Lei dovrebbe guardare i telegiornali, signorina». Sì, li guardo. Ci sono fior fior di artisti sbruffoni che vomitano hashtagiorestoacasa pur di farsi vedere prima della pubblicità. E beceri sopra i balconi che ballano l’Inno di Mameli versione bachata, e i miei coetanei che si suicidano. E io, dove nessuno mi può sentire alle 18, canto tutta sola sotto un platano. «Ci sono persone che stanno morendo. Non si può stare fuori e basta». Non rispondo. Divento vigliacca, davanti alle autorità. Metto la chitarra in custodia, e con il sorrisone che può avere solo chi è stato tutto solo sotto un platano, prendo la multa.
Il racconto di A
Premessa: essere un maestro di sci (e per giunta nato sul mare) e avere determinati riferimenti culturali, etici, affidarsi a uno sguardo sul mondo che si possa ritenere – a ragione, o meno – “rivoluzionario”, in un posto come Cortina, porta inevitabilmente a sentirsi, per certi versi, perennemente isolato. È difficile dire quante volte nel corso di una stagione ci si possa chiedere le motivazioni, trovando quasi sempre risposte sbagliate, rattoppate, giustificazioni di comodo che aiutano per niente a farsi un po’ più forti, a sentirsi un po’ più parte di quelle terre, di quei modi d’essere così antichi. A Cortina a salvarti possono solo essere le montagne.
Agli inizi di marzo (o sul finire di febbraio, non ne sono sicuro) è venuta giù una gran nevicata, di quelle che si aspettano per una stagione intera, se si è sciatori, come colti dall’arsura del deserto in questi anni strani, in cui anche ciò che c’è di più limpido nel mondo pare deperire in fretta, senza sconti, a mo’ di punizione – questa, forse, non da tutti meritata. La terra già stopposa e secca dei sestieri, finalmente, tornava a ricoprirsi del bianco d’un inverno insperato e, dopo due giorni di fitta neve, le ritte pareti dell’Antelao si mostravano di nuovo alla luce del sole, dinnanzi al terrazzo dell’appartamento dove alloggio ogni inverno, orlate di corone bianche rilucenti di una grazia assolutoria.
Il 7 marzo capita un avvenimento raro, per essere ancora, benché sul finire, dell’alta stagione. Scopro che i bambini cui sto insegnando da tutta la settimana, per le più svariate ragioni, non si fermeranno con me a sciare anche dopo l’ora di pranzo. All’una corro a casa con tutta la fretta che può istigare in me un manto nevoso fresco tutto da domare, prendo lo zaino con l’equipaggiamento da soccorso in valanga e i miei sci da freeride, chiamo mio fratello che so essere a sciare in 5 Torri, “andiamo a fare un po’ di fresca?”, e (si sono fatte quasi le due, al pranzo ormai ho rinunciato) finalmente prendo l’impianto da Bai de Dones. Costeggiamo le Torri tenendoci sul versante Sud, poi le aggiriamo per buttarci a Nord, tra i fitti boschetti in cerca di qualche linea ancora vergine: la Tofana di Rozes ci sorveglia con il suo carattere femminile, risoluto. Due o tre discese, pellando in su di volta in volta sulla facile viottola battuta dalle ciaspe, poi raggiungiamo la statale e torniamo agli impianti con lo skibus. Raggiungiamo in un batter d’occhio la seggiovia della Croda Negra, e giunti in cima subito ci buttiamo a Nord, tenendoci in costa e “rubando” appena quattro curve in neve vergine prima di infilarci in un canalino macinato, che ricongiunge alle piste. Mio fratello ricorda le parole di una guida del Tarvisiano (terra cui io e lui non restituiremo mai a sufficienza, per quel che ci ha insegnato): “è buona la bistecca, ma se c’è pulferschnee [neve polverosa, nda] va benissimo anche l’hamburger”. Lo sciamo fino in fondo, con gusto, arrischiando anche qualche cliff e altri passaggi forse valutati troppo generosamente a priori (ma sufficientemente in sicurezza, per essere la prima e ultima uscita in fresca della stagione). Alle cinque siamo in parcheggio, gli impianti chiusi, e tre ore di libertà erano valse i malumori di tutto un inverno.
Tre giorni dopo, ci dicono che siamo in guerra, o che è come se lo fossimo. Ed è tutto finito.
Dieci giorni dopo, il 17 marzo, risalgo placidamente la strada sterrata che parte dal borgo dove trascorrerò anche questo inverno mutilato i suoi ultimi giorni, e arriva fino ai margini del centro del paese. Attraversa un dolce pendio erboso che infine incontra il Boite, la neve che si scioglie, raccogliendosi in rigagnoli, mi taglia la strada per andare ad ingrossare il torrente, e scorgo, stranamente vicino, un branco di cervi che mi fissa, come messo in guardia dal rumore dei miei passi, che io troppo spesso do per scontato; procedo più accorto, per nulla intento a farli correr via. E’ un sollievo, dopo dieci giorni, rincontrare il fresco morente della montagna che va verso la bella stagione. E’ un sollievo, nonostante la malinconia, mettere un piede davanti all’altro, via da quella soglia che ti è stato ingiunto essere il confine del mondo, di tutti i tuoi spazi, finché non cesserà l’emergenza, finché la crisi non sarà passata: come nella speranza che, curando il sintomo, passi anche la malattia. Mi mancano le persone: ne noto due camminare, lontano avanti a me, nella mia stessa direzione. Immagino l’eccitazione che proverei, il vigore che mi attraverserebbe, potessi anche solo scambiare un saluto con loro in quel momento.
A metà del percorso tracciato dalla mulattiera c’è una panchina che guarda il Cristallo e il Pomagagnon. Mi siedo lì, completamente solo, a leggere non ricordo bene se Gadda o Inventare il futuro di Srnicek e Williams (ci sarei tornato almeno un’altra volta, infatti, a leggere su quella panchina). Per un momento perdo l’idea di essere costantemente sorvegliato. Per un momento, a guardarmi sono solo le gigantesche Dolomiti.
Il racconto di M2
Parte 2: ginestreto
Sventola al vento che spazza da Nord la collina una bandiera appuntata sulla cima di un albero che incombe sulla casa. Sono brandelli di plastica bianca e l’albero è secco. La mappa che ho in mano si piega, vola via, si rovina: niente, tutto da rifare, un giorno che non c’è vento. L’unica cosa che sono riuscito a capire è che il giro, ben segnalato in nero nelle carte militari, non esiste più. Comincio a scendere la collina: in alto spoglia, con i campi e le case e il cielo, di sotto un caos: alberi, arbusti, liane, acque, frane. La biodiversità e il comfort, le mappe e la realtà, rimugino alcune di queste cose mentre scendo in picchiata e inciampo sulle radici dei pioppi che preannunciano l’intricato fondovalle.
Alla fine della discesa la collina finisce in un fosso, anzi nell’incrocio tra un fosso e un ruscello, che più avanti entra in un torrente e poi sfocia nel mare Adriatico. In quel punto la terra sprofonda, è argilla e sabbia gialla e fina, specie se ci passano sopra con camion pesanti di legna. Si aprono degli squarci nella terra che fanno credere che qualcosa è andato storto, qualcuno ha sbagliato i conti! Sotto un gruppo di salici e i pioppi neri mucchi di cortecce, tronchi, ciocchi di legna e macchinari coperti da teli di plastica fatti a brandelli. E i lembi dei teli di plastica volano dappertutto.
Una lunga linea d’oro di canne entra nel bosco. Quattro poiane volano a cerchi sopra la mia testa mentre mi apro una breccia.
Sono entrato nella boscaglia, seguendo la bassa pista dei cinghiali, rovi ad altezza occhi, spunzoni di rami e zecche. I rovi fanno parecchio volume, ma di sotto è tutta aria, circa, e spine. Ci sono più strati: da quelli secchi e ormai neri, marci, a quelli più chiari, gialli, ancora duri, fino ai grossi cordoni appuntitissimi verde scuro e chiaro.
Generalmente odiati dallo stesso popolo che invece ama i cactus, e credo che valga anche il contrario.
Non mi ero mai spinto oltre quel punto: lì il mio mondo finiva (dove all’incirca finisce anche quello dei camion della legna), semplicemente aggiravo la macchia ed entravo in un campo incolto, almeno finché non cresceva troppo l’erba e allora non passavo più neanche lì.
Per riaprire quel vecchio sentiero ci sono volute tre tappe. È un lavoro fatto a tentoni, segmento per segmento, tanto è il tempo richiesto e fanno male le mani a furia di sforbiciare rovi. E poi è vero che a ripercorrere il sentiero liberato, quando arriva la sera, la soddisfazione è davvero troppo poca! Ci si mette un attimo, o poco più, non rende giustizia del lavoro fatto e soprattutto degli scenari psicologici, i vari quadri che si sono succeduti. Il tratto con l’edera che ricopre tutta la terra e gli alberi, e si vede il fosso, quello nel fitto degli allori e della fusaggine, i guadi con i pioppi neri, le cataste di rami, il pianoro dei noccioli e il bosco rosso di querce e canniccio (dove il sentiero rispunta). Ogni habitat è il corrispettivo di una città, o di una provincia, e ad ognuno corrispondono sentimenti disparati.
Ad ogni modo alla fine ho raggiunto, credo, il luogo più inselvatichito di questo viaggio: il punto più lontano da qualsiasi rotta logica che si possa provare a tenere tra questi colli. Una traccia si stacca dal sentiero principale che conduce a Ginestreto. La traccia potrebbe portare verso il paese successivo: Monteciccardo. In pochissimo tempo si raggiungono delle inaspettate rocce grigie affioranti molto belle, si finisce in una scarpata che termina in una radura del fosso, una specie di golfo tra i pioppi. Un posto mai pensato. Da qui non so se si può proseguire.
La questione è scrivere, leggere, riscrivere: percorrere una via, un sentiero, una traccia, o crearne una nuova. Fa differenza andare dietro la pista di un gruppo di animali, o di qualche essere umano (anche se spesso e volentieri le due vie si sovrappongono). Ti fai un’idea di chi è passato la prima volta, t’immagini cosa poteva avere in testa.
Così come il possesso di più lingue, la conoscenza di più generi musicali, o stili di vita, un’idea variegata della storia, della politica, della società, le letterature, i passatempi, i lavori, anche la conoscenza di un buon numero di sentieri, specialmente quelli che partono da vicino casa, è una questione da non sottovalutare.
I sentieri servono per evitare qualcosa: strade asfaltate, luoghi rinomati, capannoni e amenità varie, fossati invalicabili, cortili con cani-da-spavento, recinti, burroni, paludi. Si aggirano ostacoli di ogni tipo, pezzo dopo pezzo, finché non finiscono le curve e i rettilinei che si susseguono, uno dopo l’altro, tra gli alberi, le rocce, la macchia, i campi. Alla fine un panorama qualunque si apre.
Il racconto di L1
Abito in una via non molto larga, non molto lunga, un piccolo collegamento privo di traffico tra due strade più importanti, che da quando mi ci sono trasferita non svolge neanche più questa modesta funzione a causa di lavori e cambiamenti ai sensi di marcia. In pratica non ci passa mai nessuno e ci si può godere il sole del tramonto su una panchetta mentre la luce scende dolcemente. Tutte le case sono provviste di balconcini graziosi, un paio hanno anche piccoli giardini privati. Case vecchie, vecchio quartiere popolare, probabilmente campagna ancora un secolo fa. Nelle ultime settimane lo esploro con piacere, scopro le porte più belle e conto le piante rampicanti sugli edifici, saluto le persone fuori, vecchi seduti sulle sedie in strada, bambini e bambine che giocano a palla o girano in bici. Quartiere di immigrati di prima, seconda o terza generazione, in cui hai più probabilità di essere apostrofata direttamente in arabo se sei un tipo mediterraneo occhi scuri capelli neri. Il pane che ammuffisce per strada è quella focaccia di semola morbida che io riesco a malapena a far arrivare intatta a casa rientrando dalla panetteria, spero che i piccioni gradiscano.
Niente poliziotti, niente ronde di quartiere qui. Al massimo una rete di mutuo aiuto per i senza tetto e le famiglie in difficoltà. Tossicodipendenti e persone senza fissa dimora infestano le strade delle città come zombie disperati alla ricerca di cibo o di qualcos’altro, qualcosa per andare avanti. Attori infestanti delle strade che si vorrebbero sterili e vuote, “sicure e decorose”. Ma qui non siamo in Italia (per fortuna), anche se condividiamo un clima mite e un bel tempo quasi estivo ultimamente. Da settembre vivo e studio nel sud della Francia, il mare a meno di 10 km da casa. Il sole che picchia a mezzogiorno da tre settimane di quarantena e il coprifuoco che comincia alle 21 da una decina di giorni. Eppure io e il mio compagno usciamo tutti i giorni anche più volte al giorno. Senza il cane. Senza la tuta da jogging. Per fare la spesa: la Biocoop per la roba sfusa, il Lidl, il negozio delle uova di campagna a 1,60 €, la panetteria buona che fa gli sconti, la macelleria/panetteria araba, il Casino (anche se ora non ha più la macchina per la spremuta di arance per motivi d’igiene), la frutteria lì di fronte…
Nessuno ci ha mai fermato tranne che per chiedere due spicci, nessuna autocertificazione è mai stata prodotta. Oggi per la seconda volta questa settimana siamo andati a prendere un gelato al negozio armeno: un delizioso formaggio (творог) chiamato сырок quando è tipicamente ricoperto di cioccolato. La strada principale accanto alla nostra casa era piena di piccoli “assembramenti” di persone che offrivano sigarette o “shit” [fumo, hashish] o semplicemente prendevano il sole, come qualche ragazza al balcone. Oggi ho visto poche mascherine. È vero anche che non è mai passato giorno senza vedere almeno una macchina o camionetta della polizia, e che ieri sembravano controllare le persone alla fermata dell’autobus oltre che gli automobilisti. Eravamo appena usciti dal Lidl con una spesa di 4,50€ (pane, humus, uova di pesce) dopo che il cassiere ci aveva informato che rischiavamo più di 200€ di multa essendo usciti in due e non trattandosi dell’acquisto di “beni di prima necessità”.
Confesso che l’umore ci si è brevemente guastato, finché una piacevole scoperta non ha riportato la bilancia in asse: un muro del quartiere fattosi bacheca d’informazione per iniziativa popolare riporta qualche testimonianza e appello di medici “dal fronte” che denunciano la gestione dell’emergenza e la crisi più profonda che l’epidemia rivela (certamente sistemica, cioè non solo sanitaria o economica, politica, ma anche ecologica…), informazioni su una rete locale di interventi di solidarietà, poesie, e una testimonianza dal 2040 quando George comincia l’ultimo rotolo di carta igienica della scorta che i genitori avevano fatto nel 2020.
Due giorni fa alle 8 di sera non solo i balconi erano pieni di agitazione, ma anche le strade: dalle padelle di mamma e papà al violino di una ragazzina alla finestra, alle maracas e alle grida e ai balli di giù. Mai come ora ho provato un senso di appartenenza e radicamento nel quartiere dove vivo, che mi sembra cogliere il meglio del momento presente e restituirlo a chi è pronto ad accoglierlo. Niente gruppi whatsapp di spionaggio qui, qui la polizia non è mai entrata dall’inizio della cosiddetta emergenza, qui le strade mi appartengono. Tra un salaam e la musica di una finestra aperta, un po’ di terra e di transenne cadute, un bel po’ di spazzatura che aspetta di essere raccolta. Strade tranquille, giocose, sicure, decorose.
Il racconto di R
Oggi sono uscito per far avere a mio figlio E. la sua mezz’ora d’aria, cercando passare per le vie meno battute, ma anche di evitare i marciapiedi eccessivamente sconnessi, che non sarebbero stati percorribili per il suo monopattino. Erano circa le tre del pomeriggio, e le strade erano praticamente deserte, si percorrevano centinaia di metri senza incrociare un solo altro essere umano. A un certo punto siamo passati davanti al cancello chiuso della sua scuola materna, dietro al quale il cortile era quello di sempre, ma non lo sembrava. Persino il suo silenzio, o il suo essere vuoto, non erano gli stessi di un qualunque weekend di qualche mese fa. E. ha tirato dritto, non so se non abbia riconosciuto la scuola per il fatto che ci siamo arrivati da una direzione diversa da quella solita, o se l’abbia volutamente ignorata.
Tornati vicino a casa abbiamo visto che il microparco dall’altro lato della strada non era più chiuso dalle fettucce biancorosse, ma nonostante ciò rimaneva vuoto. Quando siamo arrivati ad una decina di metri E. mi ha urlato “Ma non è carnevale”, io ho iniziato a guardarmi intorno, ci ho messo un po’ per capire che aveva scambiato per coriandoli i petali di ciliegio che il freddo degli ultimi tre giorni ha abbattuto. Chissà se dopo esserci liberati dal delirio del coronavirus riusciremo ad aprire gli occhi abbastanza da occuparci del disastro ambientale che ogni anno si segnala più inequivocabilmente. Ci siamo avvicinati all’albero, alla base di un muretto il vento aveva accumulato un bel mucchio di petali ed E. ha deciso di insistere nell’equivoco lanciandoli come coriandoli, sotto lo sguardo di disapprovazione di una coppia in attesa alla vicina fermata dell’autobus.
L’ho lasciato fare per un paio di minuti, poi siamo ripartiti, abbiamo circumnavigato ancora un isolato e siamo tornati a casa, mentre io per l’ennesima volta cercavo inutilmente di capire come stesse metabolizzando questo periodo in cui in brevissimo tempo si è visto privare della scuola, della compagnia del suo migliore amico, che i genitori hanno subito rinchiuso in casa, di quella degli altri bimbi del cortile, e infine anche della possibilità di giocare all’aperto, potendo concedersi solo brevi uscite furtive come questa, il tutto perché qualcuno ha deciso che il diritto di produrre bombe è più importante di quello di crescere un bambino in modo sano. Continuo a chiedermi come sta, ma non lo saprò oggi, non mentre col monopattino si lancia verso casa su un tratto di marciapiede un po’ meno malmesso, e appena lanciato si volta a farmi un sorriso, come se volesse tranquillizzarmi.
Il racconto di L2
Siamo fortunati. Viviamo in un posto circondato dalla natura, quella antropizzata, ma che ancora resiste abbastanza bene. Ce ne stiamo incastrati tra le Alpi Apuane e a pochi chilometri dal mare. Qui, per noi, la vita è bella. Nel giro di poche decine di minuti riesci a passare dalle montagne a una riserva naturale sulla spiaggia. Se non fosse per qualche stronzo che si mangia i monti con le cave e la maggior parte del passaggio a mare ostruito dagli stabilimenti balneari – paesaggisticamente parlando – staremmo in una specie di paradiso.
All’inizio di questa quarantena io e il mio compagno riuscivamo ad andare ancora per monti. Pochi minuti di macchina ed eravamo tranquillamente lontani da tutti e tutto, in pace. Nessuno poteva trovarci. La seconda settimana abbiamo ridotto sempre di più il nostro raggio d’azione e ci siamo limitati ai boschi sulle colline intorno. Poi, un po’ per una sorta di paura instillata, un po’ per quel senso di dovere civico che ci frega sempre, ci siamo fermati e durante la terza settimana non siamo quasi più usciti. Abbiamo pensato che fosse giusto che ognuno facesse la sua parte.
Dopo qualche giorno però la smania e la voglia di evasione sono cresciute. Il senso di oppressione ci ha soffocati.
Allora abbiamo cercato di distrarci. Abbiamo lavorato la terra fuori nel nostro minuscolo giardino. Per due giorni ci siamo tenuti occupati. Abbiamo vangato, tolto sassi, seminato un po’ d’erba. Il terzo giorno eravamo stanchi, ma sedati. Il sole, però, ha iniziato ad essere sempre più caldo, i merli a fare tappa fissa qui fuori, i fiori hanno iniziato a sbocciare, i caprioli sono andati in amore e di giorno ululano e abbaiano – dico sul serio, come dei cani – fuori dalla finestra. L’umore, già altalenante, ha iniziato a vacillare. Ci siamo chiesti quanto tutto questo generalizzare e creare sensi di colpa fosse giusto, quanto ci fosse di vero in tutta questa situazione che ha del surreale.
Allora qualcosa che si stava già facendo spazio dentro di noi prima di tutta questa situazione ha iniziato a pressare sempre di più. Il bisogno di stare ancora più a contatto con la natura. Di sapere come questa prende vita. Di sporcarsi le mani.
Li ho contati su Google maps. Ci sono all’incirca 600 metri – almeno il doppio “gentilmente concesso” – che ci separano dall’orto del nonno di F., il mio compagno. S. ha più di 80 anni, un uomo duro, come la terra che lavora e i mattoni che ha impilato per una vita. Un uomo buono, ma un po’ burbero, di poche parole, si direbbe all’antica. S. di solito ci passa tutto il giorno nell’orto. Produce una quantità di verdura che ci permette di non doverla quasi mai comprare al supermercato. L’ho detto, siamo fortunati. Ma S. ora ha paura e per la prima volta negli ultimi 65 anni circa, ha smesso di andare all’orto. Di casa non esce. Meglio non rischiare con la salute.
E allora abbiamo deciso di farla questa evasione molotov e ogni giorno usciamo di casa, percorriamo quei 600 metri e andiamo ad innaffiare pomodori, melanzane e peperoni in serra. E, a dirla tutta, ci andiamo anche quando non c’è niente da innaffiare. Percorriamo un po’ di strada asfaltata e un pezzo di una mulattiera. Ci sediamo su una vecchia cassetta di plastica e ascoltiamo le api ronzare, gli uccellini cantare, il rumore del vento. Abbiamo trovato dell’aglio selvatico. Ci siamo sporcati le unghie di terra. Abbiamo pensato che alla fine questa cosa “s’ha da fare”.
Ci manca la nostra gente. Vorremmo averla qui con noi. Vorremmo condividere con loro quel pezzo di terra, quegli odori e quei rumori che abbiamo la fortuna di sentire ogni giorno.
Di una cosa siamo sempre più convinti: che in futuro dovrebbe esserci un orto per tutti, per evadere e per coltivare la terra. E se stessi.