Giugno 2018. La banda di Alpinismo Molotov si muove insieme
Prima di partire
Il “bacillo dei sassi” si manifesta con modalità molto diverse tra loro, trova il modo di palesarsi anche in situazioni limite. Così anche in questi giorni di quarantena ed uscite contingentate si fa largo tra decreti, ordinanze e posti di blocco per trovare il modo di esprimersi. Andare in montagna ora diventa quasi un’utopia, ci si sente come Felice Benuzzi che dal campo di prigionia osserva il Monte Kenya. Tuttavia ciascuna e ciascuno di noi per fare la spesa, per costrizioni lavorative, per le esigenze del cane o anche “semplicemente” per non impazzire esce di casa e cammina.
In questo contesto quelle che in altra situazione sarebbero normalissime passeggiate diventano “altro”, diventano vere e proprie escursioni molotov. Anzi, in questo scenario di parchi chiusi, controlli e barriere, è possibile che siano le uscite più molotov che ci sia mai capitato di fare. In fondo «[…] l’alpinismo è “molotov” nella misura in cui fa emergere nuove contraddizioni e nuovi strumenti concettuali, narrativi cognitivi per affrontarle. Si va in montagna per tornare con “nuove armi” da sfoderare nella nostra quotidianità Si va in montagna consapevoli che si procede sempre in bilico». (cfr. il manifesto di Alpinismo Molotov).
Mai come in questo momento abbiamo bisogno di far «emergere nuove contraddizioni» e dotarci di «nuovi strumenti, concettuali – narrativi – cognitivi».
Da qui l’idea di raccontare le nostre escursioni – poco importa se di chilometri lungo fossi o di poche centinaia di metri per fare la spesa – nel tentativo di inquadrare da prospettive oblique quel che ci circonda e restituire ex post, almeno nel racconto, la dimensione collettiva di quel procedere a passo oratorio che oggi ci è negata. Ecco dieci racconti di fughe molotov dall’isolamento in casa.
Il racconto di M
“Oh ma g’avè visto i francesi?”
“Ciò, tutti a magnar e bever sua Senna!”
“See, ei inglesi???”
“Xe fora quei. Semo in merda nialtri che g’avemo tutto serà, figurite là!”
“Ma ea regina, secondo ti?”
“Eeee ea regina! Quea ne sotera tutti!”
“God saves the Queen!”
Un pomeriggio di sole, conversazioni da balconi veneziani in tempi di virus e isolamenti più o meno volontari. Mi viene in mente un vago ricordo di “Cronache di poveri amanti” di Pratolini, evocazioni di vita di quartiere.
I balconi offrono nuove forme di aggregazione a distanza, e per fortuna nessuno intona a squarciagola che è “pronto alla morte”, almeno per oggi.
In questa situazione mi ritengo molto fortunata perché stare a casa per me non è un peso: oltre a essere uno spazio che di norma vivo poco, è anche un posto confortevole, siamo solo in due (e mezzo contando A., la pelosa) e andiamo d’accordo, e possiamo anche approfittare del già citato balcone. Leggere #staiacasa spammato praticamente ovunque mi crea però una certa forma di orticaria. Possibile che non ci si interroghi sul fatto che stare a casa, e starci bene, possa essere un lusso? Evidentemente è possibile, se la promessa di uccidere una donna diventa virale e stuoli di gente ci fanno su grasse risate:
“Ve lo dico, io la ammazzo” in veneziano.
È anche per disintossicarci da un uso eccessivo di social e telefoni che il nostro rito serale di passeggiata con A. è diventato sacro. Viviamo a Sant’Elena, gran fortuna di questi tempi, è una delle zone più verdi di Venezia. Anche se di giorno si vede un po’ di movimento, tra chi fa ginnastica e chi fa la spesa, la sera l’isola sembra semi-deserta.
A dire il vero, tutta la Serenissima sembra una città fantasma da almeno due settimane prima del DPCM che ha annunciato la chiusura delle attività non necessarie: il fuggi fuggi dei turisti ha rivelato l’enorme fragilità di una città che negli anni si è svuotata dei suoi residenti in nome del dio denaro, passando dai 170000 abitanti degli anni ’50 del ‘900 ai circa 50000 attuali.
“La triste ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti” cantava Gian Piero Alloisio nel ’79. Noi genovesi abbiamo sempre avuto un legame speciale con Venezia…
Passeggiando passiamo davanti all’osteria in cui lavoro, fa un po’ tristezza vedere le saracinesche abbassate, poi proseguiamo e facciamo un paio di giri dell’isola. Incontriamo di solito una, due persone al massimo, ci teniamo a distanza.
Osserviamo la laguna, le acque calme, un silenzio forse mai sentito da che Sant’Elena è stata edificata, negli anni del fascismo, interrotto solo dalle occasionali strida dei gabbiani. C’è profumo di salmastro. Passa un battello ogni tanto, desolatamente vuoto.
Ieri sera abbiamo visto un ragazzo in bicicletta, mezzo severamente vietato da queste parti, il cui uso di solito scatena l’ira di attempat* signor* che sbraitano affacciat* alle finestre. La desolazione di queste sere ha offerto a questo temerario l’occasione di lanciarsi in una doppia infrazione: fuori senza giustificato motivo e pure in bici! È fortunato che nessuno lo veda, perché stuoli di cittadin* alla finestra di ‘sti tempi si dilettano nella delazione, accanit* contro il nuovo nemico pubblico: chi corre o passeggia. Figurarsi se ti beccassero a pedalare. Il temerario ci saluta con un’impennata sfrontata e ci accorgiamo di essere arrivati al ponte che ci porterebbe ai Giardini della Biennale. Un brivido di ribellione.
“Che dici, andiamo a fare un giro di là?”
“Sì, e se ci fermano che gli diciamo, che il cane piscia solo se è in Biennale?”
I nuovi confini che definiscono la nostra vita ci pesano per un momento addosso. Il nostro brivido di ribellione si spegne. Per fortuna la rivoluzione può contare su gente più meritevole di noi.
Il racconto di D1
Dopo una decina di giorni complicati – È aperto il nido? Ma oggi lavori o no? Quanto hai detto che prende la babysitter? Domani prendo ferie che almeno risparmiamo quelli, dopodomani? E che ne so se lavoro, non possiamo portare il piccolo dai tuoi? Ma ti mettono in cassa integrazione o no? …- , siamo rimasti finalmente più o meno tutti e tre a casa, mia moglie in ferie coatte, io con una irrisoria turnazione al lavoro.
Qui siamo in una cattività blanda, abituati ad anni di occupazione militare per la questione TAV, vedere qualche pattuglia in più o subire qualche ulteriore identificazione non ha scosso particolarmente la valle.
E sono iniziate le nostre passeggiate, anche se a “scartamento ridotto”, vicino casa. Io e mio figlio usciamo dopo pranzo, con il marsupio o il passeggino (ha dieci mesi) e andiamo a spasso, sperando lui faccia un bella nanna: oggi, caricatolo sulle quattro ruote, abbiamo percorso la ripida discesa che porta in borgata, poi siamo andati su fino a San Giuseppe, al confine con Venaus, e quindi giù, a fianco del torrente Cenischia, sulla brulla sterrata che costeggia il mezzo diroccato castelletto trecentesco, poi passa sotto i resti della fortezza savoiarda della Brunetta, per rispuntare infine in borgata.
In questi giorni il clima è mite, smosso appena dal solito vento della Val Cenischia; a nord, poco imbiancato e ancora decisamente spelacchiato dall’incendio del 2017, il Rocciamelone ci fa compagnia. Lo scroscio del torrente e i canti degli uccelli sono la colonna sonora portante, il viadotto dell’autostrada è più deserto del solito, sulla provinciale passano rade auto; in lontananza si sente un generatore, alzando lo sguardo si vedono alcuni operai su dei terrazzamenti a mezza costa, imbragati, stan montando sul versante delle reti paramassi: la montagna è bruciata, non ha più radici a fermare la terra, quando piove si rischia frani sulle borgate a valle.
I rari incontri sono surreali. Io sono in amministrazione comunale e allora la gente, dopo aver salutato il piccolo, mi chiede informazioni:
“Mi peul andè ‘nt l’ort seren o vent scrive l’feuj? A son mach des meter da ca’…”
[Posso andare nell’orto tranquillo o devo scrivere il foglio (l’autodichiarazione)? Sono solo dieci metri da casa…]
“Ma si può fare una passeggiata camminando normale o bisogna per forza fare jogging?”
“La spesa, solo a Susa o posso andare a Bussoleno, là c’han la carne più buona…”
Perlopiù rispondo con sorrisi imbarazzati e cerco di cambiare argomento, che forse dire “sono una marea di minchiate, fate il cazzo che dovete ma con un briciolo di buon senso” sarebbe una risposta molto poco istituzionale.
Intanto ho modo di alzare un po’ gli occhi da terra: la natura è in anticipo, come accade negli ultimi anni. È in anticipo ma ha sete. Le piante stan gemmando un mese circa prima del normale, ma alcune foglie han le punte secche; api e compagnia ronzante sono uscite presto, per il caldo, ma vagano alla ricerca d’acqua, che nei rigagnoli scarseggia. Salvo un paio di spruzzate, qua non piove da… da quanto? Un centinaio di giorni?
Passo di fianco a delle abitazioni, perlopiù hanno l’aspetto di essere in coprifuoco, silenziose, con le finestre chiuse… ma in alcuni cortili c’è un po’ di vita, un bimbo che gioca a palla, un vecchio che rassetta gli arnesi per l’orto…
Per tornare a casa devo percorrere un pezzo di strada provinciale, ci incontro gente di fuori paese: un cicloamatore equipaggiato professionalmente, ma con guanti sterili e mascherina, qualche auto stipata di famiglie intere che vanno a spasso – immagino per un picnic fuori porta – in sfregio al DPCM, altri genitori col passeggino, chi porta a spasso il cane…
Mentre mi appresto a salire l’ultimo tratto di strada, mi sale un minimo di apprensione, che non sono molto in forma, oggi fa caldo e la salita è davvero ripida, inoltre il passeggino carico pesa… da un balcone uno mi chiede: “Stasera, per cantare l’inno, alle 18, bisogna appendere la bandiera italiana al balcone?”. Poi vedo mia moglie, è scesa con la macchina per riportarci a casa, giusto in tempo per evitare di rispondere al tizio.
Il racconto di D2
Le mie evasioni quotidiane iniziano la mattina presto, solitamente all’alba con l’amico a quattro zampe, inseparabile compagno nelle molte uscite in montagna. Un paio di minuti di macchina e sono operativo. Le ore più belle per passeggiare liberamente sono di mattina, gli unici incontri sono gli animali che tornano a nascondersi nei boschi.
La zona è il Carso, tra boschi misti, doline e piccole pianure che guardano il mare. Aria pura e pulita. In questi giorni di quarantena, in pochi possono permettersela e per questo mi ritengo fortunato. Le passeggiate nella natura in questi giorni anomali e di repressione hanno un senso diverso dai giorni che noi giudichiamo di libertà.
La cosa che noto da subito è il silenzio. Il progresso, sotto forma di treni e autostrada, è quasi inesistente e guardando verso il mare non vedo quella linea nera di smog. Questa è una delle poche note positive di questi tempi. Non durerà: prima o poi ritorneremo al caos imposto dai ritmi del progresso. Finisco il giro, solitamente una quarantina di minuti e torno alla civiltà. Lo schifo di posto dove vivo è vuoto. Solo la panetteria è aperta. Zero macchine e zero check point a caccia di persone evase.
Pomeriggio: seconda evasione, più lunga. Solitamente un paio d’ore nelle zone confinarie. Passo da uno Stato all’altro senza nessun problema, qui il confine è ancora invisibile. Non ci sono cittadini zozzoni, solo natura e panorami sulle montagne bianche. Mi mancano, sono stufo di vederle solo da lontano, voglio il fresco della neve che quest’anno non ho assaporato per colpa dell’inverno inesistente. Continuo a guardarle da lontano, ogni sguardo che le rivolgo è una bestemmia.
A volte vado nel paese vicino a trovare il compagno che scappa nella sua casetta di campagna. Ci sediamo a distanza di sicurezza (sigh), dieci minuti di parole, qualche grappa e si ritorna verso la macchina. Siamo lontani dalle rotte migratorie della Balkan Route, eppure ci sono guardie forestali e militari con le loro jeep. In tanti anni che frequento questi boschi non mi era mai capitato di vederli. Li guardo dall’alto, il rumore del motore rovina il silenzio. Stanno percorrendo la strada che avevo deciso di fare al ritorno. Decido che ritorno attraverso i boschi, lontano da strade e sentieri. Per più di un’ora divento un bandito, un partigiano in fuga dalle guardie.
Arrivo alla macchia senza problemi e a casa ripenso che queste giornate di quarantena ce le ricorderemo per molto tempo e non le dimenticheremo così facilmente.
Ok, domani mattina si riparte.
Il racconto di A
Z. è un gran dormiglione.
Se usciamo per l’ultimo bisogno alle 21.00, prima delle 9.00 dell’indomani non c’è verso di svegliarlo.
A meno che non si tratti di montagna, ma perché lui pensi “montagna” servono zaino e vestiti.
Ieri siamo usciti tardi, erano ormai le 22.30.
Stamattina mi alzo, faccio un po’ di “compiti” e attorno alle 10.00 – dopo uno yogurt e un frutto – accendo il caffè.
Z. si sveglia, lo sento sbadigliare e stiracchiarsi, tipico suo: il gorgoglio della caffettiera è un segnale collaudato.
Biscotto.
Scendiamo in strada e ci dirigiamo al lago. Z. è metodico, ama quella passeggiata mattutina: erba, anatre, un porticciolo con del verde e alcuni pini marittimi.
Ultimamente incontriamo solo altri cani, non c’è traffico – per la verità non c’è proprio nulla. Inizio a temere il trauma del ritorno alla normalità: Z. è tra gli esseri più felici che conosca, al momento. Molto più felice di prima.
Mentre lavoro e organizzo il pranzo, rifletto: le due e mezza potrebbero essere un buon orario per la prima delle due “escursioni” pomeridiane, potremmo andare verso un bosco.
Trilla il telefono.
“Scusa il brutalissimo messaggio vocale, ma volevo chiederti una cosa: per caso si potrebbe fare quel famoso incontro per la consegna dei libri, visto che esco a fare la spesa e domani è la festa del papà? Alle 16.00? Grazie mille e scusa il disturbo.”
“Ti toccherà aspettare Z., oggi niente bosco, si va alla fontana del centro commerciale, ehm”.
Scendiamo a sei zampe, il quadrupede e io. Con noi cotone sterile, un paio di guanti e del disinfettante. Indosso i guanti, scrivo due righe: “il biglietto l’abbiamo toccato coi guanti, coi guanti è stato disinfettato e imbustato questo libro. Di più non sappiamo che fare”.
Si parte, la mascherina non serve, non incontrerò nessuno, i guanti invece li tengo.
Arrivo alla fontana, L. è lì che aspetta, seduta sulla panchina di marmo che avvolge gli zampilli d’acqua. Oggi, occasione speciale, la fontana è spenta.
Poso sacchetto e soldi – il resto concordato – sulla panca, a circa quattro metri di distanza.
Passano i vigili, li avevo visti poco prima, chissà che stanno controllando.
L. posa i soldi di fianco al libro, prende il sacchetto e si allontana, mi riavvicino io.
Finalmente posso cavare ‘sti cazzo di scafandri da mano!
Ci salutiamo, sorridiamo. “Come va?” si chiacchiera del più e del meno “Bene” – lei è giunta a una settimana di clausura – e poi ognuno per la sua strada: di ritorno verso casa io (con calma e prendendola larga che Z. non ha fatto una gran passeggiata), a far la spesa lei.
Sono appena stato insultato da una signora sul balcone di una casa con giardino cintato.
Era ad almeno venti metri da me. Sosteneva che dovessi pascolare il cane nei prati, altrove, e comunque distante da casa sua. Che tutti avremmo dovuto fare così, e che non avevo la mascherina.
L’ho guardata fissa, son stato tentato di risponderle: “Signora, entri in casa, se mi metto a parlare nella sua direzione a volume alto, per farmi sentire, la infetto”.
Sua figlia, dal giardino prende a inveire “Mamma smettila, non è obbligatoria la mascherina! Cosa stai dicendo? È solo, può portare in giro il cane. Perché fai così, dove l’hai sentito?”.
Attimi di caciara a due, a rompere la quiete.
Z. e il cane del giardino intanto si annusano felici.
Ho sorriso a entrambe, sono passato oltre e mi sono reimmerso nel silenzio.
Sullo sfondo, poco più in là, continua il battibecco.
Il racconto di S1
“Nutrimento piccola colonia felina.” Chissà se vale per l’autocertificazione. Pedalo lungo la ciclabile del parco, deserta. Ogni tanto incrocio un’altra bici, qualche sparuto runner, qualche anziano che cammina.
C’è un arbusto che è fiorito gioioso, il bianco dei suoi piccoli fiori contrasta con i rami spogli delle roverelle e il cielo blu. In lontananza, la Grigna, la Grignetta, il Resegone sembrano, sono, un altro mondo. Che pure era il mio.
Hanno arato i campi, la terra è rivoltata e nuda e nelle rogge scorre ancora poca acqua. È un momento dell’anno che conosco bene, fin da bambina, quando le stesse strade le facevo con mio zio.
Quando arrivo, se i gatti sono particolarmente affamati superano la loro timidezza e escono dai loro nascondigli, mi vengono incontro miagolando. L’altro giorno è passato un signore anziano, mi chiede se allora in bicicletta si può andare. Gli dico sì, basta che non parta per la Milano Sanremo. Scuote la testa, allarga le braccia e continua la sua passeggiata.
I primi giorni pedalavo veloce, mi sembrava di dover stare in giro il meno possibile. Poi ho deciso che se è lecito portare fuori il cane, deve esserlo anche nutrire i randagi. O devono morire perché non sono di nessuno?
Ovviamente la verità è un’altra. Per quanto li abbiamo addomesticati, i gatti non hanno rinunciato al loro selvatico, probabilmente se la caverebbero cacciando, il luogo è adatto. La verità è che serve più a me pedalare che a loro il cibo che porto. Per sentire di avere sempre un corpo, per raccogliere luce, annusare aria e respirare terra.
Siamo un nodo di geografia, responsabilità e biologia. Chissà.
Il racconto di R
Lunedì mattina al lavoro mi hanno comunicato che da martedì sarei stato in telelavoro da casa mia; lunedì sera Conte ha annunciato l’estensione della zona rossa a tutta l’Italia, e leggendo la notizia ho sentito un rumore come di inferriate che sbattevano. Da martedì mattina fino a venerdì pomeriggio sono uscito di casa solo una volta (per andare dal macellaio, distanza circa duecento metri) ma venerdì sera, quando mia moglie è rientrata dal lavoro e mi ha dato il cambio con il piccolo E., mi sono cambiato e sono uscito per andare a correre al parco della Pellerina. È da ottobre che mi è ripresa la fissa della corsa in montagna, da allora vado a correre abbastanza regolarmente due volte alla settimana e, finché il governatore col nome di un pelato non chiuderà i parchi come ha annunciato di voler fare, ho intenzione di continuare.
Da casa al parco vado in bicicletta, un paio di chilometri di cui uno persino di pista ciclabile, che trovo interrotta due volte, uno da scavi e uno da un’auto parcheggiata in stile casa delle libertà: almeno in questo non c’è nulla di diverso dal solito. Di macchine in giro ce ne sono poche, forse un decimo del solito, le persone a piedi sono anche quelle meno del solito ma la riduzione è decisamente minore. Pedalo con un po’ di ansia perché non mi è così chiaro se sono autorizzato o meno a fare quello che faccio, ma tre settimane (per cominciare) sigillato in casa non le sopporterei. Arrivato al parco lego la bici a un lampione perché i posti riservati alle due ruote sono tutti occupati, la cosa potrebbe sembrare normale, dato che sono solo quattro per uno dei parchi più grandi di Torino, ma di solito non è così.
Inizio a correre, Intorno di gente ce n’è parecchia, forse un po’ meno del solito ma non molta meno. Cerco di passare abbastanza lontano dalle persone, più per non innervosirle che per non contagiarle, a volte però non è così semplice perché alcuni crocchi sono decisamente numerosi, e spesso posizionati nei passaggi più stretti, come il ponte sulla Dora, inoltre quando corro, dopo uno sforzo un po’ più intenso, per esempio una salita, spesso tossisco. Penso che se lo facessi oggi mi attirerei qualcosa di più di un’occhiataccia, e quindi faccio ogni sforzo per evitarlo, ma non è così facile. Fortunatamente sembra che la gente che circola nel parco abbia un livello di preoccupazione decisamente sotto la media.
Arrivo nella parte solitamente più vuota del parco, quella in cui non ci sono giochi per bimbi, né panchine, né chioschi bar, né laghetti con anatre e tartarughe, però stavolta è persino più popolata dell’altra. (Forse la gente ha cercato di distribuirsi il più possibile?). Ci sono persone che camminano, una buona parte di loro spingendo passeggini, qualche rara bicicletta, sia di adulti che di bambini, il pratone dove spesso vedo in corso partitelle di calcio invece è vuoto.
Continuo a girare, il sole tramonta, la luce inizia a calare e la gente ad andarsene, più o meno come in qualunque altra sera prima del coronavirus. Anche per me è ora di tornare a casa, tra l’altro non mi sono portato le lucine per la bici e il traffico di Torino è pericoloso anche quando le si hanno. L’ultimo pezzo di strada lo faccio con le luci dei lampioni già accese, e mi accorgo di una cosa che non avevo notato all’andata: i negozi sono quasi tutti chiusi. Molti hanno comunque le vetrine a vista (forse per questo non l’avevo notato all’andata), ma ora che servono le luci, e che sui primi cento metri di corso Racconigi solo la banca e l’edicola le hanno accese, l’effetto è piuttosto spettrale.
Un’ultima svolta poi rientro nel portone, ricomincia l’apnea.
Il racconto di L
Vado al lavoro a piedi per sgranchire le gambe, pochi chilometri. Il lavoro è ai minimi termini. Nel centro di accoglienza del resto l’atmosfera è ancora più claustrofobica che a casa. Se a questo aggiungi che con questa emergenza sono chiusi ufficio immigrazione e commissione territoriale ti rendi conto dello stato di attesa in cui sono sospesi i richiedenti asilo con questo ulteriore rinvio, per di più da trascorrere in stato di cattività. Non stupisce che alcuni stiano andando fuori di testa in questa reclusione forzata. Se loro vanno a fare quattro passi subito vengono notati. Ci stiamo riscoprendo un popolo di spie. I paesani si sentono autorizzati ad ammonirli o a riferire delle loro uscite ad amministratori o cooperanti dell’ente gestore.
Camminando gli sguardi degli altri intimoriscono anche me. Incrociando un anziano sul marciapiede ci guardiamo di sbieco. Entrambi siamo inottemperanti alle regole assurde che ci vengono imposte in questo periodo di quarantena. Del resto ogni giorno cambiano ed è quasi impossibile starci dietro. Emerge il senso di colpa atavico che pare impossibile scrollarsi di dosso. Incrostazioni cattoliche immagino. “A catholic block inside my head” dice una canzone che ora mi risuona in mente…
Vedo una conoscente. È tanto tempo che non la incontro. Impossibile far finta di non averla vista. Saluto per primo. Lei, chiusa nel recinto della sua casa, prima ancora di ricambiare il saluto, mi chiede se ho fatto l’autodichiarazione per muovermi. Io non ce l’ho. Non l’ho mai fatta. Se servirà me la faranno fare le guardie. Balbetto le mie ragioni che paiono comunque delle scuse. La farmacia, un passaggio al lavoro.
La caccia all’untore è aperta. Taglio corto e mi dirigo fuori dal paese. La sensazione paranoica non migliora. Le rare macchine che mi sfrecciano accanto mi fanno sussultare ogni volta. Per fortuna non è la polizia. Neanche questa volta.
Poi però ci sono i campi, la grazia del vivere in provincia. Li scelgo per tagliare la strada e per allontanarmi da ciò che sa troppo di uomo e a quelli di loro che indossano una divisa in particolare. A ogni passo le scarpe diventano più pesanti di fango, a ogni passo il cuore è più leggero. È anche così che si resiste contro il Corona virus, tra i campi, lungo sentieri pesanti di pioggia, con la bora che sferza.
Passo per il “Brasil”, una zona del paese. Viene chiamata così perché qui al concludersi della seconda guerra mondiale si accamparono le forze militari brasiliane che combattevano con gli alleati. Non ho mai visto una foto di questi brasiliani eppure hanno lasciato permanentemente un segno che rimane nella toponomastica non ufficiale.
Saranno forse le lenzuola colorate, con il loro ottimismo inopportuno che mi sa sempre di idiozia e che in maniera un po’ ingenua e naïf sono appese a diversi balconi con l’hashtag #andràtuttobene, ma mentre rientro mesto a casa mi sorprendo a pensare a come le vie per la liberazione siano sempre meticce e multicolore. Per ora solo fantasie.
Mentre la primavera sta arrivando, nonostante le nubi, all’orizzonte le Alpi sono ancora innevate e troppo lontane.
Il racconto di F
Nostra figlia M. inforca la sua due-ruote, S. e io le camminiamo dietro. Abbiamo tre bici a misura di persona adulta, ma solo una è in grado di tenere la strada. Il nostro meccanico ciclista ha il padre infermo, non è il caso di andargli a chiedere una riparazione proprio in questo momento.
M. ha ormai interiorizzato il funzionamento di incroci e semafori e, in generale, molto di rado ci viene l’impeto di gridarle: “fermati!”. Lei va tranquilla, ogni tanto si gira, quando ritiene di averci distanziate a sufficienza si ferma e ci aspetta.
In ogni caso, in giro non c’è nessuno. Ma le strade non sono affatto silenziose, i nostri passi echeggiano altissimi, appena un pochino più fievoli del canto degli uccelli, onnipresente. Quando passiamo davanti alla farmacia c’è la coda. S. si fa lo scrupolo e dice a M. di scendere dal marciapiede, di passare per strada. La gente aspetta fuori in coda, ma la saracinesca è chiusa, lo scambio di farmaci e denaro avviene attraverso lo sportellino del servizio notturno. Passiamo davanti all’ex lanificio, un antico complesso di capannoni, In uno di questo mio padre ci ha tenuto la falegnameria fino ai miei diciott’anni e io ci ho lavorato per sei estati. Ora hanno demolito gran parte delle costruzioni per far spazio a un supermercato, sarà il settimo, in un paese di ventiquattromila abitanti. Oggi il cantiere è vuoto.
Siamo sulla strada che conduce al parco fluviale e alla pista ciclabile. Incontriamo giusto un tizio a spasso con il cane, ma in questo tratto è quasi normale, non è mai molto frequentato. Costeggiamo il campo da calcio e poi imbocchiamo lo sterrato. Nel giro di cinque minuti siamo sulla sponda destra del torrente.
Cazzo, che affollamento!
Mi viene da cantare
Sangon blues, un vecchio pezzo di Gipo Farassino. In uno dei punti in cui è più facile accedere al letto del fiume ci sono cani e persone, tutte a regolare distanza di sicurezza, ma parecchie. Facciamo il giro largo, ci spostiamo più a valle. M. insiste per legare la bici a un alberello e poi scendiamo.
Il corso d’acqua è assai ridotto in ampiezza, non piove per bene da molte settimane. Ci sediamo sui sassi, li disegniamo con schegge di mattone, parliamo, risolviamo indovinelli, costruiamo torri di pietra. A un certo punto, dico a S.:
– Comunque, chi se l’aspettava così libertaria la sindaca? Nessun divieto di frequentare i parchi e poche divise per le strade.
Una cinquantina di metri più a valle due persone stanno sedute sui sassi, fumano e chiacchierano. A monte ancora persone con cani. Sull’altra sponda vediamo sfilare gente che passeggia, corre, va in bici.
Sia come sia, il suono dell’acqua che scorre sembra ricucire le ferite, riallineare cervello e cuore, quando risaliamo l’argine abbiamo facce decisamente più serene. Ma il sorriso ci si spegne subito, sulla ciclabile che costeggia il torrente c’è ora un’auto della forestale che pattuglia.
– Me lo sentivo – dice S.
Ci dirigiamo verso il centro del paese, dobbiamo stampare dei fogli per M., per i suoi compiti. Incontriamo un tizio col cane. Si innesca uno strano balletto: a che distanza ci teniamo?
– Perché ci guarda così male? – chiedo a S.
– Magari c’ha solo i pensieri suoi, ma ormai si è instaurato questo clima di sospetto… Mi è venuto il flash che ora ci denuncia perché usciamo.
Più avanti però una signora anziana ci sorride e ci augura una buona passeggiata.
– Le persone anziane sembrano più gentili.
– Ma certo, altro che il covid-19 hanno visto!
Mentre passiamo davanti ai palazzi in cui vivevamo anni fa, scatta l’ora del flash mob sui balconi. Tiro fuori il telefono, mi avvicino e comincio a registrare: dalle casse risuona forte
We are the world, di diritto nella top five della mia personalissima classifica dei pezzi più infami di sempre.Il centro è desolato, tutto chiuso, non riusciamo nemmeno a stampare, perché il tabacchino della piazza non riesce ad aprire la nostra chiavetta.
Sulla strada del ritorno, incontriamo una ragazza trascinata dal cane. Le sorrido, mi sorride, le dico “ciao”, mi dice “ciao”. M. ci guarda e chiede:
– Chi è?
S. e io all’unisono: – Un essere umano.
Il racconto di E
Quando è l’ultima volta che sono stata in valle? Due settimane oramai, poco prima della chiusa totale. Una giornata stupenda, fino a San Lorenzo e poi alle Rose D’Inverno. Lo penso mentre cammino sul colle attorno a casa, da cui vedo la città. Sono uscita dopocena, a buttare la spazzatura, e con la scusa due passi li faccio. Le strade sono deserte. Dopo un po’ incontro un ragazzo con il cane, ci salutiamo. Una signora piena di borse, che a quest’ora torna da lavoro. Mi mette una tristezza che non so descrivere. Provo a cercarla con lo sguardo, per un saluto, non ce la faccio. Cammino avanti e indietro, almeno un paio di giri altrimenti non mi sembra neanche di essermi mossa. È tutto fermo, immobile. Sotto si vedono le luci. Mi fermo un attimo e lo sento: il furgoncino della Protezione civile, con il messaggio registrato, che gira nelle vie centrali della città. Rimango immobile e ascolto. Finora lo avevo visto solo nei video che gli amici mi avevano mandato. Un messaggio freddo, surreale. Mi scuoto e riprendo a camminare, verso casa. Ripenso a mia madre, a quello che mi ha detto sui canti dai balconi. “È come in guerra. Anche in guerra le persone cantano, ma non perché sono felici.”
Il racconto di S2
Nonostante i limiti e i disagi che a volte si possono avere, mi sono sempre reputato fortunato ad abitare in campagna. Ora però lo considero un vero e proprio privilegio.
Le passeggiate quotidiane iniziano con il primo passo fuori dalla porta di casa, imboccando la strada bianca che si inoltra per le colline circostanti. Normalmente le “zampe” che si mettono in cammino sono dodici: due le mie, due quelle della mia compagna, quattro quelle del nostro cane (che ha un’inquietante somiglianza con Beppe Vessicchio) e quattro quelle del cane del vicino (un femmina di maremmano che oramai è di casa).
Dicevo della strada bianca, quella lingua di breccia battuta abbandona la provinciale qualche centinaio di metri prima della nostra abitazione e prosegue per circa tre chilometri sul crinale della collina per poi scendere verso i fossi sottostanti. In totale raggiunge sette abitazioni, non di più. Ai margini della strada campi coltivati a grano, fava e cipolla, purtroppo non proprio con regime biologico. Dalla strada, dinanzi a noi, si apre tutto l’Appennino centrale: Maiella, Gran Sasso, Laga, Sibillini e su fino al San Vicino. Uno spettacolo che ogni mattina ti toglie il fiato, anche in inverni come questi, molto poveri di neve.
Le nostre escursioni durano non più di 45 minuti, ma qualche volta facciamo qualche deviazione scendendo per i fossi, la parte rimasta più selvaggia in questo tratto di entroterra a due passi dal mare. Queste deviazioni dalla strada sono la parte più divertente, non tanto per il panorama o il paesaggio, che rimane lo stesso, quanto per il fatto stesso della deviazione dal consueto tragitto. Di questi tempi continuare ad allenare la mente a fare, anche piccolissimi, viaggi oltre la strada tracciata da altri, serve come ricostituente per alzare le difese immunitarie della mente.
I campi che attraversiamo sono completamente secchi, la terra è spaccata neanche fosse agosto, quelle rughe profonde forse anticipano – non di molto – quello che rischia di essere il prossimo problema serio da affrontare: una crisi idrica senza precedenti. Mentre cammino ci penso spesso, per farmi trovare pronto. Non tanto con le scorte d’acqua, quanto con quelle di ragionamenti. So già che in nome dell’emergenza non varrà alcun “ve l’avevamo detto”, non varranno gli anni di discorsi sul clima o sulla gestione dell’acqua pubblica. Ma siamo arrivati in fondo alla strada, un’ultima occhiata alla Priora e si torna indietro.
Continua…
Quarantena molotov – Complicate Traiettorie Emotive
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