A maggio del 2018 è stato pubblicato da Priuli & Verlucca Mario Rigoni Stern. Un uomo, tante storie, nessun confine, un volume che raccoglie gli atti del convegno che si tenne nel 2015 ad Asiago, convegno dedicato, appunto, alle opere e alla figura di Mario Rigoni Stern.
È superfluo qui presentare Mario Rigoni Stern, va però sottolineato che le sue opere hanno segnato la scrittura sulla montagna del Novecento italiano e che forte era il rapporto di Rigoni Stern con la montagna. Un legame che era uno dei fattori che contribuì all’amicizia con due altri fondamentali autori, Primo Levi e Nuto Revelli.
Nel volume dedicato a Mario Rigoni Stern edito da Priuli & Verlucca troviamo anche alcuni testi inediti dato che, come è riportato nella scheda del libro, «il convegno ha avviato nuovi dialoghi sull’opera e la figura dello scrittore, aperti a possibili sviluppi di ricerca, in prossimità di quello che sarebbe stato il suo novantasettesimo compleanno e a ridosso del decimo anniversario della morte.»
Sulla stessa scheda del libro si legge che gli inediti pubblicati sono tre, ma ce n’è un quarto ed è quello che in particolar modo ha attirato la nostra attenzione: si tratta di un contributo appositamente scritto, a inizio 2018, per la pubblicazione nel volume in questione da Matteo Melchiorre – nostro ospite a Diverso il suo rilievo 2017 per presentare il suo La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi, già autore di Requiem per un albero, di La banda della superstrada Fenadora-Anzù (con vaneggiamenti sovversivi) e del più recente Storia di alberi e della loro terra (che abbiamo presentato in una serata #AlpinismoMolotovLive).
Il contributo di Melchiorre si sviluppa come una estensione del discorso portato avanti nella sua produzione narrativa – incentrata sulle peculiarità della società contemporanea al di sopra di una certa quota altimetrica –, caratterizzata da rigore, eleganza e franchezza: un sapiente far ruotare storia e geografia l’una sull’altra alla ricerca, in profondità, delle ragioni di medio e lungo periodo del mutamento sociale dentro i fatti che si svolgono nel breve periodo. Una ricerca incomoda, in primo luogo per chi la conduce, e severa, che prova a sottrarsi ai cliché e ai pregiudizi accomodanti quanto confortanti anche per i lettori e le lettrici.
Il contributo, intitolato L’umanità e la franchezza, nello specifico, verte «sullo scrivere oggi di montagna» ed è uno strumento prezioso: ci aiuta a essere consapevoli del carattere colonialista nella rappresentazione storicamente stratificata delle alture, offre una prospettiva critica per confrontarsi con quella piccola rinascita della letteratura di montagna, non legata al milieu della letteratura alpinistica, che si è registrata negli ultimi anni e che ha portato la narrazione delle montagne a trovare spazio nelle scansie “alte” delle librerie.
Per tutte queste ragioni, abbiamo deciso – in accordo con l’autore Matteo Melchiorre e con il consenso alla pubblicazione di Priuli & Verlucca, che ringraziamo – di pubblicare questo contributo sul nostro blog.
L’umanità e la franchezza. Scrivere oggi di montagna
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Credo sia utile, se non addirittura necessario, dichiarare per quali ragioni io mi prenda il lusso di dire la mia sul conto di un tema, le scritture di montagna, e sul conto di uno scrittore, Mario Rigoni Stern, rispetto ai quali dovrei soltanto togliermi il cappello, fare un inchino e lasciare la parola a quanti abbiano strumenti più raffinati dei miei.
Sono un semplice lettore che ha trovato nei libri di Rigoni Stern molto di che riflettere e da imparare. Non sono né un critico letterario, né un filologo, né uno studioso di letteratura italiana del Novecento. Il mio mestiere è quello dello storico. Mi occupo di tardo Medioevo.
Frugo negli archivi, intrattenendomi ben volentieri con carte e documenti. Negli ultimi anni mi sono dedicato abbastanza regolarmente a ricerche storiche relative alla montagna.
Da più parti, però, mi vien detto che sono uno storico recalcitrante in quanto scrivo, oltre a monografie scientifiche e a saggi storici su riviste del settore, libri che hanno un loro specifico taglio narrativo. Non sono affatto autore di romanzi storici nel senso classico del termine (genere che peraltro mi convince pochissimo). Mi limito a scrivere di storia lasciando spazio alla componente intrinsecamente narrativa che dà alimento alla ricerca storica. Sarà per questo, perché scrivo narrativa occupandomi di questioni storiche, che alcuni lettori dei miei libri ritengono che io sia, più che uno storico recalcitrante, uno scrittore recalcitrante. Vai a sapere da che parte sia giusto guardarla.
C’è anche un’altra cosa, tuttavia, necessaria a inquadrare il mio interesse per la montagna e per i libri di Mario Rigoni Stern. Abito a Feltre da pochi mesi, ma in precedenza ho vissuto in paesi situati ai piedi del Monte Tomatico. Paesi piccoli, con i boschi tra i piedi e le montagne tutto intorno. Sono per questo un montanaro? Non saprei dirlo. Se essere un montanaro significa abitare ai piedi o sulle coste delle montagne e avere pratica più o meno quotidiana con boschi, legname, orti, animali domestici o selvatici, gente rustica, sentieri e via dicendo, allora sì: sono un montanaro.
Sono però convinto che l’altitudine conti non poco nel rilascio di una patente di montanaro. Ci sono vari tipi di patente. Quella di «montanaro di prima classe», a quanto ne so, viene normalmente rilasciata a quanti vivano stabilmente dagli 800 metri di quota in su. Per quelli che, come me, vivono in zone montane ma fra i 350 e i 450 metri sul livello del mare non può essere rilasciata che una più modesta patente di «montanaro di seconda classe».
Una patente di montanaro di seconda classe. Ricerche storiche di argomento alpino. Curiosità nell’esplorazione delle potenzialità della scrittura narrativa.
Sono questi tre fattori che mi hanno messo a confronto con le opere di Rigoni Stern. All’inizio sono state le letture discontinue effettuate tra i quindici e i venticinque anni, letture più o meno sbocconcellate e mediate dalle istituzioni scolastiche. Nella primavera dell’anno scorso, tuttavia, ho pensato di dedicarmi alla rilettura sistematica dei libri di Rigoni Stern, cogliendovi un paio di aspetti che negli anni precedenti avevo potuto appena intuire.
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Andiamo con ordine. Quest’estate mi sono incontrato con Paolo Conz, una bravissima guida alpina di Feltre, più o meno mio coetaneo, per organizzare una serie di escursioni. Discutendo di montagna è venuto fuori a un certo punto il nome di Mario Rigoni Stern. Gli occhi ci si sono reciprocamente illuminati. Io vedevo Paolo come toccato su di una corda pronta a vibrare e Paolo vedeva me nelle stesse identiche condizioni.
Insomma ci siamo scoperti affratellati da una condivisa stima nei confronti della montagna così come descritta, toccata e vissuta da Mario Rigoni Stern. Seduti, di sera, all’esterno di un bar, abbiamo molto chiacchierato intorno a una questione centralissima: cosa significa, oggi, scrivere di montagna?
Il primo elemento che ci è parso necessario constatare, a questo proposito, è il fatto che le scritture di montagna, nel giro di pochissimi anni, si sono moltiplicate esponenzialmente e hanno incontrato un enorme successo di pubblico. Esse, tuttavia, non sono certo una novità. Basta pensare all’Anabasi di Senofonte (430-355 a.C.) con le sue straordinarie scene di montagna, all’Ascesa al Monte Ventoso di Francesco Petrarca (1336), a La Montagna di Jules Michelet (1867), a Storia di una montagna di Élisée Reclus (1880), ai libri d’esplorazione dei grandi alpinisti, a molte fiabe della tradizione europea, dai fratelli Grimm ad Andersen, e a tanti altri esempi che qui sarebbe inutile menzionare dal primo all’ultimo e tra i quali un posto d’onore spetta senza ombra di dubbio a Mario Rigoni Stern.
Rispetto a questa antichissima tradizione, le scritture di montagna, nell’arco di pochissimi e assai recenti anni sono molto cambiate diventando oggi un genere in un certo senso specifico e un settore importante del mercato editoriale. All’interno di questo genere e di questo mercato continuano ad avere un loro spazio e una loro standardizzazione stilistica e tematica le scritture dovute agli alpinisti provetti, a personaggi, cioè, abituati a viaggiare sopra i 4.000 metri, attrezzati e pronti a tutto, in sfida con i ghiacci e con le rocce precipiti, autori di gesta e prodezze agonistico-spirituali tali da lasciare di stucco gli stessi montanari di prima classe.
Non intendo tuttavia rivolgere la mia attenzione a questi libri di montagna di taglio tutto sommato tradizionale, che hanno a che fare con l’escursionismo, con l’alpinismo e con l’esplorazione. Voglio limitarmi, invece, alle scritture di montagna che hanno ispirazioni e aspirazioni più o meno letterarie. Mi piacerebbe molto parlare ampiamente e dettagliatamente, facendo nomi e cognomi, dei cosiddetti scrittori di montagna, sia di quelli più noti e che oggi trionfano nelle classifiche delle vendite sia di quelli meno noti e che percorrono le orme dei loro colleghi più famosi. Ma i nomi e i cognomi sono in fondo poco sostanziali rispetto alle riflessioni che mi girano in testa.
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Un buon lettore, in primo luogo, non farà fatica a constatare, analizzando i libri di montagna oggi così graditi al vasto pubblico, che queste scritture risultano stabilmente caratterizzate da un’implicita o esplicita vocazione sapienziale, che nei casi limite rasenta il vaticinio profetico. Gli autori di questi libri, in altre parole, si offrono come tramiti per svelare al popolo il grado superiore di esistenza esperibile solo e soltanto da chi abbia scoperto la montagna.
Muovendo da questo principio, molti degli scrittori di montagna più in voga finiscono spesse volte con il descriverci una montagna fatta per lo più di stereotipi che fanno sussultare di sdegno non pochi dei montanari più autocoscienti, ma che si accordano alla perfezione con i gusti, le aspettative e i bisogni di un pubblico in ultima analisi urbanizzato.
A quali stereotipi mi riferisco? Si tratterebbe di compilare un elenco davvero lungo; mi accontenterò di menzionare soltanto gli stereotipi più vistosi:
a) la montagna come chiave per aprire lo spirito;
b) la montagna come poesia dell’eroismo e della natura;
b) la montagna come alternativa nobilitante allo stile di vita tritacarne del mondo contemporaneo;
c) la montagna come depositaria di antichi e perduti saperi;
d) la montagna come terra della ritrovata e ritrovabile libertà;
e) la montagna come microcosmo antropologico nel quale persistono valori fondativi quali l’amicizia, il rispetto della natura, la collaborazione col prossimo, la socialità autentica.
In tal modo, in breve, si vende a chi la montagna non conosce una visione della stessa accordata sulle aspettative del largo pubblico. Non vi sono dubbi che il successo di questa rappresentazione della montagna sia dovuto alla sintonia tra gli stereotipi che ho citato e le legittime e giustificabili fantasie di un pubblico di lettori in gran parte cittadino. Posso tuttavia garantire che i libri di montagna di cui sto parlando sono piuttosto diffusi anche tra parecchi montanari. Quest’ultimi, tanto di prima che di seconda classe, si stanno via via convincendo che proprio quella contenuta in simili libri sia la vera montagna; una montagna che essi stessi non hanno finora saputo cogliere e sfruttare a causa della propria arretratezza congenita (perché così, ahimè, pensano ancora di se stessi molti montanari).
Mi pare significativo, sul conto della «nuova» letteratura di montagna, rilevare anche un paio di aspetti relativi ai profili degli autori. Innanzitutto è abbastanza evidente la tendenza per cui molti scrittori di montagna sentano il bisogno di diventare, in consonanza con le loro opere, oggetti di trend stilistico, obbedendo a pretese simbologie estetiche di tipo montanaro, quasi a voler dimostrare come la montagna incida a fondo, e rinnovi, oltre il pensiero e la visione del mondo, anche la persona e il suo modo di presentarsi e rappresentarsi.
Ma questo è forse meno importante, trattandosi in fondo di una legittima scelta di autorappresentazione personale, rispetto ai profili biografici di numerosi scrittori di montagna. Considerandone le biografie, infatti, s’impara che la gran parte di essi vive o ha vissuto esistenze non montanare: magari da pubblicitari in qualche metropoli del mondo occidentale, o da commercialisti, o da esperti di marketing, o da editorialisti di importanti testate.
Conformemente a questa connotazione di «transfughi», parziali o integrali, stagionali o a tempo pieno, gli sguardi di questi scrittori sono quelli di chi abbia scoperto o riscoperto un mondo, la montagna appunto, percepito come un modello di esistenza alternativa, come una pagina nuova che risolve o completa o migliora o rende autentiche esperienze di vita che, in un modo o nell’altro, erano prigioniere, consapevoli o inconsapevoli, di una contemporaneità inappagante e alienante.
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Voli pindarici di alta quota. Rocce splendenti nel sole. Montanari depositari di esistenze autentiche. Nevi infinite. Panorami mozzafiato. Realtà sociali improntate allo spirito di condivisione. Autenticità. Nuovi ritmi di vita. Anche questo è uno sguardo possibile sulla montagna, lo riconosco; ma è uno sguardo, lo confesso, che continua a suonarmi storto.
Faccio fatica a convincermi fino in fondo del fatto che la montagna, in se stessa, possa essere una soluzione, una possibilità, un’alternativa. La montagna – e questo, naturalmente, è frutto del mio parzialissimo sguardo di «nativo» – mi sembra invece, più che un altrove possibile, una condizione data, un amore difficile e problematico che non lascia scampo. Non mi riesce di decifrarla come un luogo in cui andare a trovare un’alternativa al contemporaneo, ma, piuttosto, come un luogo che richiede uno specifico e non sempre romantico sforzo affinché sia possibile persistervi; per restarvi, cioè, senza essere espettorati dal contemporaneo; evenienza da scongiurare, io penso, dato che il contemporaneo è la dimensione storica che a noi tutti pertiene.
Penso a molte persone che si sono trovate a vivere in montagna perché vi sono nate. Tutto tranne che facile. Vi sono i disagi viabilistici, economici e culturali, come tutti sappiamo; ma oggi è forse più tormentoso il gioco costante di frizioni con la cultura dominante, la quale, tanto quanto esalta la vita libera nei libri di montagna e nei documentari televisivi di sapore rural, altrettanto, all’atto pratico, non vende ai giovani, giovani montanari compresi, come prospettiva di realizzazione, altro che l’andarsene proprio verso quei concentramenti insediativi da cui molti scrittori di montagna suggerirebbero, invece, di scappare.
Per ogni storia di uomini e donne che tornano o scoprono la montagna, potrei citarne due, tre, quattro di uomini e donne, che già vivono in montagna e che quotidianamente fanno i conti con la cosiddetta «autenticità della vita montanara». A questo riguardo non posso che consigliare un libro eccellente di Christian Arnoldi, Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini (Priuli & Verlucca, 2009).
Nelle scritture di montagna del giorno d’oggi questo aspetto assai poco confortante del vivere quotidiano stenta a emergere. Quando si chiudono i sipari sulle Dolomiti che diventano viola al crepuscolo, cosa rimane della montagna? Chi nasce, vive e muore dentro questo Patrimonio Unesco pensa anch’egli di essere dentro un’alternativa al contemporaneo? O non si sente, piuttosto, tristemente ai margini del contemporaneo?
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È stato maneggiando queste domande e questi dubbi, quella sera d’estate, che il mio amico Paolo Conz e io ci siamo fatti il nome di Mario Rigoni Stern. Non serve certo che io mi dilunghi a disquisire su come la montagna, una montagna complessa e a tutto tondo, mai retorica e sempre esperita, nutra e sostenga la scrittura del grande scrittore di Asiago. Dirò soltanto quali sono le due attitudini, per quanto riguarda il modo di vivere e raccontare la montagna, che a mio giudizio si possono apprendere leggendo le pagine di Rigoni Stern e che ogni scrittore di montagna dovrebbe forse custodire nel cuore. Innanzitutto la franchezza. Mario Rigoni Stern è franco. Parola magnifica: «franchezza». Dice il vocabolario Treccani: «Qualità di chi è franco, schietto, leale nel parlare e nell’operare». Nella Storia di Tönle, la franchezza è in ogni riga, in ogni parola; e così anche in Stagioni, in Uomini, boschi e api, in Quota Albania e via discorrendo.
Questa attitudine, la franchezza, non è naturalmente una peculiarità della montagna e dei montanari; sappiamo tutti che fra le montagne si nascondono in quantità, come in ogni luogo del mondo, gradassi e mentitori. Ma nel momento in cui un animo franco, come quello di Mario Rigoni Stern, si trova a vivere e a raccontare la montagna ecco che fiorisce una montagna che sa essere morbida e dura, ondulata e spigolosa. Ci sono l’incanto dei fiori, il ronzio delle api, i giochi di luce, le meraviglie delle stagioni, ma anche la durezza del suolo da scalfire con la zappa per piantare qualche chilo di patate, il senso di distanza dai centri del mondo, l’inospitabilità dei luoghi difficili. Ci sono la stupefazione del sole che sorge dietro le rocce, ma anche storie di individui prostrati e sconfitti dalla vita in montagna. Ci sono l’amore per le tradizioni montanare che si perpetuano, ma anche l’amarezza nel constatare l’impossibilità di tenere compiutamente il passo con i tempi senza castigare queste medesime tradizioni.
Facciamo un esempio tematico a mio parere molto forte. Io non sono cacciatore. Mangio selvaggina quando proprio mi tocca, e sempre con i denti un po’ alti. Non capisco fino in fondo perché si debba sparare a un capriolo o a una lepre. Lo confesso: non lo capisco. Mario Rigoni Stern, però, come tutti sappiamo, era cacciatore. Amava ungere il fucile, seguire le piste delle bestie, toccare le chègole trovate nel bosco per capire quanto tempo prima era passato il capriolo. Questa è montagna, montagna purissima e vera, straordinaria quanto i tramonti sulle cime.
Ma dobbiamo forse credere che gli scrittori venditori del teatrino pacificato della montagna si sognerebbero di cantare la poesia del flobert, del colpo che va a segno, della posta tesa al cervo? Direi di no, perché questo non rientra nello stereotipo montanaro dei nostri tempi. Eppure, ripeto, anche questa è montagna, sanguinaria se vogliamo, e ideologicamente ingombrante; ma è montagna.
Oltre alla franchezza, Mario Rigoni Stern ci insegna un’altra attitudine: l’umanità. Io non ho avuto la fortuna di conoscere Rigoni Stern di persona, ma amici che l’hanno conosciuto e frequentato mi assicurano che l’umanità, in lui, non era affatto una piega impostata dello scrittore, ma una caratteristica dell’uomo. Seguiamo ancora il metodo già usato per la franchezza: vocabolario Treccani, lemma «umanità». Dice: «Sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini».
Direi che non vi sono dubbi sul fatto che la «comprensione verso gli altri uomini» sia una delle caratteristiche più limpide e lampanti della scrittura di Mario Rigoni Stern; e il pensiero va subito a Il sergente nella neve, ma anche al modo con cui vengono trattati i personaggi anche secondari all’interno della Trilogia dell’Altipiano, o allo sguardo umano di Ritorno sul Don.
Sono convinto che la scrittura di montagna debba mettere proprio questo davanti a tutto: l’umanità. Essa, infatti, come la franchezza, dà forma a uno sguardo. Come dire? Affina la capacità di cogliere nei luoghi e negli uomini che abitano la montagna gli aspetti più intimi, più profondi, più inconciliabili. Non parlo di introspezione psicologica, che forse è il meno. Parlo invece della capacità di percepire i dettagli di comportamento, di identificare storie individuali e famigliari di grande potenza, di approcciarsi a tutto quello che riguarda l’umano attraverso un altro nobilissimo sentimento: la compassione, nel senso etimologico del termine.
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È verissimo che viviamo in un’epoca in cui vi sono strumenti di formazione del senso comune ben più capillari e aggressivi dell’oggetto «libro stampato». Ogni scrittura, buona o triste che sia, finisce però in qualche modo con il lasciare lo stesso un segno nel reale; inutile negarlo. L’idea di montagna che trionfa nelle nostre librerie, di conseguenza, non può non avere ricadute sul modo in cui la montagna viene pensata, vissuta e progettata. E a me pare che dallo scrivere di montagna oggi, fatte le debite eccezioni, stia uscendo una montagna sapienziale fin che si vuole, e agonistica, e poetica, e turistica, e alternativa, ma assai lontana dalla franchezza e dall’umanità che Mario Rigoni Stern ha dimostrato essere necessarie per descriverla e viverla con rispetto e pertinenza.
L’ho già detto: io sono un semplice lettore, uno storico-scrittore recalcitrante e un montanaro di seconda classe. Perciò non ho titoli particolari per dire cosa sia la montagna di Mario Rigoni Stern e cosa dovrebbe essere, oggi, la montagna. Tuttavia sono certo di una cosa. Chi scrive di montagna deve confrontarsi con Mario Rigoni Stern: non per ricavarne potenziali soggetti per nuove storie di montagna, per replicare i suoi punti di vista, per condividere il suo modo di vivere o per porsi al sicuro sotto il suo cappello riconoscendosene discepolo. Mario Rigoni Stern va letto, assai più semplicemente, per addestrarsi alle due grandi attitudini, l’umanità e la franchezza, senza la quali ogni scrittura, e le scritture di montagna in particolare, è destinata a restare vuota retorica.