Le storie dei luoghi rischiano di perdersi nel turbinio del tempo presente. Spostarsi a velocità di bipede permette di cogliere l’eco di queste storie e di accorgersi di quanto e come i segni stratificati dell’azione dell’uomo abbiano mutato il paesaggio. Questi segni, spesso, sono profonde e vive ferite: scempi ambientali, installazioni industriali che avvelenano l’ambiente.
L’alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, è disseminata di impianti d’estrazione petrolifera, in parte già operativi, in parte ancora fermi, ma pronti a entrare in azione. Questi impianti sono di proprietà di Total, multinazionale petrolifera i cui tentacoli si allargano in svariati campi di produzione.
Kali, un’escursionista, ha visitato l’area e raccolto le sue impressioni nel racconto che pubblichiamo a seguire.
Le sue parole trasmettono la bramosia dell’Entità che avvelena la terra, gli animali, gli esseri umani. Un’entità maligna che si maschera dietro una retorica insinuante, ipocrita e incantatoria, di “responsabilità d’impresa”. Un’entità la cui essenza predatoria è animata dallo spirito capitalistico fattosi materia.
La devastazione ambientale che avanza sotto ai nostri occhi pare non trovare freno, chi ne è veicolo si ostina a negare i cambiamenti climatici in corso e, al contempo, ne alimenta le cause. Raccontare e dare rappresentazione all’Entità – come ha ben dimostrato Wu Ming 1 in Un viaggio che non promettiamo breve, da pochi giorni disponibile in free download su Giap, e come ben sa Turi Vaccaro, oggi in galera, che l’Entità ha avuto la forza di sfidare – può essere uno strumento atto a spezzare l’inganno, a mostrare per quel che è la devastazione: fare il vuoto lì dove c’è la vita.
Il racconto è stato regalato da Kali all’Associazione proletari escursionisti (APE), nostri compagni di scarpinate con cui lo scambio è sempre aperto, che a loro volta l’hanno donato ad Alpinismo Molotov per la pubblicazione. Cogliamo questa occasione per segnalare che il sempre più ampio network apeino si ritroverà dal 19 al 21 ottobre prossimo al Rifugio Sel Rocca Locatelli al Pian dei Resinelli per un incontro nazionale aperto ad «aderenti e sodali».
Storie di ordinarie trivellazioni
di Kali
Capita a volte di fare letture particolarmente ispiratrici, a me è successo un lunedì mattina con un articolo di Rebecca Solnit; l’autrice partiva dalla considerazione che il silenzio, oltre a essere un momento di quiete e introspezione, può costituire anche una forma di repressione, quando non si ha voce per esempio e diventa un contenitore di non detti.
L’articolo si sviluppava poi su un suo filone ma la mia testa si era subito persa in un déjà vu della domenica appena trascorsa: quella giornata mi sembrava ora un’alternanza di diversi tipi di silenzio, come in quei grafici che salgono e scendono, una specie di elettrocardiogramma emozionale.
E veniamo al racconto, comincia con un silenzio di attesa, da domenica mattina un po’ sonnolenta, poche chiacchiere in macchina mentre viaggiamo. Improbabili escursionisti, improbabili turisti attraversiamo in macchina Pietrapertosa, non ci mettiamo molto, ce la lasciamo alle spalle in pochi minuti, è proprio la domenica mattina per antonomasia, non è ancora aperto neanche il “volo dell’angelo”, attrazione turistica principessa delle Dolomiti lucane, incrociamo solo un’altra macchina, nei paesi si ostinano a percorrere distanze irrisorie con le auto, questione di status… Silenzio, non so perché ma sembra il silenzio prima della tempesta.
Imbocchiamo una strada che si inoltra in un altro silenzio, un po’ più naturale, attraversiamo un paesaggio tra la montagna e la collina; stamattina sembrano in vacanza pure le bestie, niente mucche o altro, continuiamo per un bel po’, siamo lenti anche noi.
Unico segno di “civiltà” umana: in lontananza un folto gruppo di pale eoliche, ma sono belle lontane per violare questo silenzio di campagna.
Poi la presenza umana si fa più invadente della semplice strada malmessa che stiamo percorrendo, anche le pale ora sono più vicine. Ai lati della strada terra smossa da mezzi molto pesanti (portare qui quelle pale non deve essere stato un lavoro da poco), c’è un piccolo avvallamento del terreno dove sono parcheggiati dei mezzi ed evidenti lavori in corso. Non facciamo in tempo a fermarci per capire perché abbiamo dietro una delle rare macchine incontrate, ma non ce n’è bisogno, sappiamo che cosa ci aspetta appena scollineremo quest’ultimo crinale. Ed ecco l’impatto. È decisamente violento, stavolta il passaggio non è verso un altro silenzio: oltrepassiamo la piccola cima che nascondeva il paesaggio e subito dopo la prima grande pala eolica l’asfalto si trasforma, ora è nuovo e senza nemmeno una buca, ai lati della strada compaiono dei muretti di cemento con i canali di raccolta dell’acqua, sembra di aver attraversato di botto la porta di un’altra dimensione. Di fronte a noi fervono i lavori, come una base extraterrestre nel nulla della Basilicata più nascosta: il Centro oli di Tempa Rossa.
Non è ancora in funzione ma si capisce che non ci vorrà molto perché lo sia, mi sembra di essere catapultata all’interno di un documentario che vidi tempo fa su uno stabilimento dell’Alberta, in Canada, in cui si estraggono idrocarburi dalle sabbie bituminose: una ripresa aerea dell’immenso impianto senza nessun commento se non il rumore prodotto da questo, un rumore meccanico, industriale, incessante, distopia tecnologica nel mezzo delle foreste canadesi. È difficile raccontare l’effetto che si sente nel corpo, dentro proprio.
Il silenzio stavolta è il nostro… guardiamo, ascoltiamo… le sensazioni sono molto concrete.
Poi ci spostiamo, di nuovo in macchina, scendiamo lungo la via asfaltata ora, ci sono tanti segnali stradali con le indicazioni per raggiungere i vari pozzi, quella specie di cantiere che abbiamo visto prima delle pale è uno di questi. Procediamo, svoltiamo seguendo l’indicazione che dice «Pozzo di Tempa Rossa 2», i lavori fervono anche qui, non so se è già produttivo: ci sono degli operai, la terra nei dintorni è tutta smossa, tubi che passano ovunque, buche che sono crateri, segni del passaggio di tanti camion e nel mezzo dello scempio in corso un cartello che sembra una pubblicità recita «La sicurezza di papà ci dà Serenità», con tanto di quadretto familiare in attesa del capo-famiglia evidentemente al lavoro sicuro con la Total. Alla mamma hanno colorato i denti con un pennarello.
Non riusciamo ancora a dire nulla, a dirci nulla, ancora silenzio, le parole non escono, continuiamo ad andare: il centro oli alle spalle, altri cartelli stradali, una strada vietata al transito per lavori, un bosco tagliato a metà e lì di fianco un altarino con una madonna, manco i santi hanno protetto ‘sta terra, mi viene da pensare.
Continuiamo, continuiamo… c’è un dettaglio che ha quasi del comico, grottesco: ci sono cartelli di STOP in un tutte le piccole strade che si immettono su questa principale, con anche le strisce bianche e la scritta per terra, in qualche caso stradine che finiscono dopo nemmeno 100 metri. Come se uno non si lavasse per tre mesi e poi indossasse vestiti eleganti e profumati, o come qualcuno che ti prende a parolacce ma educatamente, con una formalità da presa in giro.
Procedendo lungo la strada asfaltata vediamo Corleto, che faceva da sfondo già a Tempa Rossa 2, ora è proprio vicino, ma noi prima di entrare nel paesino giriamo a destra per un’altra stradina asfaltata che costeggia un piccolo fiume: porta ad un centro di carico e a un altro pozzo… incontriamo una macchina di un’azienda di vigilanza. Questo pozzo sembra già in funzione, manco a dirlo, nel silenzio, la vigilanza lascia il segno del suo passaggio sul cancello e noi continuiamo verso Corleto.
Usciti dalla stradina vicino al fiume di nuovo un cambio di dimensione: la strada adesso è piena di buche e dire buche è un eufemismo, neanche l’asfalto fino al paese, si saranno fermati alla fine della concessione.
Due curve fuori dall’abitato e siamo nel bosco tra Corleto e Laurenzana, il silenzio degli alberi… finalmente. Ci fermiamo a caso appena vediamo un sentiero che sale, parcheggiamo alla bene e meglio sul margine della strada e via: siamo affamati e non è perché è ora di pranzo, saliamo a testa bassa e passo sostenuto, cerchiamo avidamente il silenzio della montagna. Saliamo, saliamo senza dire ancora nulla e nel bosco dei piccoli sfiatatoi gialli recitano «gasdotto». Non c’è proprio niente da dire, saliamo sempre più zitti fino a che il vento della cima ci ruba il silenzio…
Lungo la via del ritorno c’è un pensiero che mi consola: “stasera almeno prenderò una piccola parte di bellezza”. Mi aspetta un concerto al conservatorio, uno di quei concerti dove ad un prezzo accessibile vado a godere di un’orchestra, con tutti i suoi strumenti. Mi sento già seduta su quelle poltrone, chiudo gli occhi e mi godo l’acustica quasi perfetta. E arriva il momento del bello, la sera mi siedo finalmente su quella poltrona, per un attimo la pesantezza della giornata scivola via, prendo lo stampato con il programma del concerto e l’occhio cade a margine dell’elegante foglio lucido, il concerto sta cominciando, ma io sento solo, di nuovo, silenzio… le orecchie tappate, il mondo ovattato, come quando ci si immerge sott’acqua, le luci si abbassano e tra gli sponsor, in quel multicolor patinato, leggo «Total»…
Rassegna Stampa Ottobre 2018 | CDCA
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