di Mr Mill
Se diamo il paesaggio per scontato, non vediamo il conflitto;
se facciamo al paesaggio le domande giuste, evochiamo i fantasmi.
Il modo in cui i fantasmi si manifestano può aiutarci
a prevedere il conflitto sociale a venire
e lottare per dare una nuova forma al territorio.
(Wu Ming 1, Cantare la mappa)
Impronte in Adamello: all’origine della traccia
Il 18 dicembre 2016 i giornali locali bresciani riportano la notizia di una riunione tenuta a Edolo, in Alta Valcamonica. A indire l’incontro la tal associazione Impronta Camuna (“Migranti camuni a Brescia e dintorni”). La ragione quella di costituire un “comitato di coordinamento” per la realizzazione di due iniziative per l’anno del centenario della fine della Grande guerra: fare del Monte Adamello tutto un “altare degli Alpini” e, per “consacrarlo” idealmente a sacrario, posare temporaneamente sulla sua parete nord un drappo tricolore lungo mille metri e largo nove, subito ribattezzato “bandierone”. Il presidente dell’associazione Impronta Camuna – Roberto Bontempi – usa toni solenni nel presentare il progetto, accostando quello che dovrebbe diventare il sacrario adamellino all’Altare della patria, i caduti in Adamello al Milite ignoto:
È nato il Comitato che promuoverà le iniziative per far sì che la montagna dell’Adamello sia elevata ad Altare degli Alpini. È stata scelta questa denominazione, pensando al più famoso Altare della Patria a Roma, dove sono custodite le spoglie del Milite Ignoto. L’accostamento risulta più che appropriato: infatti da un’analisi approfondita le somiglianze sono evidenti. Sulle montagne del gruppo dell’Adamello si è combattuto durante la Prima Guerra Mondiale. Qui tanti ragazzi, gli Alpini, hanno dato la vita per il bene dell’Italia le loro lacrime e il loro sangue hanno bagnato questa terra, che li ha accolti tra le sue braccia. La consacrazione del massiccio dell’Adamello serve, perciò, a non far dimenticare il sacrificio dei nostri soldati. Vogliamo che i giovani lo conservino nella memoria perché sappiano quanta fatica e quanto dolore sono stati necessari per “fare l’Italia e per farci sentire popolo unito”.
A questo incontro vengono invitati molti soggetti, dall’ANA (Associazione Nazionale Alpini) di Valle Camonica alla Conferenza stabile CAI Valle Camonica, dal Collegio Guide alpine “Valle Camonica – Adamello” all’Unione bande di Valle Camonica, rappresentanti degli enti locali (dalla Regione Lombardia ad alcuni comuni valligiani, con rappresentanze dei vari livelli intermedi e della Prefettura di Brescia), più una nutrita truppa di militari (in servizio o a riposo), fino al Comitato di coordinamento delle iniziative commemorative centenario di Brescia. Il Giornale di Brescia, dando notizia di questo incontro, riporterà a proposito: «Il neo organismo è presieduto dall’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, e insieme al Prefetto di Brescia Valerio Valenti conta una trentina di autorità politiche, militari e membri di diverse associazioni, a partire dall’Associazione nazionale alpini, che opereranno in sinergia per far fronte al complesso iter burocratico».
Va sottolineato che la zona interessata dall’installazione del “bandierone” rientra completamente nel Parco dell’Adamello, un’area di tutela ambientale di 51.000 ettari (510 km2) istituita dalla Regione Lombardia in accordo con la Comunità montana di Valle Camonica nel 1983, dopo che sul versante trentino del massiccio era già stato costituito nel 1967 il Parco Adamello-Brenta. L’area del Parco dell’Adamello è inserita nella “rete ecologica” europea Natura 2000.
Non stupisce dunque che il progetto debba affrontare un «complesso iter burocratico», ma a essere ambiziosissima è anche la realizzazione dal punto di vista tecnico: si dovrà infatti fare i conti con un “bandierone” che peserà 18 quintali circa, da installare a partire da una quota di circa 2.500 m slm e che risalirà fin sotto alle vetta (3.539 m slm). Il “bandierone” dovrebbe essere non solo ancorato a “bella” mostra, ma scenograficamente issato lungo la parete nord. Su questo aspetto però le informazioni sono assai vaghe, si accenna ad ancoraggi nella parete rocciosa e a teleferiche di servizio, mentre per le specifiche delle opere di realizzazione si rimanda a un progetto di massima, lasciando grossi margini di dubbio sulla fattibilità di un progetto che gli stessi proponenti indicano come un «sogno».
Per non farsi mancare nulla e lasciando briglie sciolte all’immaginazione, dopo questo incontro già si ipotizza la presenza delle Frecce tricolori, che dovranno sorvolare l’Adamello disponendosi a raggera dal centro del massiccio verso il suo esterno. La data d’inaugurazione è individuata nel mese di luglio del 2018, in corrispondenza all’annuale Pellegrinaggio alpino in Adamello, manifestazione organizzata dall’ANA di Valle Camonica e dall’ANA di Trento, un evento importante nella liturgia degli ex-alpini dell’ANA.
Da quando questo progetto è stato intercettato da Alpinismo Molotov, abbiamo seguito e monitorato la sua evoluzione. Nonostante l’iniziale sostegno “di peso” (in particolare dagli ambienti legati alle forze armate), nel frattempo si sono contate importanti defezioni tra i sostenitori. Prima di darne conto è necessario inquadrare questo evento nella cornice degli eventi che in Italia verranno realizzati per celebrare il centenario della fine della Prima guerra mondiale, che cadrà nell’anno 2018. E, parallelamente, introdurre degli appunti di decostruzione del “Mito dell’Alpino”.
Cosa si celebrerà precisamente nel 2018?
«Grande Sbornia Nazionalista» e Guerra bianca
In un post pubblicato tempo fa su Giap, che annunciava il rilascio in free download de L’Invisibile Ovunque, Wu Ming ha scritto:
Prepariamoci, perché nel 2018 arriverà la Grande Sbornia Nazionalista. Il lungo centenario della Grande Guerra toccherà finalmente la difesa del Piave, la Canzone del Piave, la «Battaglia del Solstizio», Vittorio Veneto, il Monte Grappa, l’Audace che attracca a Trieste, l’armistizio di Villa Giusti, il Bollettino della Vittoria, la «redenzione» della «Venezia Giulia», del Trentino e – già che c’eravamo – del Sud Tirolo fino al Brennero.
La «Grande Sbornia Nazionalista» arriverà dopo che da anni – e non solo dal 2015, centenario dell’entrata in guerra del Regno d’Italia a fianco della Triplice Intesa – vengono somministrati cicchetti quotidiani di retorica nazionalista sulla guera granda, retorica che in occasione delle ricorrenze solenni viene dispensata in capienti calici. E non sarà solamente questo accumulo di tossine a portare all’apoteosi della sbornia, perché appunto, nel 2018, è prevedibile una densità retorica degna delle grandi occasioni, a un secolo dai principali eventi – come ben sintetizza Wu Ming nelle righe riportate poc’anzi – che hanno portato l’Italia a uscire vincitrice dalla Prima guerra mondiale, definendone l’immagine – “la grande proletaria”, i “sacri confini”, “Trento e Trieste redente”, fino alla “vittoria mutilata” – anche nei decenni successivi e, per molti versi, fino ai giorni nostri. È facile dunque profetizzare che si tratterà nella stragrande parte delle iniziative di una celebrazione e non di una più neutra e questa sì, comprensibile, commemorazione.
Uno degli scenari principali che sarà suo malgrado protagonista di questa ondata di retorica saranno le Alpi, area su cui si estese il fronte del conflitto italo-austriaco. Com’è noto, date le quote elevate a cui si fronteggiarono gli eserciti, lo scontro tra i belligeranti nelle aree operative delle Dolomiti, dell’Ortles-Cevedale e – spostandosi via via verso occidente – dell’Adamello-Presanella, prese il nome di Guerra bianca.
Nel settore Adamello-Presanella a fronteggiarsi dal 1915 al 1918 vi furono per il Regno d’Italia principalmente gli Alpini e per l’Impero austro-ungarico i Standschüetze.
Gli Standschüetze erano selezionati tra gli abitanti delle vallate alpine dell’area adamellina parte dell’impero austro-ungarico, in particolare tra i cacciatori che avevano dimestichezza con le armi; in pratica truppe di civili arruolati per coprire quel settore del fronte, mentre le truppe regolari imperiali erano dislocate in altre aree strategicamente più rilevanti.
Le truppe scelte di montagna del Regno d’Italia, ossia gli Alpini, sono ben noti e tutt’oggi sono una figura importante nel pantheon dell’identità nazionale italiana, avendo assunto, per alcuni versi, i tratti del mito; è bene ricordare qui che una delle caratteristiche principali del corpo era la “coscrizione territoriale”, ossia il reclutamento su base territoriale-regionale: chi meglio degli abitanti delle stesse aree alpine poteva difendere quei territori?
Dunque, a scontrarsi in Adamello, furono uomini che conoscevano le montagne, le stesse montagne, montanari che erano cresciuti condividendo la durezza della vita nelle comunità di montagna, e che per secoli avevano intrattenuto rapporti di scambio, commerciale innanzitutto, ma poi, inevitabilmente, anche socio-culturale, e che vennero trasformati in soldati e posti a fronteggiarsi e contendersi una cresta o una cima.
Tra gli interpreti più validi della scenografia celebrativa della «Grande Sbornia Nazionalista», gli Alpini, o più precisamente gli ex-alpini dell’ANA, si può prevedere avranno un posto di particolare rilievo: l’associazione d’armi si erge, a ogni occasione, come rappresentante della memoria del “sacrificio” delle migliaia di uomini in divisa che perirono sui fronti della Grande guerra, in primo luogo proprio nelle trincee ad alta quota, con una retorica che tende ad annullare ogni differenza (di grado, responsabilità e condizione) celandole sotto al vessillo tricolore della Nazione.
Appunti sul “Mito dell’Alpino”
Il mito dell’Alpino è un dispositivo potente che ha preso forma attraverso una stratificazione di immagini e narrazioni che copre i 145 anni dalla fondazione del corpo. Questo “mito tecnicizzato” – utilizzando il lessico con cui Furio Jesi ha indicato il mito intenzionalmente manipolato dall’uomo – meriterebbe di essere decostruito con metodo, sia per la nefasta identificazione di questo con la narrazione costitutiva del discorso sulla montagna e il montanaro, sia per la sua capacità di penetrazione nel e diversione del discorso pubblico.
Secondo Fabio Todero – come riportato nel suo articolo «I nostri bravi soldati alpini»: la nascita di un mito tra letteratura e giornalismo – nel triennio in cui si combatté lungo il fronte italo-austriaco gli alpini erano già un «mito adulto», che nei decenni precedenti aveva preso forma attraverso la narrazione delle campagne militari a cui avevano preso parte. Questa non vuole e non può essere, nonostante la necessità auspicata, la sede per decostruire il «mito dell’Alpino», ma è fondamentale segnalare che i passaggi più significativi in relazione alla definizione di questo mito – così come per la centralità degli alpini nell’immaginario nazional-popolare italiano, che perdura tutt’oggi – avvennero durante e a seguito della Grande Guerra e, più specificatamente, della Guerra bianca. Per comprenderne le ragioni è utilissima la descrizione che Mark Thompson, nel suo La guerra bianca, dà degli alpini proprio a partire dalla specificità del fronte alpino tra gli eventi bellici della Prima guerra mondiale:
Gli alpini italiani andavano fieri di una tradizione che risaliva agli anni settanta del XIX secolo: venivano reclutati tra i montanari, erano devotamente cattolici e monarchici, meno soggetti alla turbolenza politica che colpiva alcune brigate di fanteria, che avevano inquadrato reclute della classe operaia politicizzata. Erano e sono ancora famosi per il loro spirito di corpo, per il loro valore e le loro canzoni. A differenza di molti italiani della pianura e del meridionale sul fronte alpino, non rimanevano sconcertati all’idea di combattere per conquistare montagne inutili e inabitabili.1
L’uso stesso di un nome evocativo come Guerra bianca per indicare il fronteggiamento in armi in condizioni ambientali al limite delle umane capacità d’adattamento, contribuì fortemente alla costruzione del mito dell’Alpino ed entrò immediatamente a far parte dell’armamentario retorico degli alpini.
Dal punto di vista della montagna, delle Alpi, tutto questo è ben descritto da Enrico Camanni in Storia delle Alpi:
Si combatte una guerra assurda e nasce una retorica necessaria: gli alpini e la montagna. I valori di eroismo e altruismo legati al sacrificio dei soldati-alpinisti che si vanno a immolare sull’altare della Patria per difenderne i confini, la leggenda delle penne nere, il maschio gioco della battaglia, il cameratismo montanaro, gli stereotipi del fiasco di vino e del vecchio scarpone segneranno tre generazioni perché metà delle famiglie italiane perderà un padre, un marito, un figlio al fronte, o lo vedrà tornare invalido, oppure pazzo. Il mito dell’alpe insanguinata conquisterà un ruolo indelebile nel Novecento e offuscherà il ricordo romantico dell’alpinismo dei pionieri. La Guerra bianca sancisce il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dai regimi, riprenderanno la strada delle vette in tempo di pace.2
Altre tappe consolidarono il mito dell’Alpino dopo la Grande guerra, fino a trasformare quel mito guerriero in ciò che è la figura dell’alpino, ancora oggi, a noi familiare: il bonario montanaro, guance vermiglie, spalle larghe e braccia muscolose, tutto generosità e slancio altruistico verso il prossimo. L’aspetto marziale tende a essere eclissato, spesso anche quando si fa riferimento ai reparti alpini in servizio questo passa in secondo piano: sparano, ma a sparare sono “ragazzi dal cuore d’oro” e sempre in nome dei “valori in cui crediamo”.
Gli alpini hanno rappresentato con questa loro immagine mitizzata un cardine portante nella costruzione di un altro mito, quello degli «italiani brava gente», e del discorso nazionale vittimistico: per dimenticanza interessata – che si parli del colonialismo italiano, della Prima guerra mondiale o della Campagna di Russia del 1941 – la retorica cancella la distinzione tra aggressori e aggrediti. A tal proposito, sempre Mark Thompson, usa parole che non ammettono replica sul ruolo di aggressore che l’Italia ebbe durante la Prima guerra mondiale:
[…] l’Italia era la sola tra i principali alleati a non poter avanzare ragioni difensive per la guerra. Era un aggressore dichiarato, che interveniva per accrescere il proprio territorio e il proprio prestigio. Gli italiani erano più divisi sulla guerra di qualsiasi altro popolo. Per una minoranza, la causa era lampante: l’Italia doveva lanciarsi nella lotta non solo per ampliare i suoi confini, ma per forgiare la nazione. Nella fucina della guerra, le differenze provinciali si sarebbero fuse e temprate in una lega nazionale. Quanto più grande fosse stato il sacrificio, tanto maggiori sarebbero stati i proventi.3
Se il dato storico è incontrovertibile si può sempre, al limite, raggirarlo ricorrendo al “vittimismo di stato”:
Anche il vittimismo dei poteri costituiti, il vittimismo di stato, ha una lunga storia, e plausibilmente un radioso futuro. Per ragioni facilmente intuibili, nella storia non c’è guerra d’aggressione che non sia stata scatenata da una sedicente vittima, da qualcuno che affermava di doversi difendere, reagire a una minaccia, riparare un torto subito, far valere un diritto negato ecc. Ogni volta si fa iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità e poter dire che «hanno cominciato gli altri».
L’immagine dell’alpino-montanaro perdura e si riproduce grazie ad alcune liturgie. L’ampio repertorio delle canzoni alpine, in primis, tema su cui sarebbe necessario tornare in maniera specifica per l’influenza pesantissima sull’immaginario legato alle montagne. Le ricorrenti “Sante messe” a suffragio dei caduti, sempre chiuse dalla “preghiera dell’alpino” che tra i suoi versi recita, nella versione per gli ex-alpini dell’ANA:
Dio onnipotente, che governi tutti gli elementi,
salva noi, armati come siamo di fede e di amore.
Salvaci dal gelo implacabile, dai vortici della
tormenta, dall’impeto della valanga,
fa che il nostro piede posi sicuro
sulle creste vertiginose, su le diritte pareti,
oltre i crepacci insidiosi,
rendici forti a difesa della nostra Patria e della nostra Bandiera.
Mentre per gli alpini in servizio, il «rendici forti a difesa della nostra Patria e della nostra Bandiera» è sostituito con «rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana». Sì, proprio così: «nostra millenaria civiltà cristiana»4.
E ancora il reducismo (anche solo della “naja”), le adunate – da quelle sezionali a quella nazionale – che propongono un mix “sacro e profano”5 e i pellegrinaggi, tra cui il pellegrinaggio annuale in Adamello. E se questa, come scritto, non è la sede per approfondire oltre il mito dell’Alpino, prima di tornare al “bandierone” tricolore in Adamello, va dedicata una breve parentesi a quest’ultimo appuntamento a cadenza annuale.
Breve storia del Pellegrinaggio alpino in Adamello
Il primo Pellegrinaggio alpino in Adamello risale al 1963, organizzato da Luciano Viazzi e Sperandio Zani. Da allora l’organizzazione del pellegrinaggio è in carico, ad anni alterni, alle sezioni ANA di Valle Camonica e di Trento, con colonne di ex-alpini che dalle sponde delle due provincie risalgono i versanti del massiccio dell’Adamello per convergere in un unico punto di ritrovo, quest’anno al Passo di Lago Scuro. Al pellegrinaggio 2017 è stato attribuito il titolo «del Centenario», a ricordo del bombardamento da parte austro-ungarica di Ponte di Legno – in Alta Valle Camonica – che venne distrutto il 27 settembre 1917. Sull’opuscolo di presentazione del pellegrinaggio è così riportato:
Pontedilegno (Sic!) ha sempre ricordato i fatti della grande Guerra anche per la distruzione del paese che le bombe incendiarie austriache provocarono il 27 settembre 1917. L’alta Vallecamonica (Sic!) era entrata in un clima di guerra già dal 1914 (l’Italia dichiara guerra all’Austria il 25 maggio 1915) con la costruzione di parecchie opere di viabilità che consentirono l’approntamento di opere e strumenti di difesa alle quote più alte. Il primo agosto 1915 l’autorità militare ordinò lo sgombero totale degli abitanti di Pontedilegno che si rifugiarono in gran parte presso le località limitrofe al paese in zone meno esposte al tiro avversario. Fu un atto provvidenziale che salvò la vita della popolazione dalignese.
Questo poche righe sono un buon esempio pratico di quanto riportato nella citazione di Wu Ming 1 a riguardo del “vittimismo di stato” – «iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità»: «l’Italia dichiara guerra all’Austria il 25 maggio 1915», ma si definisce «provvidenziale» la decisione dell’esercito di sgomberare gli abitanti di Ponte di Legno, a cui seguì il bombardamento del paese da parte austro-ungarica «il 27 settembre 1917».
Il pellegrinaggio si caratterizza per essere «testimonianza alpina e cristiana al tempo stesso»5, vi abbondano nei discorsi i richiami alla Nazione, i tricolori, il generico richiamo ai «valori», in primis all’alpinità. Un neologismo, quest’ultimo, il cui significato, in un articolo pubblicato nel 2005 sulla storica rivista dell’ANA L’Alpino, viene così descritto: «Alpinità è quell’insieme di buone idee, di disinteressate azioni, di coesione morale e di amicizia che supera i ceti sociali e che fa dei nostri iscritti un blocco abbastanza omogeneo». Quell’«abbastanza» – per inciso – viene concesso solo per ammettere gli umani pregi e difetti individuali, ché nell’ANA la distinzione tra il vertice associativo e la base degli iscritti viene nella propria autorappresentazione annullata, la narrazione corrente è infatti quella dell’apoliticità e dell’omogeneità: sono annullate le differenze di orientamento politico, come di classe o di ceto.
Il pellegrinaggio del 1963 ha però dei precedenti di forte impatto simbolico: nel 1924 l’ANA organizzò al Passo del Tonale il proprio “5° Convegno nazionale”, in occasione del quale venne inaugurato proprio sul valico un “monumento alla vittoria”, una replica in bronzo della “Vittoria alata” posta su di un piedistallo (nel 1936 nello stesso luogo venne costruito il sacrario visibile ancora oggi, sulla cui sommità è posizionata la copia della “Vittoria alata”). La manifestazione denominata “Convegno nazionale”, a partire dal 1929, assumerà il nome di “Adunata nazionale”, così come la conosciamo tutt’oggi; questo cambio di denominazione fu il primo di una serie, con l’obiettivo di “militarizzare” l’associazione, dato che – durante la reggenza di Angelo Manaresi dell’associazione d’armi – anche la denominazione degli organismi e delle cariche associative vennero modificate: la carica di “Presidente nazionale” verrà modificata in “Comandante”, le “Sezioni” verranno rinominate “Battaglioni”.
Sempre nel 1929 un’altra adunata – non “nazionale”, essendo questa organizzata a Roma – si tenne nel Gruppo dell’Adamello per l’inaugurazione del “Rifugio ai Caduti dell’Adamello”, situato a breve distanza dal passo della Lobbia Alta. L’adunata avvenne a favore di cinepresa, infatti per l’occasione l’Istituto Luce produsse un resoconto cinematografico che, presumibilmente, venne proiettato durante i “cinegiornali” (strumento fondamentale per la propaganda del regime fascista) e che oggi è possibile vedere qui:
Angelo Manaresi, ricordiamolo, è stato durante il ventennio fascista l’eminenza nera della retorica di regime sulle montagne: dal 1928 alla guida dell’Ana, nel 1929 viene nominato da Mussolini sottosegretario alla guerra, nel 1930 è designato alla presidenza del CAI, mutandone il nome da Club alpino italiano al più italico Centro alpinistico italiano. Significativamente, già dal 1926 era presidente dell’Opera nazionale combattenti.
Nel marzo del ’43, come Comandante dell’ANA, Manaresi andò a confortare i sopravvissuti dell’Armir [Armata italiana in Russia, Ndr], giungendo nelle retrovie con un treno carico di vettovaglie. L’intento era quello di «rincuorare», ma come scrisse nei suoi diari l’ex-alpino e poi partigiano-scrittore Nuto Revelli, l’effetto ottenuto fu l’opposto:
«Alle ore 12 adunata, a sorpresa, di tutto il reggimento […]. Girano il «film Luce», fotografie, pubblicità da buon prezzo. È l’inizio di una serie di pagliacciate delle quali saremo spettatori e, involontariamente, attori secondari. Abbracci alla «vecio», roba da 10° alpini. Il colonnello più anziano presenta la forza al tenente colonnello Manaresi e tutti scattano sull’attenti […]. Manaresi ha portato il saluto personale del duce. Cialtroni! Più nessuno crede alle vostre falsità, ci fate schifo; così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto […]. Chi ha fatto la ritirata non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi a farvi fuori!»7
L’episodio è citato nella scheda biografica dedicata a Manaresi sul sito della sezione ANA Bolognese Romagnola che porta il suo nome, ma lo si racconta in maniera differente:
Nel marzo 1942 si reca due volte in visita ai reparti sul fronte russo e nel marzo 1943 è l’unico “gerarca” che ha il coraggio di andare, allestendo un treno di viveri vestiario e generi di conforto, incontro ai reduci della Campagna di Russia, ed anche questo suo gesto non sarà dimenticato.
Sì, perché della storia degli alpini nulla è da scoprire, tutto è noto, ma è stato raccontato a bella maniera e moltissimo è il rimosso. Come scriveva Furio Jesi nel suo Cultura di destra, con parole che aderiscono perfettamente al discorso del mito dell’alpino, il passato è trattato come «una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare», in un contesto culturale in cui «esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola». Il passato del “mito tecnicizzato”, in estrema sintesi, corrisponde al rimosso.
Anche questi precedenti dei “moderni” pellegrinaggi alpini in Adamello fanno parte di questo rimosso, attuato attraverso un rimodellamento, edizioni dopo edizione, fino a mutare il senso dell’appuntamento adamellino degli ex-alpini: nel 1968 sul Corno di Cavento, ad esempio, venne organizzato l’incontro tra il colonnello Fabrizio Battanta e il maggiore Alfred Schatz, che durante la Guerra bianca si erano trovati su fronti opposti per la “conquista” di questa cima. Un simbolico abbraccio di riappacificazione tra i due ex-militari viene tuttora speso come il superamento della celebrazione della vittoria italiana della guerra, ammantando il gesto di fratellanza tra il popolo italiano e quello austriaco.
Ancora, nel 1988 gli ex-alpini accolsero un pellegrino d’eccezione, Karol Wojtyła, che, a quota tremila, celebrò messa da un altare in granito realizzato in suo onore (e che tuttora si trova nei pressi del Passo della Lobbia Alta, alla base, per l’appunto, di Cima Papa Giovanni Paolo II, già Cresta Croce, dove è stata collocata una grande croce in tonalite dell’Adamello, benedetta dallo stesso Wojtyła). Anche questa edizione del pellegrinaggio viene sovente richiamata, così come viene sottolineato il suo valore di riappacificazione.
Quello che non torna, in questa retorica, è come il messaggio di riappacificazione possa coesistere con il tripudi di tricolori e con la retorica dell’eroismo alpino che ad ogni celebrazione viene dispensata, che si tratti del pellegrinaggio in Adamello o di una delle adunate nazionali. Ricordiamo che nel 2018 l’adunata nazionale si terrà nella irredenta Trento, una scelta che ha fatto discutere e che poco ha a che fare con uno spirito che si vorrebbe di commemorazione e di riappacificazione, quanto piuttosto con la celebrazione della Nazione e dei suoi miti originari.
E qui torniamo al “bandierone in Adamello”, alle dichiarazioni di Roberto Bontempi che – come abbiamo riportato in apertura del post – parla della necessità di ricordare “ai giovani” il dolore e la fatica che furono «necessari per “fare l’Italia e per farci sentire popolo unito”».
Il “bandierone” non s’ha da fare
Nell’estate 2017 si sono susseguite le defezione dal sostegno alla realizzazione del progetto, innanzitutto per la sua incompatibilità ambientale. In agosto un doppio diniego: Parco dell’Adamello e Comunità montana di Valle Camonica prendono ufficialmente posizione.
A bocciare il progetto a nome del Parco dell’Adamello sono il direttore Dario Furlanetto e il responsabile del Servizio foreste e bonifica montana, Gian Battista Sangalli. Le criticità principali del progetto sono riscontrate nel disturbo alla fauna selvatica arrecato dai lavori preparatori e dalla presenza in loco dell’opera stessa, con il previsto ricorso all’uso di elicotteri – con rumori, scarichi di residui di carburante, suoni e luci –, che avrebbero un impatto incompatibile con gli obiettivi di tutela ambientale e faunistica del parco. Il parco è infatti ambito classificato come zona di riserva naturale parziale, zona di protezione speciale e zona speciale di conservazione. Viene espressa anche la preoccupazione che una forte esposizione mediatica dell’opera possa comportare un importante quanto critico afflusso di visitatori nell’area, con rischi per l’equilibrio degli ecosistemi presenti.
Il parere preliminare espresso dal Parco dell’Adamello dovrebbe considerarsi vincolante, ma, come vedremo, il comitato promotore ha dichiarato la volontà di non abbandonare il progetto.
D’altro canto, a seguito della presentazione del progetto, in diverse occasioni era stato tracciato da parte dei sostenitori del “bandierone” il parallelo (invero poco credibile) con l’installazione dall’artista Christo The Floating Piers realizzata sul lago d’Iseo nel 2016: un milione e mezzo di visitatori in quindici giorni8. Sì, perché uno degli elementi di convincimento dell’opinione pubblica – lasciato intendere tra le parole o esplicitato – è stato il più classico degli argomenti, uno dei postulati delle strategie del marketing territoriale, in questo caso applicato alla valorizzazione della Grande Sbornia Nazionalista: l’operazione porterà visibilità alla zona e, quindi, soldi. Sappiamo che così non sempre funziona, che i danni di un’opera spesso non vengono conteggiati, che le entrate – quando ci sono – ingrossano i bilanci dei soliti soggetti.
Dal 2015, anno d’inizio delle celebrazione del centenario della Grande guerra, i casi in cui è stato innescato il circolo più vizioso che virtuoso tra celebrazioni e marketing territoriale sono stati numerosi, a volte subordinando le celebrazioni all’attrattività del marchio Grande guerra, con risultati che tolgono il fiato per faciloneria e sfrontatezza. È il caso, per esempio, di una corsa in montagna di cui si è occupata Nicoletta Bourbaki, il Rommel Trail. The night of the desert fox, organizzato con il sostegno di organismi regionali del Friuli-Venezia Giulia e intitolata proprio a quel Erwin Rommel, pilastro del Terzo Reich, che la faciloneria di certe mitologie di terza mano ha provato a rendere presentabile in veste di protagonista dalla divisa pulita della Prima guerra mondiale.
Tornando in Valle Camonica, a rafforzare il diniego espresso dal Parco dell’Adamello, basato su una valutazione strettamente “tecnica”, la posizione espressa dall’ente gestore del parco: la Comunità Montana di Valle Camonica infatti, tramite una lettera a firma del suo presidente Oliviero Valzelli (come riportano i quotidiani locali), ribadisce la contrarietà alla realizzazione dell’opera. La bocciatura da parte della Comunità montana è interpretata dalla stampa locale come un diniego “politico”, laddove Valzelli chiede un «coinvolgimento culturale degli studenti della Valle» nel ricordo degli eventi bellici adamellini, un approccio non improntato alla spettacolarizzazione, a suo modo un invito a maggiore sobrietà.
Questa di Valzelli è una delle uniche considerazioni espresse dai soggetti coinvolti a vario titolo nel progetto che, seppur in modo indiretto e forma blanda, pare esprimere disagio di fronte alle ragioni di fondo, al quadro interpretativo degli eventi della Grande guerra che il progetto del tricolore in Adamello incorpora: un “bandierone” tricolore lungo un chilometro che sale sulla parete rocciosa dell’Adamello parla infatti innegabilmente la lingua morta del nazionalismo, anche se spacciato in modo goffo per un messaggio di pace e fratellanza (!); un nazionalismo fuori tempo massimo, la cui funzione oggi è primariamente diversiva.
Si defila poi a stretto giro il CAI Lombardia, unitamente «alle Sezioni e Sottosezioni Camune e Bresciane», con un comunicato datato 8 settembre in cui viene evidenziato come «la stesura di un Tricolore lungo un chilometro e largo 9 metri non sia compatibile con i principi del Sodalizio in materia di tutela ambientale», presa di posizione che si può trovare anche sul sito de Lo scarpone.
E gli ex-alpini dell’ANA?
Secondo quanto riportato in un articolo del Giornale di Brescia, durante il Pellegrinaggio in Adamello del luglio scorso, il presidente dell’Ana di Valle Camonica Mario Sala avrebbe detto nel suo discorso dal palco della cerimonia che «il Pellegrinaggio appartiene agli alpini e nessuno può pensare di appropriarsi di un appuntamento da sempre voluto dalle penne nere». Non sembra casuale questo riferimento se teniamo conto che il “bandierone”, nelle prime intenzioni del Comitato promotore, doveva essere inaugurato in occasione del pellegrinaggio adamellino del 2018.
A fine agosto è il segretario dell’Ana Maurizio Plasso, a nome dell’associazione, a comunicare in forma ufficiale allo stesso Sala e a Roberto Bontempi «di non poter aderire all’iniziativa», definendo in forma ufficiale e definitiva la posizione dell’associazione d’arma. Poche parole – sia da Mario Sala che da Maurizio Plasso –, messaggio chiaro.
A seguito di tutte queste prese di posizione, in particolar modo del parere negativo vincolante del Parco dell’Adamello, Roberto Bontempi di Impronta Camuna palesa le sue intenzioni: «Il parere del parco segna indelebilmente un precedente che non ferma la nostra determinazione. Riunirò al più presto il Comitato promotore per le valutazioni e poi il direttivo di Impronta Camuna. Non retrocediamo a un’iniziativa che vuole valorizzare la Valle Camonica, portando le sue peculiarità industriali, turistiche e commerciali all’attenzione nazionale».
La dichiarazione, tra l’altro, rende esplicito quanto riferito poco sopra a proposito del nesso celebrazioni-marketing territoriale.
Il Comitato promotore si riunisce in effetti il 16 settembre 2017, annunciato da Roberto Bontempi – in risposta alla presa di posizione di Parco dell’Adamello e Comunità montana – con queste parole: «Qualcuno ha preso una cantonata: se non lo faremo lì, lo faremo a Campo Marte o al Teatro Grande, ma la cosa è dei camuni e sarebbe assurdo». Al termine dell’incontro, ancora Bontempi, dichiara che il progetto «potrebbe anche essere modificato, ma noi vogliamo andare avanti», aggiungendo che «la bandiera incarna i valori della pace e dell’unità nazionale».
Quello che, al momento, è l’ultimo capitolo della vicenda si trova sintetizzato in un articolo di Luciano Ranzanici pubblicato sul Brescia Oggi il 26 novembre scorso che, già dal titolo, chiarisce la piega che sta prendendo la vicenda: Un tricolore in versione «mini» per mettere fine alle polemiche.
Sì, perché date le difficoltà emerse nel trovare sostegno al progetto, piuttosto che desistere si ridimensiona, si modifica la parte coreografica, si persevera con un’idea che mira al sensazionalismo e sottende un uso privatistico e consumistico dell’ambiente, senza allo stesso tempo metterne in discussione il messaggio di fondo: niente bandierone dunque, ma un tricolore dalle dimensioni relativamente ridotte, 50 metri. Non si rinuncia invece alla presenza delle Frecce tricolori, tanto che la data precisa dell’evento dipenderà dalle disponibilità di quest’ultime.
Se, come detto, la retorica di fondo che accompagna l’evento non si discosta da quel miscuglio che fin dalla proposta iniziale del progetto aveva la pretesa di miscelare un generico messaggio di pace con un’ode di esaltazione acritica e decontestualizzata della Nazione – stando a una metafora rubata alla chimica, due elementi che non sono tra loro solubili –, vanno segnalate alcune rilevanti novità.
Innanzitutto, l’Adamello – suo malgrado – non verrà più nominato “Altare degli Alpini”, ma “Vetta Sacra alla Patria”. La data della celebrazione anticiperà quella del Pellegrinaggio dell’Ana in Adamello, ma anticiperà anche di qualche mese la data del 4 novembre, anniversario ufficiale della fine della guerra, con la speranza che sia presentato come l’inaugurazione dell’anno di celebrazioni ufficiali che culminerà il 4 novembre 2018. Ad assumere de facto il ruolo di promotori dell’iniziativa le Forze armate italiane, con l’impegno fin dal principio della vicenda dell’ex ammiraglio Luigi Mantelli Binelli e ora nientepopodimeno che del Capo di Stato Maggiore della Difesa Claudio Graziano (designato il 7 novembre 2017 come presidente del Comitato militare dell’UE). La speranza dei promotori, infine, è che si concretizzi l’ipotesi della presenza alla cerimonia del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, che tra le proprie funzioni presiede il Consiglio supremo di difesa e detiene il comando delle forze armate italiane (art.87 della Costituzione).
Dal ghiacciaio si apriranno le celebrazioni per commemorare la fine della prima Guerra mondiale e onorare così tutti coloro che hanno combattuto e dato la vita sui campi di battaglia. Li vogliamo ricordare perché il loro sacrificio è servito a costruire la nostra società, che si basa sul rispetto della persona e sull’affermazione dei diritti fondamentale di libertà e uguaglianza. Li vogliamo ricordare perché il loro sacrificio è servito a costruire la nostra società, che si basa sul rispetto della persona e sull’affermazione dei diritti fondamentale di libertà e uguaglianza. L’invocazione che ci giunge dai caduti sull’Adamello obbliga tutti noi a impegnarci per prevenire il nascere di nuovi conflitti e far sì che i popoli possano vivere in pace e prosperità. Sarà anche l’occasione per dimostrare che siamo vicini e solidali alle Forze armate italiane, impegnate in missioni internazionali per garantire sicurezza e pace in tutto il mondo.
Questa dichiarazione di Bontempi, rintracciata sul Brescia Oggi, è una sintesi esaustiva di quanto riportato finora in questo post, del mimetismo con cui si vorrebbe far credere miscelabili in un unico discorso messaggi inconciliabili, di come si conduca all’interno di un’unica cornice di senso la commemorazione di una guerra figlia dell’ideologia revanscista e nazionalista e un messaggio di fratellanza tra i “popoli”, di un conflitto in cui perirono milioni di vittime – militari e civili – ma che si vorrebbe nobilitare ex post in un generico messaggio di pace e prosperità.
Gli ex alpini dell’Ana si pongono storicamente in questo solco retorico, le poche dichiarazioni che hanno accompagnato la decisione di «non potere sostenere» l’iniziativa del bandierone in Adamello rendono chiaro ciò che è risultato inammissibile per gli ex-alpini – indirettamente confermato dalle decisioni che hanno portato dalle ultime variazioni alla celebrazione in questione: la perdita dell’esclusiva sulla memoria della Guerra bianca in Adamello. Il messaggio implicito è che il cappello con la penna nera è sempre stato, e deve continuare a essere, l’unico calato sull’Adamello.
La retorica degli eroi, le «idee senza parole» del nazionalismo (per citare ancora «il più odiato dai fascisti», Furio Jesi), la morte violenta di migliaia di uomini raffigurata come “necessaria” e resa “bella” perché data lassù sulle montagne, dove il «premio presso il vostro Padre che è nei cieli» è propinquo, sono già di per sé ributtanti. Oggi come al tempo della guera granda, a parlare è sempre qualcun altro, si dà voce a chi viene considerato alla stregua di un pupazzo, come nel numero di un ventriloquo. Che il pupazzo-soldato sia in vita – «A Edolo ai comandi son tutti quanti eroi, van raccontando agli altri quel che abbiam fatto noi»9 – o che sia morto, «la patria si gloria»10.
Non si tratta qui però di un discorso esclusivamente antimilitarista, c’è dell’altro e di più. Nel caso del “bandierone” in Adamello troviamo innanzitutto in funzione il dispositivo discorsivo di base della Grande Sbornia Nazionalista, che vuole queste celebrazioni come neutre, come discorso “obiettivo”, tanto che l’opposizione al progetto si è nella larghissima parte concretizzata esclusivamente attorno alla questione dell’incompatibilità ambientale. Ma questa “obbiettività” è altro che la nominale “non alterazione da pregiudizî”, vuol dire che la scelta è stata compiuta prima, dietro le quinte, ed è una scelta che vede a tal punto tutti concordi che non c’è bisogno di parlarne.
C’è poi l’uso delle montagne, che va ribadito non appartengono a Dio, alla Nazione e tantomeno agli Alpini: all’armamentario che lavora il passato come fosse una «pappa omogeneizzata che si può modellare», che fa della montagna una scenografia muta che mai si prende il proscenio, noi che siamo usi evocare fantasmi, rispondiamo rilanciando la campagna #montagnecontrolaguerra, riaffermando quanto scrivemmo nel 2015:
noi vogliamo ricordare gli ignari mandati al macello, i disertori e i fucilati per insubordinazione, il dolore, la disperazione e la fame di chi patì la guerra nelle trincee, ma anche lontano da queste, nelle case dalle dispense svuotate dall’economia di guerra. Indifferentemente dalla parte del confine in cui albergarono queste sofferenze.
Evochiamo fantasmi, perché la loro chiamata in scena permette di rompere la linearità delle narrazioni e l’uniformità della rappresentazione del paesaggio. Così facendo – proprio come succede con i resti mortali dei soldati che negli ultimi anni, a seguito dello scioglimento dei ghiacciai a causa del riscaldamento globale, riemergono dal ghiaccio – l’immagine ritrova materialità e profondità, gli “eroi” tornano a essere corpi con una loro storia di vita: amici, compagni o mariti, padri, figli. E l’elegia degli eroi si sfalda, o almeno si incrina.
Da parte nostra – che alle montagne guardiamo come parte del mondo che ci circonda e come spazio privilegiato per forgiare “nuove armi” con cui affrontare il vivere quotidiano –, continueremo a sabotare le condotte attraverso cui da più di un secolo vengono sversati sulle montagne i liquami tossici del nazionalismo.
Segnaliamo nei commenti un aggiornamento (10 gennaio 2018).
Aggiornamento del 10 luglio: Le dimensioni non contano… il nazionalismo tossico in Adamello rimane
[1] Mark Thompson, La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, il Saggiatore, 2014, pag. 218.
[2] Enrico Camanni, Storia delle Alpi, Biblioteca dell’immagine, 2017, pag. 274-275.
[3] Mark Thompson, Op. Cit., pag. 17.
[4] La versione integrale della “Preghiera dell’alpino” si può leggere qui.
[5] Per farsi un’idea del lato “profano” segnalo il reportage sulla 86° adunata nazionale degli alpini a Piacenza pubblicato su Vice, dal titolo Il rave delle osterie ama il Papa.
[6] Descrizione sintetica e fedele alla diffusa rappresentazione dell’evento nella pubblicistica degli ex-alpini tratta dal periodico della sezione ANA di Bergamo – Lo scarpone orobico (p. 12).
[7] Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, 2014.
[8] http://bit.ly/29bGWME.
[9] Dal testo della canzone In cima al Tonale.
[10] La ballata dell’eroe, Fabrizio De Andrè (1966).
Un tricolore sull'Adamello, lungo un chilometro, per celebrare un'immane strage
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[…] storia ce la racconta Mr. Mill, in un bellissimo reportage che potete leggere su Alpinismo Molotov. Se volete lasciare commenti, fatelo di là, […]
Mr Mill
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Aggiornamento del 10 gennaio 2018
Per puro caso ieri, nella giornata di pubblicazione del post, a Edolo si è tenuta una conferenza stampa del Comitato promotore del progetto “Vetta Sacra alla Patria – Il Tricolore sull’Adamello”. Stando ai quotidiani locali, dopo le polemiche, è stata «trovata la quadra». Tutti i soggetti hanno fatto un passo indietro, il “bandierone” è stato ridimensionato da un chilometro a 50 metri (non più calato sulla parete Nord, ma posto a corona attorno alla vetta dell’Adamello). Il Parco dell’Adamello ha dunque concesso il benestare, chi si era opposto per ragioni ambientaliste si ritiene soddisfatto, l’ANA ha evitato la sovrapposizione dell’evento con il proprio pellegrinaggio in Adamello così come che il brand “alpini” fosse il title sponsor dell’iniziativa.
In sintesi, cambia la composizione scenografica, non cambiano la sceneggiatura né la regia.
Si dice commemorare tutti i caduti, si fa l’apologia della “Patria”: con l’iniziale maiuscola, la “terra dei padri”, costruita col “sangue” e il sacrificio dei figli “della grande proletaria”, la patria dei “sacri confini” e del tricolore. La montagna, l’Adamello, rimarrà scenografia muta. Il ricordo di chi perse la vita nell’assurda e immane strage che fu la Grande guerra usato per glorificare l’idea stessa che lì condannò alla morte.
Redazione_am
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È disponibile online l’intervista a Mr Mill sulla vicenda “Adamello – Altare alla Patria” realizzata dalla redazione di Valle Camonica di Radio Onda d’Urto, la potete ascoltare a questo link.