di Filo Sottile
È sabato, termometro a quota 38 gradi, aria pesa e umida. Decidiamo di fare fagotto e di andare alla festa organizzata dall’Anonima Coristi a Bovile di Perrero (TO), val Germanasca. Chiudiamo le cose in sospeso a casa. Appendiamo una trentina di trecce d’aglio a seccare e partiamo.
Arriviamo a Bovile e tutto sembra immobile. E la festa? C’è una locandina appesa a una bacheca, ma null’altro. Mi inoltro a piedi nella parte bassa della borgata e incontro un uomo e una donna che hanno oltrepassato la settantina. Lui riempie dei cesti di verdure, lei se li carica e li porta via. Deglutisco, sorrido e chiedo: «Scusi, ma non ci dovrebbe essere una festa oggi da queste parti?»
Il tipo mi squadra per bene e con un accento piemontese cristallino mi risponde: «Sei anche te della banda?»
A me viene da ridere, ma non c’è sfottò, è solo sorpresa per quella sua cortesia così rustica. «In un certo senso…», rispondo.
«Vai su al bar…» dice lui, «gli altri son già lì» si sovrappone la donna. Ringrazio e ripartiamo. Ancora due minuti di auto e ci siamo. Sono le sei e venti di sera. Appena scendiamo dall’auto ci accoglie il canto. La sensazione di leggerezza e calore che mi hanno lasciato i due nonni della borgata di sotto si prende un maggiore spazio in petto.
Ed ecco la prima faccia conosciuta. Ci viene incontro Walter: «Siete arrivati proprio sul Galeone, un bella accoglienza, no?»
Montiamo la tenda. E il canto non cessa, più tardi Lorenzo dei Passamontagne mi dirà che è dal venerdì sera che va avanti ininterrotto.
Sara e io indossiamo maglie di Alpinismo Molotov, ma non sarebbe necessario. Un sacco di gente che è stata alla nostra festa è qui e ci riconosce lo stesso.
E poi c’è il giro No Tav e quelli di Alpi libere e divers* compagn* della provincia e della città. E si sta davvero bene.
Quasi tutto perfetto. Non fosse che mi si appollaia sulla spalla un diavoletto sparamerda, che prova a guastarmi la presa bene con le sue domande serie e inopportune. La rogna da dirimere oggi secondo lui è: ma si può fare una festa in montagna?
La festa di Alpinismo Molotov ha fatto campo base ad Avigliana, sul limitare dei boschi, è vero, ma a centocinquanta metri da una zona industriale, a cinquecento dalla ferrovia, a un chilometro e mezzo dall’autostrada. Non proprio l’arcadia. I selvatici di zona la sanno lunga sulle attività, i mezzi e le infrastrutture umane. E comunque la conformazione del Vis Rabbia ha contenuto i decibel. Sabato 3 giugno, mentre suonavano gli Hooligans’ Mountain, non esattamente un concerto di fruscii e campanellini, ho accompagnato Sara e Miriam all’auto, a un centinaio di metri dall’arena non si sentiva già più nulla.
Qui invece siamo in quota. In una borgata. Due giorni di ciadel, mi chiedo, sono ecologici?
Ovviamente no. Ci sono decine di auto parcheggiate, incluso un pulmino che viene dalla Slovenia..
Eppure mi pare che sia un casino sostenibile. Mentre suona la Banda Periferica Terraneo che è elettrificata e ha la batteria io sono in tenda con Miriam che è crollata, il suono che ci giunge più forte è quello degli applausi e di un cerchio di persone che canta.
Il clima poi è disteso e vibrante. Un cartello con un occhio gigante avvisa le auto in arrivo: “andate piano, bambini al pascolo”. Ci sono due gagni che fanno su e giù sui tornanti con le bici senza pedali. Uno dei due a un certo punto si sfila il casco e Enzo, un amico che ha vissuto per qualche anno nella mia stessa periferia, gli spiega che alla velocità a cui scende è meglio che se lo metta, ma il bimbo è francese e per un po’ finge di non capire, poi si arrende, allaccia il casco inforca la bici e scende a una velocità appena inferiore a quella della luce. Enzo commenta: «alcuni metri quadri di pelle di ginocchia li hanno già lasciati sull’asfalto, pazienza, si cresce così».
C’è un sacco di gente che canta, i cori si formano, si sfaldano, si mescolano in continuazione. A un certo punto un canto in una lingua che non riconosco mi riporta coi ricordi a quando col compianto Febo Guizzi concordai il mio esame di etnomusicologia sul falso bordone e i canti polifonici di tradizione orale. Mi viene quasi da mettermi lì e attaccare con uno dei miei preferiti:
«E puru li turchi hannu piatati
e vui cristianeddhra nun n’aviti
rapiti chi muriri mi faciti»
«Muriti chi nun haju piatati»
E poi capisco che potrei farlo davvero. Qui la gente se li sta scambiando i canti. C’è chi li registra, chi si segna le parole, chi li conosce già e si aggrega. Si canta di tutto, da Fischia il vento a Il feroce monarchico Bava, da L’estaca a Hécatombe au marché de brive la gaillarde e poi altri che non ho mai sentito, in italiano, dialetti di tutta la penisola, francese, provenzale, sloveno e ancora e ancora.
L’erba nei prati è tagliata di fresco, la struttura che ci ospita è quella che il nonno ha chiamato bar. Un incrocio fra un rifugio e una bocciofila. Ci sono più di un centinaio di persone dagli zero ai novant’anni che ronzano intorno e tutte sembrano a casa propria. Tutte intente ai propri affari, tutte pronte a procurarsi ciò di cui hanno bisogno, tutte pronte a dare una mano.
Una volta ho sentito dire a Francesco Codello, uno di quelli che più ha scritto in italiano di pedagogia libertaria, che l’autonomia è più importante della libertà, perché se non sai gestirti da te, e quindi non sai collaborare con gli altri, non te ne fai un cazzo della libertà. Ed è così. Questa è una di quelle situazioni in cui percepisci che le persone stanno facendo davvero del loro meglio per essere autonome, collaborative e libere. Grasso che cola.
Si cena in lunghe tavolate, si chiacchiera, si ride, si beve e ancora si canta. Sara il giorno dopo, mentre torniamo verso casa, mi dirà: «Quando vi ho raggiunti in tenda erano le due passate e la gente ancora cantava, alcuni sembravano in trance». Poi ai tavoli insieme ai caffè passa la cassetta delle offerte ed è il momento di apparecchiare per i concerti.
Si parte con la proiezione de La lunga resistenza un documentario di Luciano D’Onofrio. I Passamontagne, che salgono sul palco immediatamente dopo, per l’occasione hanno arrangiato a tre voci diversi canti della guerra civile spagnola, ma per una defezione dell’ultimo momento si trovano in due. Belli i canti, belle le esecuzioni, belle le presentazioni. Quella su Chicho Sánchez Ferlosio è gustosissima. Le sue canzoni, sebbene siano state scritte in pieno franchismo, spesso sono state ricordate da chi le cantava come canzoni della guerra civile. Chicho non è mai intervenuto a confermare o smentire, né a palesarsi come autore. Questo finché su un disco degli anni settanta qualcuno si attribuì la paternità di alcuni suoi pezzi. A quel punto Chicho tirò fuori le prove che li aveva scritti lui e disse che fino a quel momento non lo aveva rivelato perché il fatto che passassero di bocca in bocca significava che appartenevano alla gente.
Sara si esalta quando Lorenzo introducendo un canto sulla perdita delle terre comuni fa notare che il privata che accompagna la proprietà è il participio aggettivato di privare.
Le presentazioni delle canzoni, mi viene da pensare, sono come il recìt di un’escursione. Cantare e camminare sono gesti, espressioni corporee: si possono fare in gruppo o in solitaria, con uno scopo deliberato o semplicemente per godere del fluire del tempo. Ma sono gesti, sono necessari i corpi prima di tutto e tutto il resto potrebbe essere superfluo. Le parole però che raccontano le circostanze di quei gesti, gli attraversamenti, le stratificazioni, le connessioni che questi implicano, per me sono quasi altrettanto necessarie dei corpi. Sono fonte di ispirazione per ritrovare nuovi percorsi, nuove melodie.
Sono le sette del mattino e Miriam, come sanno fare le bimbe in gamba all’alba della domenica mattina, mi scuote perché esca dalla tenda con lei. Mentre ci dirigiamo verso il bagno l’odore di brace mi invade le nari. Inevitabilmente ne seguo le tracce fino al bar. C’è un gruppo di uomini e donne in là con gli anni che sta preparando la grigliata. Il nonno che il giorno prima mi ha dato l’indicazione, mi dà una pacca sulla spalla e mi chiede: «Sei arrivato bene?» Di nuovo mi scappa da ridere.
Adesso non mi addentro nei particolari perché non li so bene – ma presto verranno fuori, con l’Anonima Coristi ci siamo promessi un’intervista a tutto campo per Alpinismo Molotov – ma quando torno alla tenda con Sara e Walter discuto proprio di questo: ammiro la capacità di chi ha organizzato la festa di inserirsi con garbo nel contesto, di coinvolgere le persone che (come diversi dell’Anonima) vivono qui in zona, di utilizzare quello che c’è già e poco (pochissimo, quasi nulla) di più.
Sara ha delle cose improcrastinabili da fare in pianura e quindi smontiamo la tenda. Se non fosse che ho trentanove anni suonati mi metterei a piantare una grana per rimanere ancora un po’. Matteo, un amico che resterà fino al lunedì per aiutare a smontare, mi racconta che è sceso letteralmente con le lacrime. Tuttavia dobbiamo scendere, non si può far diversamente. Il clima rilassato però pervade ogni operazione. La gente intorno pian piano si sveglia, complice anche l’aroma di caffè che si spande dalla nostra caffettiera. Smonto un pezzo, chiacchieriamo, Sara ritira una roba, chiacchieriamo, Walter mi aiuta a piegare il telo impermeabile, chiacchieriamo. Da una tenda vicina esce una ragazza di Milano, nota la maglia e chiede cosa sia Alpinismo Molotov e parliamo della nostra festa, di questa festa, della possibile costituzione di una sezione APE torinese. Lei dice che per lei la montagna è un piacere solitario, noi le rispondiamo che siamo d’accordo, ma che la solitaria non esclude la collettiva.
Alla fine dopo aver salutato dieci volte le amiche e gli amici ci decidiamo a scendere. In macchina ironizziamo sull’imprescindibilità dell’offerta culturale e sociale del comune in cui viviamo, un megaselfie in piazza con drone e trentadue telecamere e a seguire concerto di Ivana Spagna. Cristo santo. Ci accaloriamo a confrontare le ore che abbiamo appena vissuto (di scambio, amicizia, sorellanza, fratellanza) con la mostruosità di pigiarsi l’uno sull’altro per farsi fare una ripresa da mettere sul sito del comune. E poi diciamo: non è che si debba venire tutti alla festa dell’Anonima Coristi o di Alpinismo Molotov, piuttosto devono sorgere a migliaia le corali ribelli e i collettivi di escursionisti dissidenti (o di quello che vi pare, vale anche bonsaisti partigiani) che si impegnino a tessere relazioni significative, criticare il modello economico sociale neoliberista, disseppellire asce di guerra, liberare spazi e tempi.
E comunque sì, si può fare una festa in montagna.