Poco più di un mese, poi sarà tempo di festa per Alpinismo Molotov. Abbiamo superato già importanti dislivelli – in preparazione del #DiversoRilievo in festa – per arrivare dove siamo. Fatica ben spesa. Ancora però ne avremo da chiedere a gambe e fiato, anche perché come avrete capito leggendo il recente dispaccio dal “ventre” di Diverso il suo rilievo, il nostro passo non poteva che avere modi e ritmi del “passo oratorio”.
Molto meno tempo manca alla chiusura della campagna di crowdfunding per sostenere le spese organizzative della festa. Il gruppo di chi si è unito sostenendoci si è costantemente ingrossato, ora manca solo l’ultimo strappo verso la vetta, il più faticoso. Più saremo a percorrere quest’ultimo tratto di sentiero, minore sarà la fatica, tra una spinta e una mano tesa per superare i passaggi più faticosi. Poi brinderemo, fiaschette bocce o bottiglioni molotov che saranno.
E, fuor di metafora, condivideremo finalmente parole e passi.
Con questo post presentiamo ufficialmente qui sul blog, finalmente, la locandina di Diverso il suo rilievo. Sui social network circola già da un po’, oggi la pubblichiamo qui felici di farlo alla vigilia del 25 aprile, Festa della Liberazione, a ricordo delle e dei ribelli della montagna nel giorno in cui ridiscesero nei paesi e nelle città, 72 anni fa, liberando l’Italia dal nazifascismo.
E non finisce qui, torniamo ai “passi”.
Durante la 3 giorni di festa ci sarà la possibilità di partire (e tornare) insieme per delle escursioni. Nessuno accompagnerà nessuno, cammineremo insieme al ritmo del più lento, raccontando storie e raccontandoci. Ogni partecipante che vorrà unirsi lo farà sotto la propria responsabilità, ma con la certezza di poter fare affidamento sulla responsabilità collettiva di chi è complice e solidale.
Alpinismo Molotov proporrà dei percorsi, lo faremo cercandone di proporne di adatti a tutte le gambe, ma soprattutto di (meglio) adatti al passo oratorio: perché i passi possano poi muovere parole, cercheremo lungo gli itinerari storie da raccontarci, parole che muovano i passi.
Per rendere più chiaro quel che intendiamo, a mo’ d’esempio, proponiamo a seguire il racconto di un itinerario scritto da Roberto Gastaldo, dal titolo Lungo la ferrovia della battaglia. Un percorso che da Exilles porta a Susa, seguendo le tracce partigiane di un’azione di sabotaggio che si intreccia alla storia della famiglia resistente Gobetti-Marchesini. Sì, la famiglia della stessa Ada Gobetti che compare nella nostra locandina poco sopra, fucile mitragliatore al braccio. Tout se tient.
Lungo la ferrovia della battaglia
Nell’autunno del 1943 le prime bande partigiane costituitesi in Valsusa si diedero come obiettivo principale quello di sabotare la linea ferroviaria che attraversava le Alpi. Allora come oggi tra Italia e Francia esistevano solo due valichi ferroviari, uno in Valsusa e l’altro a Ventimiglia, e renderne inservibile uno avrebbe causato un danno gravissimo all’esercito tedesco: il problema era che i tedeschi lo sapevano, e a protezione della ferrovia avevano ammassato in valle migliaia di uomini. Lo scontro si protrasse per quasi tre mesi, e nelle memorie di uno dei protagonisti, Sergio Bellone, viene ricordato come “la battaglia della ferrovia”. Questa proposta d’escursione collega due punti simbolo di quella battaglia, il ponte dell’Aquila ed il ponte dell’Arnodera, e si muove in zone che i partigiani in quell’autunno batterono a lungo alla ricerca del luogo ideale per la loro azione.
Il punto di partenza ideale di questa gita sarebbe la stazione ferroviaria di Exilles, che al momento però risulta non servita dalle ferrovie dello stato. Nessun treno vi ferma più, siamo quindi costretti a raggiungere Exilles (m. 880 slm) via bus (una sola corsa al giorno, partenza da Torino ore 8.25 arrivo previsto ad Exilles 10.10) e a scendere all’incrocio con la statale 24, che si trova a circa 2 km dalla stazione. Per raggiungerla occorre attraversare il paese e all’uscita svoltare a sinistra in discesa su una strada asfaltata che scende ad attraversare la Dora Riparia per poi risalire fino alla stazione, attraversando i resti delle alluvioni del 2000 e 2004 (45′). Questa prima parte di camminata può però tornare utile per introdurre al periodo sulle cui tracce ci muoviamo.
I primi sabotaggi furono improvvisazioni molto artigianali, si tentava di togliere il rifornimento elettrico alla linea abbattendo i piloni, inizialmente addirittura con il seghetto da ferro, in seguito con esplosivi artigianali. Questi sabotaggi però erano poco efficaci perché causavano un’interruzione di servizio di poche ore, inoltre spesso si toglieva l’elettricità anche ai paesi, inimicandosi la popolazione. Il 18 novembre però si ebbe una svolta, un gruppo di partigiani guidato da Carlo Carli e Walter Fontan riuscì a trafugare da un deposito a Villarfocchiardo oltre tre tonnellate di plastico.
[…] Il maggiore Liberti era venuto a sapere da un suo informatore che al Biancone – piccola frazione nei pressi di Villarfocchiardo – dentro la galleria di una vecchia cava in disuso, il dinamitificio di Avigliana aveva depositato un grosso quantitativo di “plastico” (alcune tonnellate). La polveriera era sorvegliata da un gruppo di carabinieri, collegati telefonicamente col presidio tedesco di Borgone, forte di cento uomini, dotati di mezzi blindati e di armamento pesante; quotidianamente i tedeschi facevano un’ispezione alla polveriera, distante da Borgone circa due chilometri.
Il comandante Liberti studiò un piano dettagliato per impossessarsi di quell’esplosivo, oltremodo necessario per concludere con successo la “battaglia della ferrovia”. Verso le 23 del 18 novembre 1943 un autocarro da tre tonnellate, requisito per l’occasione dai partigiani, raggiunse la strada del Biancone, silenziosamente, a fari spenti. Sul posto si concentrarono circa 50 uomini armati di tutto punto, guidati dai comandanti Carli e Fontan, ed una decina di appartenenti alla “squadra paesana” di S.Antonino, con alla testa il tenente Gambino.
Il maggiore Liberti fece irruzione nell’accantonamento dei carabinieri che, colti di sorpresa, non opposero resistenza. Li disarmò e tagliò i fili del telefono. In poco più di un’ora, e senza intoppo alcuno, furono prelevate dalla polveriera e caricate sull’autocarro oltre tre tonnellate di esplosivo. Al termine dell’operazione ai carabinieri furono restituite le pistole e venne loro rilasciata una dichiarazione che li scagionava da ogni responsabilità di fronte ai tedeschi.[1]
Sergio Bellone, autore del brano precedente, fu uno dei principali protagonisti di quei mesi. Nato nel 1915, figlio di Virgilio Bellone, pioniere del socialismo in Valsusa, come ricordato anche da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve, ingegnere, era un antifascista della prima ora: nel 1933, appena diciottenne, partecipò ai primi sforzi di propaganda antifascista a Torino e proseguì in quest’attività fino al 1940, quando venne arrestato ed incarcerato prima a Civitavecchia e poi a Castefranco Emilia, da cui venne liberato solo il 23 agosto 1943. Tornato a Torino si rese conto che per una persona segnalata come lui la situazione era pericolosa e decise di trasferirsi da dei parenti in Valsusa, a San Giorio. Da lì si aggregò già alle prime bande partigiane che si andavano formando, rimanendo con queste fino alla fine del ’43, poi il comando partigiano decise che le sue capacità tecniche erano più utili nel cuneese, dove c’erano ampi territori già sottratti al controllo tedesco. Rimase in quelle zone fino all’estate, poi operò in varie zone del Piemonte fino al dicembre del ’44 quando fu assegnato al comitato antisabotaggio, che doveva occuparsi di preparare i piani per proteggere le strutture strategiche dai prevedibili sabotaggi dei tedeschi in fuga. Dal 1948 andò per alcuni anni a lavorare alla ricostruzione in Jugoslavia «per dare il mio modesto contributo alla costruzione del socialismo in quel Paese»[2], dopo il suo ritorno in Italia, deluso tanto dalla situazione interna quanto da quella internazionale, abbandonò la politica attiva «con angoscia conclusi che io non ero proprio tagliato per l’attività politica militante, da quell’epoca mi trassi in disparte e da allora mi dedicai esclusivamente all’attività tecnica per la quale appunto mi considero adatto. Comunque il mio orientamento ideale resta sempre democratico volto a sinistra»[3], limitandosi a sporadiche prese di posizione su alcuni specifici argomenti. Morì nel 2008.
L’altro protagonista di questa serie di sabotaggi fu don Francesco Foglia, detto don Dinamite, personaggio ancor più da romanzo. Nato nel 1912 a Novalesa, divenuto curato nel 1937 a Villarodin, in Francia, da cui venne espulso nell’agosto ’39 perché proveniente dall’Italia fascista; cappellano militare in Jugoslavia, ruolo in cui conseguì una medaglia d’argento al valor militare, dopo l’8 settembre prete partigiano, arrestato nei primi mesi del ’44 e deportato a Dachau, sopravvisse e tornò a fare il parroco a Moncenisio, in una parrocchia a 2000 mslm che dopo la costruzione della diga venne sommersa dal lago. Nel giugno del ’46 i due nipoti, che la sorella aveva lasciato da lui per qualche giorno, muoiono nello scoppio di una bomba davanti a casa sua; non fu mai accertato se si trattasse di un residuato bellico o di un attentato ai suoi danni (in quegli anni in certi ambienti un prete che parlava coi comunisti era considerato più indecente di una bestemmia, e contro di lui era già stata avviata quella che oggi viene definita “macchina del fango”). Distrutto dal senso di colpa chiese e a inizio ’48 ottiene un trasferimento in una missione a Rolandia, nello stato di Paranà, in Brasile, in un territorio popolato prevalentemente da profughi tedeschi poveri, convivendo coi quali riuscì a superare l’odio verso quel popolo che gli era nato nel campo di concentramento. Rimase in Brasile vivendo nelle misere condizioni dei suoi parrocchiani fino alla primavera del ’66, quando, dopo una visita della sorella che lo raggiunse per convincerlo a tornare in Italia, decise di rimpatriare per curarsi dallo stato di debilitazione in cui si era ridotto. In Italia rimase però molto poco, subito ripartì per la Germania, dove visse nel sanatorio di Hausstein e poi ad Hauzenberg, ed ottenne la cittadinanza tedesca. Qui ricevette più volte una convocazione per venire insignito una croce di guerra ma rifiutò perché gli sarebbe parso un controsenso “essendo ormai cittadino tedesco“. Dopo anni di insistenze il ministero decise di recapitargli la decorazione via posta, rinunciando alla consegna solenne; don Foglia rimase in Germania fino alla morte, avvenuta nel 1993.
Alla stazione di Exilles i partigiani tentarono per la prima volta di utilizzare l’esplosivo prelevato a Villarfochiardo, ma la missione fallì. Della squadra che tentò di attuare il sabotaggio faceva parte anche Paolo Gobetti, figlio di Piero ed Ada, che nel suo Diario partigiano riporta il racconto che il figlio diciottenne, una volta rientrato a casa, le fa della sua prima azione con i partigiani:
Dapprincipio tutto era andato benissimo. La sera del mercoledì eran giunti alla Losa, dove avevano pernottato, ma il mattino seguente la neve imprevista aveva complicato le cose. La marcia era divenuta assai più faticosa e, giunti al Frais, alcuni degli uomini ( i “poco di buono” di don Foglia, ch’erano poi i “tipi poco rassicuranti” di Gianni) s’eran rifiutati di continuare, decidendo di tornare il giorno dopo a Bussoleno. La discussione con gli uomini, l’accresciuta difficoltà del cammino avevano fatto si che giungessero al luogo dell’appuntamento in ritardo: don Foglia non c’era più, ma lo trovarono scendendo ad una grangia più in basso , insieme a Carli, Volante, Ratti, Guido Garosci e alcuni altri; e lì erano rimasti in attesa del camion che naturalmente non era giunto. Il giorno seguente don Foglia era sceso a Villar Dora per avere istruzioni, ed era tornato per il mattino del sabato, col piano che ci aveva esposto[4]. Per tutto il venerdì e il sabato gli altri eran rimasti in una grangia più in alto: e la neve era tanta che per salirci avevan dovuto spalarsi la strada.
La sera del sabato, appena scesa la notte, si eran portati sulla ferrovia. Era giunto il treno con gli uomini e l’esplosivo; ma quando si contarono, se ne trovò uno di meno – e per di più era l’elemento meno sicuro. Dov’era andato a finire? Bisognava fare in fretta, prima che capitasse una sorpresa.
Sotto la pioggia dirotta, il lavoro cominciò febbrilmente, diretto da Sergio. Paolo, messo a guardia d’un capo del ponte, ebbe il suo daffare prima con due ferrovieri che però si dichiararono subito solidali, anzi s’offrirono persin di aiutare (uno era Carletto Bertrand che fu poi nostro prezioso compagno), poi con un curioso ometto terrorizzato, che con fatica riuscì a trattenere perché non corresse a dare l’allarme a tutto il paese. – Ho otto figli – strillava dimenandosi – Stà zitto, e nessuno farà male né a te né a loro, – rispondeva Paolo ridendo e mettendogli il fucile sotto il naso. Quello taceva per un momento, ma appena la canna del fucile s’abbassava, ricominciava a strillare e a cercar di fuggire. Finchè non giunse il segnale che il lavoro era finito e l’ometto, lasciato in libertà, fuggì con velocità impressionante, facendo svolazzare comicamente il lungo mantello che lo rendeva simile ad un goffo uccellaccio.
Ma, al momento di accendere la miccia, i tecnici avevano avuto uno scrupolo. Buttarsi subito su per la montagna – come s’era prima pensato – era impossibile, chè la neve impediva ogni rapido spostamento; bisognava far di corsa la galleria verso Gravere, lunga oltre due chilometri. Non si poteva correre il rischio che l’esplosione avvenisse mentre gli uomini erano ancora nella galleria; bisognava dar loro il tempo d’attraversarla e quindi ci voleva una miccia più lunga. Un pezzo di miccia fu aggiunto; ma forse era difettosa, o forse la giunzione fu fatta imperfettamente: sta di fatto che non funzionò.
Attraversarono la galleria di corsa: poi rallentarono, si fermarono, in attesa. Passarono quaranta minuti, senza che s’udisse nulla. E sullo spasimo dell’ansia la realtà si venne lentamente imponendo. La miccia non aveva funzionato; il colpo era fallito. Qualcuno s’abbandonò a manifestazioni di collera impotente, qualcun altro voleva tornare indietro, a ritentare. Ma non era possibile: ormai l’ometto aveva dato l’allarme al paese, forse l’uomo mancante era stato trovato. Bisognava rinunciare ed andarsene. Per questa volta era andata così. L’esperienza sarebbe servita per un’altra volta. Eran le cinque del mattino; presto sarebbe stato giorno; bisognava andarsene in fretta. Tristi, sfiniti (da dodici ore eran sotto la pioggia, senza cibo, senza riposo) s’avviarono per tornare. Ma inutilmente tentarono la via della montagna, che la neve rendeva impraticabile. Non c’era altro da fare che seguire la strada provinciale. Incontrarono due carabinieri; li guardarono, li videro armati, proseguirono senza dir nulla.
A Gravere un gruppo si era fermato in una stalla; altri s’eran diretti a Bussoleno. Paolo, da Susa, era salito a Meana per la scorciatoia.
Mentre finiva di raccontare, chinò il capo e s’addormentò improvvisamente. Guardai con senso di dolorosa gratitudine il suo viso così giovane, profondamente segnato da quella notte di fatica, d’ansia, di delusione. L’avevo ritrovato, l’avevo accanto. Ma sino a quando? Con limpida certezza, sentivo che quello era stato soltanto il principio.[5]
Dalla stazione di Exilles la nostra passeggiata procede percorrendo a ritroso il sentiero che probabilmente percorsero i partigiani per raggiungere il ponte dell’Aquila passando dalla montagna. Dalla stazione un sentiero sale in modo piuttosto ripido alla borgata Godissard (m. 1135) (45′), da dove si prosegue seguendo il “sentiero dei Franchi” in direzione est, prima attraversando il vallone del rio Baccon, poi salendo alle Grange Granprà (m.1500 slm) (1h). Dalle Grange il sentiero esegue un lungo traverso verso est, al termine del quale inizia la discesa, che quasi subito attraversa la piccola stazione sciistica del Frais (m. 1490 slm) (1h 30′).
Dopo il fallimento al ponte dell’Aquila i partigiani, in parte anche demoralizzati, pensarono [fosse] meglio indirizzare i loro sforzi verso obiettivi ubicati in luoghi più facilmente accessibili. Da questo nuovo orientamento nacque l’idea del sabotaggio al ponte della Perosa, presso Alpignano.
[…] la notte tra il 14 e il 15 dicembre partimmo da Villardora in quattro (Remo Bugnone, Alessio Maffiodo, don Foglia ed io) portandoci appresso, su di un carico agricolo trainato da un cavallo, due cariche di esplosivo da centocinquanta chilogrammi ciascuna, e ci dirigemmo verso il Ponte della Perosa (un manufatto in robusto calcestruzzo armato, con una luce di circa diciotto metri, una larghezza di dodici ed uno spessore in chiave di un metro e cinquanta).
Qui giunti, sistemammo le due cariche già innescate entro il pietrisco verso le estremità del ponte, leggermente sfalsate rispetto all’asse longitudinale, senza alcun intasamento. Il lavoro durò circa tre ore. Lo scoppio delle due potenti mine causò gravissime lesioni trasversali e longitudinali, che obbligarono i genieri tedeschi a demolire completamente il ponte ed a ricostruirlo. Durante i lavori di ripristino, durati oltre tre settimane, per far transitare passeggeri e merci fu organizzato in quel punto un servizio di trasbordo. Il disagio fu comunque limitato perché il ponte non era molto alto e sorgeva in una zona pianeggiante.[6]
Come segnalava Bellone il problema di sabotaggi come quello della Perosa era che durante l’interruzione il trasbordo era relativamente agevole, perché si trattava di superare avvallamenti larghi pochi metri e poco profondi. Si decise quindi di tornare a puntare su ponti più alti e possibilmente anche più lunghi, e la scelta cadde sul ponte dell’Arnodera, poco a monte di Susa. Il ponte, che è in seguito stato ricostruito e che è la destinazione finale di questa escursione, attraversa un vallone largo 80 metri, raggiunge un’altezza di 30 metri e sul lato est si innesta su un versante piuttosto ripido, che rende molto disagevole un trasbordo.
Il problema più grosso era il trasporto dell’esplosivo da Villardora a Susa: dopo aver tentato un paio di volte, fallendo, di trasportarlo diviso in piccoli lotti, si scelse di fare un unico viaggio, affidando il trasporto al partigiano Vittorio Blandino, all’epoca diciannovenne.
L’incarico di trasportare il carico impressionante di esplosivo fu affidato a Vittorio Blandino: la scelta, anche di Vittorio, fu di muoversi da solo. In tempi meno rischiosi lo stesso Vittorio aveva già compiuto due trasporti di esplosivo in Valle andati a buon fine. Ora la situazione era ben più pericolosa e tutti, in coscienza, lo sapevano, nonostante il mitico don Dinamite (don Foglia) invitasse ad avere anche un po’ di fiducia in più nell’aiuto del Signore.
Anche Vittorio, più ancora che non gli altri, si rendeva conto del fatto che, in questo caso, di mezzo poteva esserci anche la rilevante probabilità di lasciarci la pelle. Lo stesso Vittorio Blandino ricorda che si preparò scrupolosamente: in particolare si mosse a controllare di persona i movimenti di truppe e blindati in zona, cercando anche di capirne bene gli spostamenti immediatamente conseguenti. Durante uno di questi sopralluoghi per strada, incontrò il fotografo di Avigliana, tale Farioli, che conosceva bene. Gli chiese se fosse possibile farsi fotografare e avere in fretta la propria fotografia. Fu possibile, e Vittorio andò a trovare la madre, a Drubiaglio, e prima di partire le lasciò la fotografia. Quando se ne andò, la madre e le anziane nonne si guardarono piangendo: capivano che quel figlio, sprezzante del pericolo, aveva in mente di fare qualcosa di molto rischioso. A Villar Dora ben otto quintali di dinamite sciolta furono collocati in una botte ovale, di quelle che erano destinate al trasporto dei liquami. L’esterno della botte venne letteralmente coperto di liquame da pozzo nero, con un odore talmente nauseante da infestare l’aria circostante. La botte e il mulo, uno dei più resistenti della zona, furono messi a disposizione da Giovanni Calliero. Il micidiale carico, con Vittorio in testa, arrivò sino a Caprie senza inconvenienti. Là sopraggiunse una colonna di autoblindati tedeschi impegnata, mentre marciava, a mitragliare qua e là il versante della Sacra di S. Michele. Il bravo mulo spaventalo dalle raffiche, cominciò ad imbizzarrirsi, ma venne energicamente domato da Vittorio. Passata la colonna e le autoblindo, il viaggio riprese, non senza aver valutato l’opportunità di tornare indietro. A Borgone il passaggio obbligato era alle Casermette, sede del presidio tedesco e lì il carro venne bloccato ed accerchiato da otto tedeschi armati. L’odore tremendo del liquame fece, sugli otto, uno strano effetto: li imbestialì a tal punto da dare in escandescenze con pesantissimi ordini a Vittorio di togliersi velocemente di mezzo con tutto il suo carico. Il momento tragico fu quando agli imperativi “raus” si aggiunsero diversi colpi di mitraglietta, sparati per fortuna verso l’alto e non sul carro. Dopo questo secondo brutto incontro, Vittorio decise di continuare con maggiore determinazione (la fortuna sembrava quindi aiutarlo) e decise di approntare e tenere a portata di mano, in un angolino del carro, un candelotto con miccia pronta per l’uso: deciso a far saltare tutto al prossimo incontro con i tedeschi che, cosa probabilissima, non si fosse conclusa felicemente come i precedenti. A Bruzolo il carro si trovò nel bel mezzo di due colonne tedesche in procinto di incrociarsi.
Una serie di incomprensioni tra i capi colonna, tra grida ed imprecazioni durante gli spostamenti dei mezzi pesanti per consentire agli stessi di incrociarsi senza uscire di strada portò ad un’altra pericolosissima situazione: nel trambusto delle manovre in corso fuori strada, giù per la scarpata, sbalzato da uno dei mezzi pesatiti, finì il carro di Vittorio. Nella confusione generale qualche tedesco particolarmente nervoso ebbe, probabilmente, l’impressione, che fosse in corso un attacco partigiano. Partirono alcuni colpi diretti verso la montagna ed immediatamente seguì una fitta sparatoria in ogni direzione: i tedeschi sembravano impazziti e non si rendevano conto che non si trattava di un attacco partigiano ma bensì che a sparare erano solo loro. Per Vittorio fu un momento tragico: diversi colpi raggiunsero la botte piena di dinamite, tranciandone di netto il bocchettone d’apertura e facendo saltare una delle fasce di ferro che cingevano la botte. Sembrava fosse giunta la fine di tutto, poiché se un solo colpo avesse perforato la botte e raggiunto la dinamite, il carro, il mulo, Vittorio ed anche tutti i tedeschi circostanti sarebbero letteralmente saltati in aria. Fu un quarto d’ora di vero e proprio inferno. Il mulo sembrava impazzito, tentava in ogni modo di svincolarsi dal carro, impennandosi e scalciando in ogni direzione. Vittorio, con la forza della disperazione, appioppò al mulo un pugno tremendo in pieno muso, facendolo barcollare e poi cadere: rimase, quasi miracolosamente, fermo e intontito, incapace di rialzarsi o timoroso di ricevere un altro colpo da Vittorio.
L’inferno cessò, i colpi d’arma pesante e delle mitragliette si diradarono e Vittorio, che dopo aver “abbattuto” il mulo, si era riparato dietro ad un monumento posto ancor oggi sul fianco della strada, si avvicinò al mulo accarezzandolo e spronandolo a rialzarsi. Arrivò trafelato un vecchietto in bicicletta e, su richiesta di Vittorio, si prestò a dargli una mano a tirare su il carro ancora per metà bloccato nella scarpata. Mentre sbuffava per lo sforzo, riprese Vittorio con dure parole: «Come si fa a stare qui, in questo inferno. Di pelle ne hai una sola. Non sai che il liquame non va in malora… Vai a casa che è meglio». Vittorio lo ringraziò: non poteva certo confidargli che il problema non era il liquame, bensì gli otto quintali di dinamite. Il viaggio riprese. A Foresto una ventina di tedeschi si affannavano a far cenno a Vittorio, ad una certa distanza, di affrettare la marcia per non interferire con i movimenti in corso di un’altra colonna che transitava in zona. Altro pericolo superato con una sosta, sospirata, di un’ora nei pressi del camposanto di Foresto. Transitata la colonna, il carro ripartì e la meta tanto ambita, Mompantero, fu raggiunta. Lì diversi partigiani attendevano Vittorio e il suo micidiale carico.[7]
Dalla chiesa del Frais il sentiero si dirige verso est, attraversa la strada provinciale, una prima sterrata che scende a Chiomonte, e raggiunge una seconda sterrata (m 1280 slm circa) che scende a Gravere. Si imbocca in discesa questa seconda strada e si raggiunge il capoluogo su strada che diventa asfaltata poco prima dello stesso (2 h). Dal centro del paese (Municipio m 760 slm circa) si prende sempre su strada asfaltata in direzione della frazione Arnodera (700 mslm), poco prima della frazione si lascia la strada per un sentiero sulla destra che la attraversa e quindi scende verso Susa. Dopo poche centinaia di metri si raggiungono le arcate del ponte ferroviario, qui si scende fino alla carrozzabile che collega Susa al Frais e che passa sotto le arcate stesse (m 600 slm circa) (45′).
Il 28 dicembre otto cassette contenenti ognuna da 70 a 150 chilogrammi di [esplosivo] plastico e preparate ognuna con un doppio innesco erano pronte in un rifugio sicuro a Mompantero, a circa 4 km dal ponte. Era il momento del colpo finale:
[…] malgrado i tedeschi del presidio di Susa, appoggiati dai fascisti, stessero operando un rastrellamento della zona, le casse dell’esplosivo furono trasferite nelle immediate vicinanze del ponte, su un carro che doveva attraversare la cittadina di Susa.
Verso le 21 giunsero sul posto una ventina di uomini del “distaccamento paesano” di Mompantero, al comando del tenete Morone. Questi fece piazzare una mitragliatrice all’imbocco della galleria, per proteggere gli uomini al lavoro dal sopraggiungere delle pattuglie addette alla sorveglianza di quel tratto di ferrovia. Intanto Vittorio Blandino occupava il vicino casello, bloccando i casellanti ed interrompendo le comunicazioni telefoniche. Io invece, con la collaborazione di don Foglia e di Morone, dirigevo le operazioni di posa delle mine. Nella fitta oscurità, con una temperatura al di sotto dello zero ed in assoluto silenzio (il ponte distava da Susa solo due chilometri) vennero scavate le buche per collocare le casse con l’esplosivo. Sulla massicciata stradale vennero aperte sette camere, fino a scalfire la muratura del ponte, nei punti prestabiliti delle quattro arcate a monte (l’ultima arcata, quella rivolta a valle verso Meana, venne risparmiata); un’altra camera, più profonda delle altre, fu scavata al piede del pilastro centrale, entro il greto gelato del torrente Arnodera. In ogni camera venne collocata una carica, intasandola con pietrame misto a neve.
Terminate le operazioni di scavo e di posa, gli uomini di Mompantero tornarono alla loro base; sul posto rimanemmo in quattro (don Foglia, Bugnone, Blandino ed io) con il compito di far brillare le mine. Munimmo ogni cassa, già innescata con due detonatori, di spezzoni di miccia a lenta combustione della lunghezza di due metri (tempo di combustione quasi quattro minuti) e, per facilitarne l’accensione al buio, infilammo nell’estremità libera di ognuno di essi una bacchetta di balistite.
All’una del 29 dicembre 1943 le sedici micce furono accese secondo l’ordine prestabilito: per ultime (compito che venne espletato da don Foglia) quelle applicate al piede del pilastro centrale. Tutte le otto cariche esplosero regolarmente, a ritmo serrato: il ponte rimase distrutto per una lunghezza di oltre sessantadue metri; quattro arcate e tre pilastri (quello centrale venne letteralmente disintegrato: ancora oggi sono visibili sotto al ponte, ricostruito in cemento armato nel 1946, grossi frammenti delle originarie fondazioni) furono completamente demoliti. I detriti, in particolare alcuni spezzoni di rotaia, vennero lanciati a notevole distanza, mentre il rumore delle esplosioni si propagò nella valle per molti chilometri.
Sulla linea Torino-Modane il traffico ferroviario rimase interrotto per oltre tre mesi. La ricostruzione del ponte, iniziata dal Genio militare germanico pochi giorni dopo l’esplosione, si protrasse fino all’inizio del mese di aprile del 1944. Il comando tedesco di Torino definì l’impresa una vera a propria “opera d’arte”, uno dei maggiori sabotaggi ferroviari dell’Europa occupata. Anche gli alleati espressero il loro vivo apprezzamento per il risultato dell’operazione.
Subito dopo la distruzione del ponte, all’inizio di gennaio 1944, i tedeschi vietarono di sciare in Valle (forse pensavano che i sabotatori fossero scesi con gli sci dalla montagna sovrastante)[8]
Qui si conclude il tour, per il rientro sono possibili due alternative: si può seguire la carrozzabile Susa-Frais in direzione Susa fino alla statale 24 e su questa raggiungere Susa (stazione a circa 2 km), oppure, percorsi pochi metri sulla stessa strada, svoltare a destra in via Pian Barale e seguirla fino alla stazione di Meana (1 km circa). Poco sopra la stazione, sull’esterno di un tornante, si trova la casa che la famiglia Gobetti-Marchesini utilizzava per le vacanze, e che per tutto il periodo della resistenza fu la base della loro attività in valle.
Bibliografia
Maria Elena Borgis, Storia della resistenza in Valsusa (Edizioni del Graffio)
Chiara Sasso Fabrizio Molinero, Una storia nella storia e altre storie. Francesco Foglia sacerdote (Editrice Morra)
Cartografia
Valli di Susa Chisone e Germanasca Istituto geografico centrale 1:50.000
Note
[1] Sergio Bellone Testimonianze (1933-1945) (Centro studi Virginio Bellone)
[2] e [3] Sito ValsusaFilmFest
[4] Il piano consisteva nel trasportare l’esplosivo via treno, in valigette che ne contenevano ognuna circa 20 kg.
[5] Ada Gobetti, Diario Partigiano (Einaudi)
[6] Sergio Bellone, Testimonianze (1933-1945) (Centro studi Virginio Bellone)
[7] Ore 1, notte del 29 dicembre 1943, salta il ponte dell’Arnodera, Patria indipendente, maggio 2010.
[8] Sergio Bellone Testimonianze (1933-1945) (Centro studi Virginio Bellone)