di Filo Sottile
1. Primo incontro
La prima volta che ho prestato attenzione a un esemplare di ailanto è stato nel 2004. Lavoravo in un capannone della zona industriale di Rivalta di Torino. Un luogo infelice, benché pinzato fra le amene campagne e il torrente Sangone. A gennaio avevo posto fine alla mia carriera di educatore e da febbraio, riciclato nell’artigianato, parcheggiavo la macchina sotto questo albero spoglio, corteccia grigia, liscia, alto poco meno di dieci metri. Al suo fianco c’era un altro albero, poco più basso, apparentemente della stessa specie, ma privo di quelli che mi parevano ciuffi di fiori secchi. Quei due alberi erano spuntati nelle fessure del marciapiede e si erano fatti strada allargando e spaccando. Si trattava evidentemente di abusivi, nonostante questo sembravano molto più in salute degli aceri e dei carpini piantumati.
La puntualità non è mai stata il mio forte. Quando arrivo io, con il mio consueto margine di ritardo, ho sempre la certezza che il posto che trovo libero è quello che nessun altro ha voluto occupare. Franchino, un mio collega puntualissimo, diceva che vicino a quegli alberi lui non ci parcheggiava mai: sotto la furia dei temporali spesso si rompevano i rami, e poi gli dava fastidio il pacciame di foglie marcite che stazionava a terra.
Quello è diventato il mio posto auto e, tolti i mesi da giugno a settembre in cui parcheggiare lì sotto significava mettere la macchina al fresco, nessuno l’ha messo in discussione.
Cinque o sei giorni alla settimana, per quarantotto settimane l’anno, per dieci anni fa un bel po’. Quei due alberi ho avuto modo di osservarli per bene. Nel 2009 mi è poi venuta persino voglia di sapere come si chiamassero. Mio padre mi ha detto: in Sicilia lo chiamano summaccabolico, summaccu.
Si sbagliava, ma non era il solo.
2. L’incubo dell’albero puzzone
Il nome scientifico è ailanthus altissima o ailanthus glandulosa, si chiama ailanto o albero del paradiso. Nei paesi di lingua inglese lo hanno soprannominato stink tree, ghetto palm, tree of hell, a Napoli cazzipocchio, a Genova albero della merda. Sui blog in lingua italiana si leggono al suo riguardo cose di queste genere:
Ieri non ce l’ho più fatta. Sobillato dalla visione di queste maledette piante in giro per il mio amato e disordinato patio con gazebo estemporaneo, ho tirato fuori sega, falcetto e badile. In tre sono caduti, ma molti altri ne rimangono ancora. Sto parlando dell’Ailanto, una cosa indescrivibile, una maledizione, forse la Nemesi dell’umanità. Ho soltanto iniziato, e non mi fermerò finchè vedrò fogliette lanceolate, puzzolenti e asimmetriche spuntare dal mio amato prato rustico.[1]
Ognuno nel suo giardinetto può fare quel che vuole. Ma la crociata contro l’ailanto travalica gli steccati.
Il nostro vicino lascia crescere vari ailanti in una zona poco accessibile in prossimità del confine, insieme a rovi e altre piante spontanee. Così, stamattina, sporgendomi oltre la recinzione, ho fatto fuori tutti quelli che riuscivo a raggiungere. Certo, ributteranno, ma intanto ho inferto loro un bel colpo. E’ stata una grande soddisfazione, spero solo che non sia causa di un incidente diplomatico con i vicini. Ma la lotta contro gli ailanti non ammette debolezze.[2]
I toni, i tic linguistici, le forme verbali sembrano le stesse di chi vuol rispedire a casa gli stranieri, dare fuoco ai campi nomadi, affondare i barconi. Allo stesso modo, gli autori di queste invettive non esitano a dare dell’anima bella o del buonista a chi prova a difendere le vittime dai pogrom.
Nella mailing list di Alpinismo Molotov la cosa non è passata inosservata. A luglio scorso è cominciato uno scambio di mail:
Filo: Due venerdì fa con Wu Ming 1 ci siamo trovati a parlare di ailanti. Wu Ming 1 mi ha detto che voleva scriverne perché ci sono on line forum in cui si inneggia all’estirpazione della malapianta con gli stessi argomenti che si utilizzano per i migranti. Io gli ho detto che volevo scriverne perché mi interessa la maniera in cui sono arrivati dalla Cina: prima come pianta ornamentale e poi come sostituto del gelso nell’industria serica.
Non c’entra una mazza con l’alpinismo e non so nemmeno se è molotov, ma se Wu Ming 1 può tollerare che gli freghi lo spunto e voi ritenete che possa stare sul nostro blog io per settembre ho intenzione di scriverlo.
WM1: Mi va benissimo che venga preso lo spunto, confermo, sono molto affascinato dalla comparsa di boschi (alcuni di notevole estensione) *clandestini* nelle aree dismesse o semplicemente trascurate di Bologna, boschi interamente formati da ailanti. A volte basta non sfalciare il ciglio di un fosso per un paio d’anni e si formano muraglie come quella che documento fotograficamente in allegato [foto a seguire ndr].
Quegli ailanti sono dall’altra parte della via rispetto al portico di S. Luca, sono giovani e sono alti, direi, sei metri e passa. La foto è di tre giorni fa. Di fronte a casa mia c’è una villetta a due piani sfitta da 3-4 anni, e nel cortile c’è ormai un boschetto. Invece, sui blogger che incitano alla guerra contro l’ailanto con toni da crociata anti-immigrati, me ne ha segnalato uno Wu Ming 2, appena lo ritrovo vi mando il link.
In effetti, non c’è bisogno della segnalazione. Basta inserire “invasione+ailanto” su un qualsiasi motore di ricerca e cominciare a leggere.
Se avete degli ailanti, vi consiglio vivamente di eliminarli, sostituendoli con essenze nostrane. L’ailanto non solo cresce a dismisura soffocando le altre piante, ma altera la composizione chimica del terreno per contrastare i concorrenti! Più tardi lo si taglia e più tardi il terreno ricomincia a respirare. Noi circa 10 anni fa ne abbiamo abbattuto uno gigantesco per dar spazio a 2 giovani noci. [Tenete a mente questi due noci]. È stata una delle cose più sante mai fatte. La matrice è morta solo molto tempo dopo, spargendo sale sul taglio.[3]
E’ una maledetta infestante, si riproduce a dismisura e minaccia di alterare (ma probabilmente l’ha già fatto) la nostra flora.[4]
Straniero, alto dieci piani, scaccia italiani. E’ invasione dell’albero puzzone.[5]
3. What’s infestante?
Richard Mabey – botanico e divulgatore scientifico britannico – nel suo Elogio delle erbacce (Ponte alle Grazie, 2011) scrive che “il modo più comune e semplice di definire un’infestante è designarla come una pianta nel posto sbagliato, ovvero una pianta che cresce dove si preferirebbe ne crescessero altre, o dove di piante non se ne vorrebbero”.
Quale sia il posto giusto e il posto sbagliato, ovviamente, lo stabilisce l’uomo. Fissato questo parametro non è poi così raro sfociare nel grottesco: Mabey scrive che “è difficile immaginare un posto più giusto di una foresta temperata per i frassini maggiori, [ma] quando questi crescono in mezzo a specie più appetibili sul piano commerciale i guardaboschi li chiamano alberi infestanti“.
L’idea che ci siano delle piante infestanti è propria dell’homo sapiens, ma non è poi così antica. Le prime liste di proscrizione per vegetali hanno meno di diecimila anni e risalgono a quando l’uomo neolitico rincasava dai campi e faceva la conta delle ore trascorse a diserbare. È in quelle serate che sulle pareti delle caverne comincia a segnare i nomi dei buoni e dei cattivi. Anzi, degli addomesticati, le piante utili, e dei selvatici, le erbacce. Con uno scalpellino di selce traccia una riga e di qua scrive grano e di là loglio. Solo che le erbacce, le infestanti, di linee tracciate, di confini e separazioni non ne vogliono sapere e ora come allora si prendono il loro spazio, senza chiedere il permesso.
L’idea di infestante nel corso dei secoli però si è modificata.
Loglio e zizzania, benché siano ospiti sgraditi, sono perfettamente legittimati a stare nei campi di grano, sono infatti originari della stessa area geografica in cui si è iniziato ad addomesticare i cereali. Le loro sementi hanno adottato comportamenti mimetici per godere della messa a dimora degli esseri umani: è un sodalizio. Si tratta di noie indissolubilmente legate all’agricoltura.
Negli ultimi due secoli però, l’accelerazione dei commerci e degli scambi e la globalizzazione hanno complicato la questione.
In epoca vittoriana, per esempio, piantare il poligono del Giappone (fallopia japonica) era il non plus ultra dell’eleganza. Oggi quella stessa pianta è la dannazione della Gran Bretagna. Pochi anni fa per i giochi di Londra 2012 si sono spesi decine di milioni di sterline per estirparlo dall’area olimpica.
I semi delle piante si muovono con il vento o sulla corrente dei fiumi, ma i vettori più efficaci sono gli animali e fra questi l’uomo che porta piante in vaso e semi in sacchi, scatole, buste di carta, nelle pieghe dei vestiti nelle risvolte dei pantaloni. Ovunque.
I primi viaggi extracontinentali di massa per vegetali risalgono all’era coloniale. Le piante più opportuniste e intraprendenti del vecchio mondo seguono l’uomo bianco nelle sue imprese e si installano in ogni angolo del globo. Romice, caglio attaccamani, piantaggine colonizzano nuove terre.
Mano a mano, poi, piante africane, asiatiche, delle due americhe intraprendono il viaggio inverso, alla volta dell’Europa. Ed è qui che si guadagnano la laurea di infestante. Per ottenerla, dice Mabey, “nessuna di queste specie ha mutato identità: ha solo cambiato indirizzo”.
4. Perché non te stavi a casa tua?
L’ailanto (famiglia delle simaroubacee) di suo se ne sarebbe rimasto in Cina e nelle Molucche. È nato lì e nessuno gli ha mai fatto capire di essere sgradito. Nella medicina tradizionale cinese è ritenuto un farmaco eccezionale per combattere attacchi di asma, epilessia, palpitazioni di origine nervosa, dissenteria, febbre, influenze ed amebe [cfr. C. Crepaldi, P. Marchesi, M. Martinengo, F. Tosco, Gli alberi del benessere, De Agostini, 2004]. Nelle Molucche la sua estrema velocità di crescita viene riconosciuta già dal nome, ailanto, che in lingua ambonese significa albero del cielo. Anche albero del paradiso, altro nome con il quale è conosciuto da noi, ha la stessa motivazione.
La botanica Shiu-Ying Hu sostiene che i semi dell’ailanto vennero spediti in Europa per errore. Pierre D’Incarville scambiò l’ailanto per l’albero della lacca (rhus verniciflua), anacardiacea molto importante dal punto di vista commerciale, dalla cui resina si ricava la tipica lacca nera in uso in Cina e in Giappone. Il fogliame dell’ailanto e dei rhus (sommacco americano, siciliano e albero della lacca) sono piuttosto simili, ma i frutti delle anacardiacee, drupe riunite in pannocchie, sono molto diversi da quelli dell’ailanto. Ci vollero decenni prima che da questa parte degli Urali la situazione si chiarisse del tutto.
La pannocchia del rhus typhina
Il primo ailanto coltivato in Europa vide la luce al Chelsea Physic Garden di Londra, nel 1751. Mano a mano si diffuse in tutto il vecchio continente. In Italia pare sia giunto nel 1760. Sulle prime ha un discreto successo come pianta ornamentale. Il suo portamento fiero e lussureggiante e la promessa del rapido accrescimento gli spalancano i cancelli dei giardini.
I semi dell’ailanto sono contenuti in samare, quelle che a me a lungo sono parsi fiori secchi, frutti alati, leggerissimi, capaci di farsi trasportare dal vento o dallo spostamento d’aria di treni e automezzi a decine di metri di distanza dalla pianta madre. Un albero in piena maturità sessuale può produrne a migliaia. I semi però non sono l’unica strategia riproduttiva, l’ailanto può farsi strada anche grazie alla sua notevole capacità pollonante.
La sua esuberanza, unita all’odore non proprio gradevole di foglie e fiori, gli meritano una cacciata dai giardini che neanche quella di Adamo ed Eva. Altro che albero del paradiso.
Negli anni ’40 dell’Ottocento ha una seconda possibilità. L’industria della seta europea è messa in ginocchio da un’epidemia di pebrina, malattia del baco da seta. In Cina e nel sudest asiatico la larva della phylosamia cinthia, la falena che produce la materia prima per la seta eri, si ciba delle foglie di ailanto. Si prova dunque a piantare ailanti e a importare bombici, ma il lepidottero dell’ailanto in Europa non si trova affatto bene, sembra Ian Rush nella sua parentesi juventina: poco produttivo, discontinuo, cagionevole. Non sarà l’ailanto a risollevare le sorti della sericoltura europea.
Troverà almeno in parte la sua dimensione al terzo tentativo quando, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, viene utilizzato per alberature cittadine e consolidamento di scarpate.
L’ailanto dunque giunge nel nostro areale condotto da europei che lo sradicano dalla sua terra di origine. Durante la sua permanenza si è tirato su le maniche e si è adattato a fare un po’ di tutto, dal dar lustro ai nostri giardini fino a tenere su le nostre rive instabili. Nel frattempo ha trovato una sua dimensione e si è naturalizzato. Ha scoperto un suo un habitat d’elezione nelle aree dismesse delle città, persino nelle metropoli. È una pianta che sa arrangiarsi, ha poche esigenze circa la composizione del terreno, le sue radici profonde sanno trovare acqua e nutrienti anche in suoli estremamente poveri e degradati e tollera molto bene l’inquinamento atmosferico. Un vero fusto.
Ecco Mabey:
A New York è già evidente che se le squadre di manutenzione della città dovessero trascurare il loro lavoro anche solo per pochi mesi le strade si trasformerebbero in una rigogliosa foresta di pianticelle di ailanto […]. I semi alati si infilerebbero nelle crepe del manto stradale e nei tunnel dei sottopassi dove germinerebbero e crescerebbero rapidamente […]. In pochi mesi dalle grate dei marciapiedi spunteranno ciuffi di foglie, mentre le lunghe radici ramificate (da cui nascono i polloni) solleveranno la pavimentazione stradale, spezzando i collettori delle fogne. Nell’arco di una decina d’anni gli alberi potrebbero superare i dieci metri d’altezza. Il suolo, rimasto a lungo intrappolato sotto il manto stradale, tornerebbe ad essere esposto all’azione del sole e della pioggia e riceverebbe le sostanze nutritive apportate dai liquami, così alcune specie di erbe infestanti terrestri lo occuperebbero formando un sottobosco di arbusti all’ombra dei giovani alberi che crescono rapidamente. Questo è esattamente ciò che è accaduto a una linea abbandonata della Central Railroad di New York, nel quartiere di Manhattan. La linea venne chiusa nel 1980 e le piante di ailanto hanno invaso subito la zona […].
A tree grows in Brooklyn. (Betty Smith, 1943)
Degli ailanti di New York a luglio scorso noi di Alpinismo Molotov non sapevamo ancora niente. Ognuno di noi però aggiungeva le sue conoscenze, le sue osservazioni come tessere di un puzzle:
Lo.Fi.: Io da ignorante ho sentito solo che gli ailanti sono stati devastanti in Val Rosandra dopo la motosega selvaggia della protezione incivile, in quanto la sua proliferazione impedisce il riformarsi del bosco ripariale…
In Friuli confermo che sono molto amati dalle api, assieme all’amorfa fruticosa, altra pianta non autoctona infestante, ma d’altronde l’apicoltura non fa testo in botanica, si pensi a che scarsi raccolti di miele avremmo senza l’acacia…
WM1: Per fare un esempio anche più chiaro: questo è un altro ciglio di strada di periferia precollinare, è via di Casaglia, che porta alla scuola elementare di mia figlia.
Ora è in quinta. Quando ha cominciato la prima, questi alberi non c’erano. Nella seconda foto potete vedere quant’è grosso il fusto.
E succede anche in posti molto più vicini al centro, quartieri popolatissimi. Macchie di alberi così, anche più alti e più grossi, si trovano in alcuni spiazzi e cortili del rione Cirenaica, prima periferia. Per non dire della Bolognina che è piena di fabbriche dismesse. Tra poco sarà un quartiere di vere e proprie foreste. Foreste clandestine, come si diceva. Alberi ad alto fusto non censiti dal Comune. Ed è così in moltissime città.
Secondo me si potrebbero organizzare camminate molotov urbane alla scoperta di queste nuove foreste.
Yamunin: L’idea delle camminate urbane alla scoperta delle foreste clandestine mi piace molto, la prima che ho incontrato a Torino è all’interno dello stadio del Fila. Si vede qualcosa nelle foto che accompagnano il pezzo pubblicato da futbologia.
Mr Mill: Ho sempre immaginato che la “fine del mondo” sarà – quando sarà – la scomparsa dell’umanità. La vegetazione con i suoi tempi si riprenderà gli spazi che l’antropizzazione gli ha strappato o – detta diversamente – “disciplinato”: si potrebbe arrivare a dire, ribaltando i termini, che la vegetazione bonificherà l’azione infestante umana.
E aggiungo en passant che in tutto questo immaginario le montagne saranno sempre lì, come erano lì dove sono da prima che l’uomo segnasse la sua presenza sul pianeta.
L’ailanto nelle città, in particolare nelle aree abbandonate, può essere rappresentato come un prodromo di quel che potrebbe essere. Da oggi cercherò per Brescia la presenza di questa pianta, come potete immaginare non mancano aree dismesse e abbandonate.
WM1: Insomma, secondo me la posizione più sensata (anche politicamente) è questa: estirpare l’ailanto dove è una concreta minaccia alla biodiversità (come in Val Rosandra), ma lasciarlo dove ha portato verde dove non c’era, come in città. Meglio l’ailanto delle spianate d’asfalto sbriciolato. Sul ciglio di una strada, meglio un filare tumultuoso di ailanti che l’assolato nulla con rifiuti vari.
In ogni caso, quand’è già diventato alto, pensarci bene prima di buttarlo giù. Per abbattere altri alberi di alto fusto (anche su terreni privati) ci vuole la valutazione, l’autorizzazione, deve venire l’agronomo del Comune ecc. Perché per l’ailanto dovrebbe essere diverso?
E poi è vero che le radici degli ailanti ridanno tenuta al suolo, ai pendii. In condizioni di dissesto idrogeologico come quelle in cui si trova il paese, non è poco.
Segnalo questo pezzo, molto bello, di due anni fa: Il clandestino del Paradiso.
Filo: Sottoscrivo al 100%.
La questione, però, è anche che laddove a ragion veduta si estirpa, non ci si può a limitare a un raid di motosega. La situazione potrebbe peggiorare, l’ailanto reagisce molto violentemente ai tagli. Serve tatto, attenzione, studio.
Lo.Fi.: Io ci andrei piano con l’estirpare sempre.
Non vorrei che in Val Rosandra ritornino i segatori selvaggi con la scusa degli ailanti… in generale la reazione alle piante non autoctone ha la sua ragione, anche perché non è colpa delle piante, ma dell’uomo che le ha introdotte a cazzo… un po’ come i mufloni nel Trentino di cui ci parlava Stefano. Il punto è che estirpazioni, trapianti, controlli botanici sono propositi che presuppongono una cura del territorio che non c’è… ed è sintomatico che ci si svegli per segare gli ailanti lasciando andare in vacca tutto il resto… come se fossero loro la ragione del dissesto.
Vecio: Imho questa [di Lo.Fi] finora è la formulazione migliore del punto molotov, quella che accomuna più chiaramente l’ailanto con lo straniero.
Yamunin: Leggendo stamattina il thread m’è venuto in mente un pezzo di Winterreise di E. Jelinek (sì ci sto convivendo con questo testo) che vi copioincollo di seguito (è la parte dedicata agli stranieri):
D’altra parte noi. L’abbiamo intagliato nelle nostre cortecce. Abbiamo dato parole affettuose. Sono state prese volentieri. Noi siamo qui, nel momento in cui qualcosa ci attira via di qui. Anzi, proprio nel momento in cui qualcosa ci attira altrove, siamo in particolar modo qui. Nel bel mezzo di stranieri: soltanto noi. Noi razza d’uomini, siamo stati disboscati per le nostre piste da sci. Siamo ricresciuti, e siamo stati di nuovo disboscati. Tagliati via da noi stessi. Su una salita che taglia le gambe. Ma non ha mica fatto male. Lo skilift ci porta su. È meglio di prima. L’abbonamento ci dà ogni diritto. Nessuno ci impedisce più la visuale, non un tiglio, non un pino, non una casa, niente.
Stefano: Sta discussione sugli ailanti è davvero molto interessante e mi ha un po’ preso: son 2 giorni infatti che dovunque vada cerco ailanti scorgendone un po’ da tutte le parti.
Sicuramente quelli più interessanti in Porto vecchio a Trieste (dove passo spesso in bici per andare/tornare dal lavoro), in posti alcuni davvero emblematici: ne sta crescendo uno per esempio fra le bitte che han messo davanti al magazzino 26 ristrutturato appena qualche anno fa. Un altro gruppetto sta colonizzando uno spazio dietro l’ex scalo bestiame…
Infine poi c’è il bosco che sta crescendo (non solo con ailanti tra l’altro) fra i binari abbandonati dello scalo merci FS proprio in fondo al porto vecchio a Trieste.
4. Quant’è brutto l’ailanto
A Cagliari è un abusivo vegetale, nel Carso è una pianta killer, ad Alessandria è un mostro che minaccia di distruggere una cittadella.
Ci sono aziende chimiche che gli dedicano diserbanti specifici e associazioni che organizzano seminari dal titolo: fatti più in là.
La psicosi è così forte da far perdere la bussola anche agli esperti, e così a una lettrice che con tutta probabilità sta descrivendo un sommacco (rhus typhina) viene suggerito di prendere immediatamente provvedimenti drastici contro l’ailanto. Sembra un po’ quando l’atto di un accoltellatore tedesco sui giornali italiani viene attribuito a un attentatore islamico.
L’ailanto di magagne ce n’ha tante. In primo luogo puzza. La sostanza odorosa è presente nei fiori e nelle foglie e si sprigiona soprattutto se le si sfrega. È una ragione sufficiente a programmarne lo sterminio? Appesta l’aria a un punto tale da renderla irrespirabile? Personalmente il mio naso è più infastidito dal fetore di cimice schiacciata del coriandolo (coriandrum sativum), ma non mi sento autorizzato a promuovere campagne di denigrazione per questo, tanto più che me lo sono piantato anche nell’orto, vicino alle carognette (tagetes).
E poi, se il problema è la puzza, davanti a quisquilie quali inceneritori, fabbriche inquinanti e tubi di scappamento che facciamo? Un festival luddista?
Una delle maggiori preoccupazioni degli ailantofobi è l’allelopatia, una forma di lotta interspecifica fra piante. Alessandro Ludovisi, docente dell’Università di Perugia la descrive così:
L’allelopatia o antagonismo radicale è una forma particolare di antibiosi frequente nel mondo vegetale. Molti vegetali rilasciano nel terreno metaboliti secondari che inibiscono la germinazione o lo sviluppo di piante competitrici. Tali sostanze si comportano perciò come fitotossine radicali.[6]
Fra le sostanze che svolgono questo compito ci sono la florizina (essudata dai meli), l’amigdalina (peschi) e lo juglone (noci). Ve li ricordate quei due noci messi a dimora da un ailontofobo per sostituire un albero puzzone abbattuto?
L’ailanto in ogni caso pare che adotti questa strategia solo quando è molto giovane. Non lo fa per cattiveria. È un’eliofila, patisce l’ombra, cresce veloce per assicurarsi un posto al sole.
5. Stop Invasione
L’argomento principe degli sterminatori eubotanici è che l’ailanto minaccia di soppiantare le nostre essenze autoctone
De tègn d’öcc
L’Ailanthus l’è considerada öna spécie pericolusa e ‘nvasiva, desà che la crès, despertöt e a la svèlta, fina a 2 méter l’an. De spès se la èt crès in di mür, ‘n banda a i arnèle (marciapé) e ‘nfina ‘n banda a i binare del tréno. Isè la ghe ria a faga la guèra a i spéce di nòste bande e a ciapàn ol pòst.[7]
Lo status di erbaccia infestante sottintende una serie di comportamenti tipici. Le erbacce crescono in fretta o hanno semi che possono rimanere dormienti per decenni. Alcune erbacce posseggono entrambe queste caratteristiche.
Le erbacce spesso sono poco esigenti quanto alla composizione del suolo e soprattutto amano i terreni disturbati, quelli che nell’antichità erano soggetti a sismi, cataclismi, avanzamenti e ritiri di ghiacciai. Quella stessa tipologia di terreni che oggi l’uomo sa mettere loro a disposizione in gran quantità.
Io invece sono molto più lento dell’erbacce. Avevo promesso ai compagni di Alpinismo Molotov di mandare la bozza dell’articolo sull’ailanto per settembre 2015. Macché! In questi mesi però, benché non abbia scritto una sola riga, ho aguzzato gli occhi. Ogni spostamento nella mia zona è diventato l’occasione per mappare la presenza dell’ailanto.
Sulla circonvallazione esterna di Orbassano, a poca distanza dal ponte sul Sangone, ce n’è un bel boschetto che costeggia la strada per almeno trenta metri. Nella zona industriale di Rivalta i due alberi sotto cui parcheggiavo si sono riprodotti. Ci sono diversi giovani individui, alcuni nati da seme a decine di metri dalla pianta madre, nelle fessure dell’asfalto; altri invece lì accanto nati per riproduzione agamica, da pollone. Potrei citare ancora quelli che si stanno facendo spazio sulla variante della strada del Dojrone, nei pressi di corso Appio Claudio a Torino, o all’interno dei confini dello scalo ferroviario di Orbassano. E via così.
In generale, comunque, ho visto ailanti nelle zone industriali, sui cigli della strada, nelle aree di cantiere, nelle aree dismesse e abbandonate. Dov’è quindi la minaccia per i spéce di nòste bande?
Percorro da decenni la collina morenica di Rivoli – Avigliana, soprattutto i sentieri intorno ai tre truc di Rivalta (Castellazzo, Monsagnasco, Bandiera), un’area di alcune centinaia di ettari dove il bosco si alterna a vigne e campi. Bene, qui la presenza dell’ailanto è prossima allo zero. Dico prossima per prudenza, può darsi che qualcuno ci sia, ma io non ne ho mai visti.
Stefano Mancuso – direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale – e Alessandra Viola nel loro Verde brillante (Giunti, 2013) scrivono che le piante “sono in grado di comunicare attraverso un vero e proprio linguaggio composto da migliaia di molecole chimiche che vengono liberate nell’aria o nell’acqua e che contengono informazioni di vario tipo”. Richard Mabey – non ho ancora finito di citarlo, il suo libro è preziosissimo – scrive:
L’aria e la terra sono impegnate a trasmettere costanti correnti di messaggi chimici (feromoni vegetali) destinati a individuare insetti predatori, sedurre gli impollinatori, uccidere i concorrenti, incoraggiare le piante affini e avvisare altre piante degli attacchi di insetti. I feromoni possono essere volatili, e trasmessi nell’aria dalle foglie, oppure essudati radicali solubili in acqua e infiltrati nel terreno. Più piante sono coinvolte, più complessa diventa l’attività dei messaggi, e nelle comunità vegetali di vecchia data questa polifonia può essere uno dei meccanismi con cui intrusi quali le erbacce sono tenuti fuori.
Ed ecco la ragione per cui è estremamente improbabile che l’ailanto si insedi nei nostri boschi. Non solo c’è la difficoltà di trovare spazio e luce in una comunità vegetale stabile, in un terreno che generalmente non viene smosso, se non dal transito animale, ma ci sono le radici delle vecchie piante lì a presidiare il territorio.
6. Sì, ma quanti siete?
David Pearman e Kevin Walker nel New Atlas of British and Irish Flora, racconta Mabey, hanno esaminato la questione della presenza delle piante infestanti da un punto di vista inedito:
Prima di tutto suggeriscono che è facile avere un’impressione sbagliata della loro incidenza a causa della loro «urbanità»: «Le piante aliene ci paiono più ‘comuni’ di quanto non siano in realtà perché molte di loro sono onnipresenti nei luoghi in cui abitiamo. Così, supponiamo ingenuamente che siano altrettanto comuni ovunque». In base alla loro abbondanza nelle aree urbane disturbate – cigli delle strade, canali, siti industriali abbondanti – deduciamo che possano avere densità simili anche nella più vasta campagna.
Dopodiché sono passati a una nuova scala di valutazione dei dati.
Dopo aver raccolto i risultati che rilevavano l’abbondanza delle infestanti invasive mappate secondo la normale unità di griglia di un hectad, pari a 10 x 10 chilometri quadrati (10.000 ettari), hanno studiato quanto risultavano abbondanti quelle stesse specie se mappate in scala molto più ridotta, cioè dividendo gli hectad in tetradi, unità di 2 x 2 chilometri quadrati. […] Il poligono del Giappone era presente nell’83 % degli hectad analizzati, ma solo nel 29% delle tetradi in cui erano stati suddivisi. Analogamente le cifre per il rododendro erano del 70% e del 22%, per la balsamina ghiandolosa del 76% e del 22%, mentre per la Panace di Mantegazzi erano del 34% e del 6%. L’apparente abbondanza di queste piante sembra dunque concentrata in unità di territorio relativamente piccole, per la maggior parte in aree urbane o suburbane. Seguendo gli stessi parametri, Pearman e Walker hanno poi esaminato la campagna, soprattutto le parti più ricche dal punto di vista ecologico, scoprendo che le piante aliene invasive erano, per citare le loro parole esatte, «estremamente rare».
La stessa valutazione che ho tratto anche io in questi dieci mesi di osservazione. Ailanti ce n’è davvero pochi.
I luoghi in cui l’ailanto ha occupato nicchie ecologiche che appartenevano ad altre piante, la Val Rosandra citata da Lo.Fi., la pineta di San Rossore, l’isola di Montecristo raccontano tutti la stessa storia: è stato l’uomo con interventi maldestri e poco meditati a creare le condizioni ideali per l’insediamento.
7. È diventato invivibile
Qualche ailantofobo potrebbe commentare che però laddove si insedia l’ailanto non crescono piante autoctone. Giovedì scorso sono tornato a visitare i due ailanti conosciuti nel 2004. Fra la selva dei polloni, oltre a esserci una gran quantità di erbe e erbacce assortite, ho scoperto quello che con tutta probabilità è un acero montano (acer pseudoplatanus), una specie che più di nòste bande di così non si può. Alla faccia dell’allelopatia.
Ma le magagne dell’ailanto non sono ancora finite. Un’accusa connessa a quella di rubare il posto è quella di ridurre la biodiversità. In effetti i dati più recenti dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) affermano che nel nostro paese la biodiversità è a rischio.
Oltre 7000 mila piante autoctone sono minacciate e diverse si sono già estinte, ma il rapporto IUCN lo dice chiaro le cause sono da imputarsi all’azione dell’uomo.
Né la erniaria, né il limonio si sono estinte a causa dell’ailanto.
In questo contesto se, come pare, non abbiamo intenzione di porre freno all’inquinamento atmosferico e non interveniamo sulle cause del riscaldamento globale conviene che non si faccia tanto i difficili sul luogo di provenienza delle piante. Noi abbiamo bisogno di loro, indipendentemente da cosa ci sia scritto sul loro passaporto. Anche solo per respirare.
8. A cosa servono le infestanti?
Un’erbaccia è semplicemente una pianta
le cui virtù non sono ancora state scoperte.
Ralph Waldo Emerson
L’ailanto è cittadino, metropolitano. Predilige le aree dismesse, la terra smossa. È molto attaccato all’uomo: non si tratta di un comportamento parassitario, potrebbe tranquillamente vivere senza di noi, il fatto è che la nostra specie gli permette di dare il meglio di sé. Ancora Mabey:
[Le infestanti] gradiscono quello che facciamo al terreno: deforestazione, dissodamento, coltivazione, scarico rifiuti. Prosperano in aree progettate dall’uomo, utilizzano i nostri sistemi di trasporto. Si avvalgono dei nuovi equilibri ecologici che siamo in grado di creare.
È conclamato: noi gli siamo utili. Ma a noi l’ailanto che ci serve?
Non è buono nemmeno come legna da ardere.
Di primo acchito verrebbe da rispondere con un’altra domanda. A che ci serve la magnolia grandiflora? E’ una pianta forestiera e i giardini pubblici e privati ne sono invasi. La risposta che è bella non mi dà nessuna soddisfazione. A me, per dire, non piace, trovo il suo verde funereo e la cuoiosità delle foglie solo un briciolo meno irritante dei divani in pelle. Al contrario la scapigliatura dell’ailanto mi dà un autentico godimento estetico. È una risposta poco intelligente, lo ammetto. Sullo stesso livello della domanda.
Tuttavia proviamo a rispondere. A che ci serve l’ailanto?
Sorvolo, benché non sia secondario, sul fatto che costituisca cibo per falene e sulle proprietà medicinali che gli si attribuiscono in Cina. Se il suo legno è poco adatto a scaldarci in una serata invernale, può però essere utile nelle fasi iniziali di accensione di stufe e camini, oltre che per la fabbricazione della carta.
E poi in un paese come il nostro, martoriato dal dissesto idrogeologico, una pianta dal forte apparato radicale e rapido accrescimento potrebbe svolgere un ruolo molto importante.
A livello generale Mabey fa notare che le erbacce, prosperando in paesaggi devastati, da una parte tingono di verde e riportano la vita nella desolazione creata dall’uomo e, dall’altra, insinuano l’idea di natura selvaggia laddove sembrava essersi estinta. Ma è la chiusa del suo libro a rispondere definitivamente, per l’ailanto e per tutte le altre erbacce.
Le erbacce sono una sorta di sistema immunitario, organismi che entrano in gioco per riparare i tessuti danneggiati, ovvero, in questo caso, la terra spogliata della vegetazione che la ricopriva. Questo, tuttavia, non significa che le erbacce si prefiggano uno «scopo», non più di quanto facciano tutti gli altri esseri viventi. L’unica ragione che spiega l’esistenza di un organismo è la sua capacità di esistere, e l’averne avuta l’opportunità. L’aspetto magnifico, quasi trascendentale, della vita sulla terra è che, per esistere, gli organismi devono relazionarsi gli uni agli altri e alla terra stessa, e quindi trovarsi, se non uno scopo, qualcosa che assomigli a un ruolo. Se le erbacce sono caratterizzate da esistenze fugaci e opportunistiche è perché il loro ruolo, il compito che svolgono, è riempire gli spazi vuoti della terra, riparare la vegetazione che la natura sconvolge da milioni di anni con le frane, le alluvioni e gli incendi boschivi e che oggi è messa a dura prova dall’aggressività delle colture e da un fortissimo inquinamento. In questo processo di riempimento le erbacce stabilizzano il terreno, proteggono dall’inaridimento, forniscono riparo ad altre piante e danno il via al processo che porta all’avvicendamento di sistemi vegetali più complessi e più stabili.
Anche l’umanità, siamo in tanti a crederlo, ha un compito da svolgere: prendersi cura del pianeta, porre rimedio ai danni, combattere strenuamente contro chi per il proprio miope tornaconto personale (o per quello del proprio boss) lo avvelena ogni giorno. Omnia sunt communia.
[1] L’inizio della fine – Ailantoamorte
[4] http://it.hobby.giardinaggio.narkive.com/0iUxHpd7/e-questa-invece
[5] Straniero, alto dieci piani, scaccia italiani. E’ invasione dell’albero puzzone
[6] http://www.chm.unipg.it/sites/default/files/u3922/eco52_sb.pdf
[7] Wikipedia in lombardo.
Ailanto, l'albero maudit che porta il paradiso fra il cemento
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[…] rapida: un poderoso post di Filo Sottile sul blog di Alpinismo Molotov. Cosa fare dell’ailanto, pianta immigrata odiata […]
tonii
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L’articolo della Hu Xiuying vale tanto oro quanto pesa! Una vera disdetta è che manchino i caratteri cinesi – ciò rende più difficile capire di che si parli. Ma a p. 39 arriva l’indizio giusto: la pianta è citata nel Erya! (se non vi dice nulla il titolo cfr.: https://en.wikipedia.org/wiki/Erya). Ci viene detto che è la seconda elencata nel capitolo sugli alberi 《释木》. Quindi arriviamo a… 樗!
Nella dotta ricerca la Hu s’è concentrata sulle enciclopedie botaniche storiche cinesi (e su curiose e interessanti osservazioni sulle pratiche umane che rendono questa pianta un arbusto in occidente e un grande albero a fusto in Cina), giustamente evitando le connessioni filosofiche, che certamente conosceva.
Ma non è detto che molti occidentali ne siano a conoscenza.
Vale allora la pena dire che 樗 è citato nel Zhuangzi. E nei Capitoli Interni, quelli ritenuti sicuramente di Zhuangzi stesso. Nel primo capitolo si dice: “惠子谓庄子曰:「吾有大树,人谓之樗。其大本拥肿而不中绳墨,其小枝卷曲而不中规矩,立之涂,匠者不顾。今子之言,大而无用,众所同去也。…”
Huizi è un logico, spesso in dialogo col taoista Zhuangzi che lo apprezzava ma lo trovava limitato dalla incapacità di superare la sua struttura logica. A fine Ottocento il Legge così traduceva:
“Hui-tsze said to Kwang-tsze, ‘I have a large tree, which men call the Ailantus. Its trunk swells out to a large size, but is not fit for a carpenter to apply his line to it; its smaller branches are knotted and crooked, so that the disk and square cannot be used on them. Though planted on the wayside, a builder would not turn his head to look at it.
Now your words, Sir, are great, but of no use;— all unite in putting them away from them.’
Kwang-tsze replied, ‘Have you never seen a wildcat or a weasel? There it lies, crouching and low, till the wanderer approaches; east and west it leaps about, avoiding neither what is high nor what is low, till it is caught in a trap, or dies in a net. Again there is the Yak, so large that it is like a cloud hanging in the sky. It is large indeed, but it cannot catch mice.
You, Sir, have a large tree and are troubled because it is of no use;— why do you not plant it in a tract where there is nothing else, or in a wide and barren wild? There you might saunter idly by its side, or in the enjoyment of untroubled ease sleep beneath it. Neither bill nor axe would shorten its existence; there would be nothing to injure it. What is there in its uselessness to cause you distress?’
Credo che dopo 2300 anni siamo ancora debitori a Zhuangzi di alcune intuizioni, che dovrebbero farci riflettere seriamente, su cosa sia “l’utilità” e il rapporto tra genere umano e natura.
Lame Rosse
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In Italia c’è un luogo in cui l’ailanto non non era considerato un intruso. Godeva del massimo rispetto e si trovava addirittura al centro della piazza del paese. Parlo dell’Ailanthus altissima di Molina Aterno, in provincia dell’Aquila. L’albero di eccezionali dimensioni (4,62 m di circonferenza) era inserito tra i 370 alberi secolari della Regione Abruzzo ed era stato proclamato Monumento Naturale Regionale. Scrivo, purtroppo, al passato perchè l’ailanto nell’estate del 2014 è stato abbattuto a seguito di problematiche di origine naturale ed a ripetuti errori di “gestione umana” delle potature.
Questo albero ha avuto una storia secolare tanto da diventare simbolo dell’intera area, per approfondimenti rimando a questi due articoli che ne raccontano le vicissitudini:
– Il vecchio ailanto di Molina Aterno (AQ)
http://www.conalpa.it/articoli-sugli-alberi-monumentali/articoli-tematici/articoli-sugli-alberi-monumentali/il-vecchio-ailanto-di-molina-aterno-aq-di-kevin-cianfaglione-e-francesco-nasini
– Addio all’Ailanto monumentale di Molina Aterno (AQ)
http://www.improntalaquila.org/2014/perso-simbolo-cultura-paesaggio-abruzzese-addio-dellailanto-monumentale-molina-aterno-aq-75592.html
Adrianaaaa
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Bellissimo pezzo, complimenti! Tra l’altro mi ha permesso di scoprire che cosa fosse quel bellissimo albero nel cortile della mia vecchia casa in centro a Bologna che un giorno è stato barbaramente tagliato. Era un ailanto. Devo dire però che non trovavo affatto i suoi fiori puzzolenti, anzi! Hanno un profumo molto intenso, ma è profumo di polline se non ricordo male.
A proposito dei noci: in Piemonte si diceva che chi ci si sedeva sotto prendeva la tubercolosi, una superstizione che deriva dal fatto che sono dannosi per la flora degli immediati paraggi (e forse era anche un modo per disincentivare la pigrizia). E vogliamo parlare delle pinacee? Solo che da questi alberi si ricavano legno pregiato e cibo. Anche il rosmarino può disturbare le altre piante, ma si continua a piantarlo negli orti.
È sempre molto interessante scoprire come l’essere umano modifica la natura intorno a sé e poi la risignifica, a volte attribuendo connotati di selvaticità a luoghi completamente trasformati dalla sua azione (ne parlava ad esempio Robert Macfarlane a proposito della brughiera di erica delle Highlands scozzesi), e non riconoscendo invece la forza e la bellezza della natura quando questa irrompe dove non è ben voluta.
A me che sono ligure viene in mente il tipico paesaggio della riviera, pieno di pini aggrappati alla costa ripida, con i loro bellissimi rami a ombrello che si alzano su un sottobosco profumato di arbusti aromatici (corbezzoli, ginepro, rosmarino e timo selvatico). Si tratta di pini domestici, introdotti in Italia dai romani probabilmente dal vicino oriente, coltivati per secoli e diventati un albero molto presente anche allo stato selvatico. Peccato che un tempo la tipica foresta ligure costiera fosse composta da lecci, com’è ancora in buona parte. A guardare bene si scopre che i boschi di pini si trovano proprio in corrispondenza di quelle che erano le mete turistiche più quotate durante il boom economico e nei decenni successivi, quando tutti volevano una casa in Liguria. Allora le foreste venivano incendiate per costruire ville e palazzine abusive, ed è stato così fino al 1993, quando una legge ha vietato di costruire su aree boschive che hanno subito un incendio. Me li ricordo ancora bene gli incendi per disboscare e costruire. D’estate i canadair volavano sopra le nostre teste praticamente senza interruzione. Ebbene, i pini, a differenza dei lecci, prosperano con il fuoco. Quando c’è un incendio, la pianta madre brucia come un fiammifero a causa della resina, ma i semi rimangono al sicuro dentro le pigne, che possono resistere a temperature altissime. Quando il fuoco si spegne, la pigna si apre e libera i semi, che germogliano nel terreno libero dalle vecchie piante. Così, nelle zone più appetibili per l’abusivismo edilizio, i lecci sono spariti e sono stati rimpiazzati dai pini, che tutti pensano essere un tratto tipico del paesaggio ligure. D’altra parte il pesto si fa con i pinoli no? E con un’altra pianta allogena, il basilico, che alcuni naturalisti dell’antichità pensavano provocasse la pazzia.
maristella
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Ottimo e preciso: vorrei aggiungere una mia riflessione sulle “infestanti”,
http://lautoradio.net/www/vita-campi/
marcomagnante
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finalmente so il nome della pianta. la conoscevo solo per la mia pessima abitudine di partire dalla base del ramo e con una strisciata di mano, portare via tutte le foglie lasciandomi quel cattivo odore.
Chiedo venia e dopo aver letto il post, la guarderò con altri occhi e per redimermi cercherò di fotografarla.
tosaldo
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sono nuovo nel blog ma mi sembrano veramente molto ma molto interessante sia le vostre riflessioni sia i temi che trattate, e lo dico molto sinceramente. Sul tema dell’ailanto mi trovo comunque abbastanza in disaccordo, e lo dico altrettanto sinceramente. Premetto che per ricerca personale e accademica è da anni che mi dedico a storia ambientale, sostenibilità ambientale, agronomia, agroecologia, permacultura, etc…premetto anche che non ho mai avuto problemi con persone o “forme di vita” estranei al suolo italico, anzi, ho sempre vissuto orgogliosamente nel quartiere più multiculturale della mia città (da sempre schifato dai “cittadini”), ho lavorato per anni come volontario nell’accoglienza di immigrati e anche nel doposcuola per bambini figli di immigrati, ho viaggiato in lungo e in largo e ho amici di tutti e 5 i continenti. Ossia con me il discorso razzista (o paura del diverso/estraneo) non attacca. A parte questa piccola premessa su di me che non vuole dire niente ma vuole solo essere di benevola e sincera “captatio benevolentia”, parliamo dell’Ailanto. Non me ne vogliate, ma dopo diverso tempo di studio e di pratica diretta non mi ha convinto questa elegia all’ailantus altissimus. Concordo assolutamente sul fatto che tutti siamo in una comunità, che dobbiamo prenderci cura del pianeta che ci circonda, e che i grandi problemi della modernità sono ben altri: inquinamento, erosione dei suoli, disboscamento selvaggio, economia insostenibile, comunque non deve farci perdere di vista il soggetto, ossia l’ailanto. Andando al sodo, ritengo che in una nicchia ecologia di una certa importanza dal punto di vista della biodiversità ci debba essere posto per più specie diverse, ora possiamo parlare della legge naturale dell’adattabilità, e del trionfo del più forte, etc etc…salvo poi, spero, renderci conto che la monocultura è un enorme problema in qualunque contesto ecologico. Credo che siamo tutti d’accordo sull’insostenibilità della monocultura della mela in trentino, dei pomodori nelle regioni del sud o della vigna in alcune regioni del nord, non vedo che differenza ci possa essere per una specie che tra l’altro non è un cultivar. Personalmente è da due anni che lavoro come vignaiolo in una azienda che fa lotta integrata contro i parassiti dannosi, agricoltura integrata per diminuire al minimo l’uso di fitofarmaci, preservazione delle macchie tampone boschive attorno ai campi e mantenimento dei cultivar tipici della zona (ciliegi, olivi, alberi da frutto di ogni tipo, oltre a specie botaniche che stanno scomparendo dalla zona e specie floreali di ogni tipo per le api), anche il diserbo è estremamente mirato e sotto utilizzato (agli occhi dei viticoltori ortodossi, le nostre vigne sembrano profondamente disordinate e in compagnia di troppe infestanti). Insomma cerchiamo il circolo virtuoso all’interno dell’agricoltura convenzionale. Le nostre epiche battaglie per ridurre le infestanti più comuni come edera e vitalba però impallidiscono contro la minaccia portata dall’ailanto: già si è parlato della sua capacità pollonante, della vigoria che acquista dopo un taglio radicale, delle sostanze allelopatiche prodotte, etc…ora bene, che io sia un profondo amante della natura non vuol dire che ami tutto ciò che è presente nel mondo vegetale. Non ha lo stesso valore ambientale un ettaro di bosco in buono stato che un ettaro a scacchiera di eucalipti o faggi piantati contemporaneamente tutti assieme a un metro uno dall’altro senza alcuna traccia di sottobosco…è sempre un ettaro di alberi, sì, ma assolutamente povero dal punto di vista della biodiversità. Anche l’animalista più convinto credo possa arrivare a disprezzare mosche, zanzare e scaraggi senza per questo essere accusato di specista. Sul valore di questo alberto in un contesto urbano o industriale dismesso, abbandonato o completamente cementato, non mi sento di dare giudizi di valore, sempre meglio il verde che il cemento, per il resto però non mi sembra il caso di generalizzare sul valore intrinseco di una specie. Voglio ricordare i tanti casi di specie invasive che introdotte in una nicchia ecologica anche favorevole hanno portato alla distruzione (o ne hanno iniziato la distruzione) della nicchia in questione: es. il pesce persico nel Lago Victoria in Africa (il documentario “l’incubo di Darwin lo racconta bene), le specie tropicali nel Mar Mediterraneo, o lo stesso esempio dell’ailanto, non dimentichiamoci che questa specie è entrata nella lista delle specie invasive più dannose stilata dal Global Invasive Species Database. La nostra battaglia, come ho cercato di spiegare, non nasce nè da pregiudizi, nè da specismo contro le specie non redditizie, ma dalla nuda pratica. In un angolo della proprietà vicino si è diffuso a macchia d’olio un bosco di ailanti che prima di tutto ha fatto terra bruciata del suo sottobosco e che poi ha iniziato ad attecchire anche nel lato della proprietà dell’azienda in cui lavoro. é chiaro che il suo potere di compattamento della terra è interessante, ma per tutto il resto ci siamo veramente trovati a fare i conti con un incubo. Oltre al tempo perso per contenere la sua espansione lavorando di estiparzione e di taglio (ore e ore di sudore e fatica vi assicuro) abbiamo dovuto capitolare nel momento in cui si è fatta strada in mezzo ai filari delle nostre vigne e in mezzo agli alberi da frutto. Sì ok, anche altre piante producono sostanze allelopatiche dagli apparati radicali, se non altro i nostri noci sono rigogliosi tra alberi di more, alberi di prugne selvatiche, di olivi e di magnolie per non parlare del discreto sottobosco anche di rosa canina e arbusti vari, cosa che non si può assolutamente dire della zona dove si espando l’ailanto…lì c’è solo lui. Anche la vite produce sostanze allelopatiche dalla zona radicale, se non altro, come dicevo, alle basi delle nostre vigne crescono anche artemisie, piccoli olivi selvatici e addirittura attecchiscono e iniziano a crescere piccole quercie…ripeto, sotto le zone di ailanto, c’è solo lui, e temo che ci sarà solo lui per un bel pezzo. Dopotutto si chiama albero del paradiso solo perchè cresce in fretta e copre tutto il resto. Ricordo anche che ha la capacità di crescere anche in zone boschive, non per niente la presenza di ailanto, oltre che di vitalba, in un bosco è segno, dal punto di vista ambientale, di zona boschiva degradata, visto che poco a poco si sovrapporranno a tutte le alte specie e il naturale equilibrio dinamico delle zone boschive si tramuta in una colonia del suddetto. Sul cattivo odore non mi pronuncio essendo un giudizio di valore secondo me ridicolo, le sue qualità come rimedio botanico ammetto che mi sono sconosciute, mi sembra cmq esagerato dedicargli questa ode. Le piante infestanti non sono tutte uguali, l’edera si riesce a contenere abbastanza facilmente, oltretutto fiorendo in autunno ed essendo appetita dalle api è un buon nutrimento per loro in tempo di “scarsezza”, la vitalba è molto invasiva ma relativamente debole quindi si riesce a estirpare facilmente (non parlo delle ore di lavoro per contenerla, evidentemente), l’ailanto è un fuoriserie a mio parere. Va bene nelle zone per compattare la terra, può andare bene nelle zone urbane degradate, ma va controllato, il rischio sennò è un’altro “incubo di Darwin”, non per niente cresce prospero e (quasi) incontrastato anche proprio ai lati delle ferrovie di tutta Italia, spazio non esattamente tempio di biodiversità o di qualità botanica. Dopo due stagione avendoci a che fare e dopo aver provato ad estirpare e a tagliare ci siamo accorti che l’unica cosa che lo elimina è il famoso glifosate (visto che ha iniziato ad espandersi anche nelle zone di vigne e di alberi da frutto, lo dico con grande malincuore, ci è toccato usarlo), il diserbante più usato e più dannoso per la salute e per l’ambiente, non per niente da tempo nell’Europarlamento si dibatte sul rinnovo della sua libera vendita. Siccome è impensabile lasciare l’ailanto libero di fare il suo corso, la sua proliferazione è la gallina dalle uova d’oro delle multinazionali della chimica come Monsanto e Basf, ergo meglio estirparlo appena germoglia. Confido molto nei diserbanti naturali come aceto potenziato+alcool o le buone vecchie capre al pascolo (fanno miracoli anche coi rovi spessi un dito, per dire….), ma nel frattempo non possiamo permetterci di usare il glifosate ogni volta che la cosa scappa di mano (la motosega di cui ho letto è un manna per lui, ricresce più grosso e più forte). Last but not least, se nelle zone degradate urbane prospera è proprio perchè l’incuranza e la negligenza delle municipalità ha abbandonato proprio quelle zone a favore della specie più forte o più adatta o più aggressiva verso le altre…ma credo che a nessuno piacerebbe nuotare in un mare popolato solo da pescecani, o solo da piranha, o da barracuda.
LoFi
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Mah, io non è che ci veda un elogio dell’ailanto in questo articolo-discussione. Certo è che va a colpire duro i fondamentalisti anti-ailanto, chi vede nell’ailanto l’origine di ogni male, e mi pare sintomatico che si reagisca a questa critica prendendo quella che è una problematizzazione per un’apologia, come se non se ne possa nemmeno discutere – tabù!
Da apicoltore dilettante posso dire che l’ailanto, fiorendo subito dopo l’acacia (o meglio, la robinia), offre nuove scorte di polline alle api in attesa del tiglio (a cui parzialmente si sovrappone), ovviamente questo non mi spinge a piantare ailanti né a gioire della sua proliferazione. Ma sempre da apicoltore dilettante non posso non rilevare che il glifosato, che come tu stesso dici molti fondamentalisti anti-ailanto non esitano ad usare per estirpare l’odiato nemico, causa danni gravi alle api e non solo. Non credo che basti dire “sì ma io non lo uso”, ignorando che il precipitato della psicosi da ailanto è proprio il dilagare del glifosato…
A me piacerebbe che in chi quando vede un ailanto mette immediatamente mano al machete o al diserbante si fermi a pensare qualche minuto, per farsi un esamino di coscienza: cosa sto facendo? Sicuro che quello che sto facendo non sia peggio del problema che voglio rimuovere?
La domanda che nessuno si pone é perché l’ailanto è diventato un problema solo oggi, a secoli dalla sua introduzione in Europa? non è che le ronde di estirpatori di ailanti non stanno peggiorando la situazione?
Viviamo in una congiuntura socioeconomica contraddistinta dall’abbandono degli spazi e delle risorse collettive, dalla fuga nel privato e dalla conseguente, classica, tardiva corsa ai ripari che scambia i sintomi per le cause, tipico di chi non vuole mettere in discussione l’esistente.
filosottile
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Uno dei mantra dei denigratori dell’ailanto è: Lì c’è solo lui.
Ci sono anche una serie di articoli in cui si dice che gli uccelli non ci nidificano sopra. Affermazioni calate dall’alto senza nessuna preoccupazione di dimostrarle. Io oggi ho raggiunto i due boschetti di ailanto più estesi fra quelli che ho vicino casa e ho fotografato il sottobosco. Purtroppo sono un botanico meno che dilettante e non so riconoscere tutte le specie immortalate, ma direi che ce n’è più di dieci. Forse non saranno specie pregiate, ma la piantaggine e le more si possono persino mangiare.
L’ailanto è il capro espiatorio perfetto. Puzza, cresce veloce e punta l’indice sulla nostra incuria. Che insolenza.
L’articolo sulla Cittadella di Alessandria è emblematico. Ci vuole qualche anno prima che un albero raggiunga la maturità sessuale, sia in grado di riprodursi e dia vita a una colonia. Un titolo più corretto potrebbe essere: “Cittadella di Alessandria, almeno tre anni di incuria”.
La mia esperienza dice che un individuo appena spuntato se lo si tiene a bada con decespugliatore e tosaerba in poco tempo desiste. Mi guadagno il pane facendo il giardiniere, coltivo due orti: il diserbo per me non è un’astrazione, ma una pratica quotidiana. Ma è importante inquadrare le cose per quello che sono, altrimenti diventa difficile distinguere il piano retorico da quello reale e scegliere di volta in volta se ci troviamo davvero davanti a un problema e come affrontarlo.
Mr Mill
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Io non leggo nel post un elogio all’ailanto, per me è chiaro che l’intento primario è quello di aprire la discussione rompendo la monodimensionalità della narrazione sulla presenza e la diffusione di questa pianta, narrazione che discende da uno schema d’interpretazione che si attiva come un automatismo, sulla base sempre e solo delle solite premesse. Come scrive Filo Sottile – e la prova è presto fatta, per chi volesse togliersi ogni dubbio – una ricerca con un motore di ricerca dà come risultato una serie di prese di posizione che trasudano aliantofobia e che picchiano duro sempre e solo con l’argomento dell’invasione. Scompaiono i contesti ambientali che con le loro differenze dovrebbero suggerire già possibili reazioni e approcci differenti di caso in caso, si rinuncia a ogni verifica della fondatezza delle premesse per una chiamata alla battaglia finale. Questo il post lo registra, così come per l’assonanza tra i ragionamenti, i tic e i toni degli ailantofoni e quelli dei razzisti: il post non propone un parallelismo tra piante alloctone e migranti, prende, con ribrezzo, atto della diffusione di questo parallelismo implicito (ma manco troppo implicito).
La fallacia principale, l’inganno, a mio parere, è la ricerca di una e una sola soluzione, valida sempre e comunque, che al limite serve per negare la problematicità di una questione e rafforzare le proprie convinzioni, non certo a risolverla “pragmaticamente” come sostengono e vorrebbero far credere i fautori di queste soluzioni estreme.
giuliano.fanelli
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bellissimo. Comunque tra chi si occupa di ricerca ecologica (ma non tra i cosiddetti practitioners come addetti ai parchi ecc.) sta lentamente crescendo la consapevolezza che le esotiche possono essere addirittura positive (una discussione delle diverse posizioni sta qui http://evol-eco.blogspot.it/2015/07/taking-stock-of-exotic-species-in-new.html). Io personalmente penso che le comunità degli ambienti temperati siano state impoverite in modo drammatico dalle glaciazioni, circa 10.000 anni fa e che stiano semplicemente cercando di tornare all’altissima ricchezza di specie del Terziario “importando” specie da altri continenti. Grazie comunque del post.
tonii
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Se prendiamo l’ailanto come spunto e non come soggetto, ho trovato che a Canton si sta tenendo in una comune artistica una “esposizione museale” gratuita che ha molto in comune con quanto s’è scritto qui sopra. Si tratta di Weed Commons, un progetto di Zheng Bo, un “ricercatore della storia delle erbe nelle città cinesi, che analizza la simbologia botanica attraverso il processo di modernizzazione cinese e disvela le relazioni simbiotiche tra piante e politica”. Assieme al paesaggista Wei Zhijiao sta costruendo – con la collettività locale e il pubblico – un paesaggio erboreo transeunte.
Centro del suo interesse è la “prospettiva sul passato e il presente a partire dalle comunità marginalizzate e dalle piante marginali”.
Il luogo in cui si svolge, apparentemente, pare piuttosto marginale: https://www.google.it/maps/place/Huangbian/@23.2186505,113.2898198,382m/data=!3m1!1e3!4m5!3m4!1s0x0:0x3e64bfcd4ddb5a49!8m2!3d23.221699!4d113.287498
Insomma, il tema delle piante marginali – neglette o reiette – sembra risuonare anche altrove.
Link in inglese: http://en.cafa.com.cn/guangdong-times-museum-presents-zheng-bo-wei-zhijiao-participants-weed-commons.html
Link in cinese: http://www.timesmuseum.org/programmes/detail/id-704/
filosottile
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Commento molto interessante. Nell’Elogio delle erbacce di Mabey sono segnalati almeno due percorsi che incrociano questo di Zheng Bo.
Uno è quello di The flowering of the cities (the natural flora of urban commons) un lavoro del 1993 di Oliver Gilbert dell’università di Sheffield.
«Gilbert condusse una ricerca sulle particolarissime comunità vegetali presenti nelle aree di proprietà pubblica in diverse città britanniche, evidenziando che sono caratterizzate da una flora particolare e che ha stretti legami con la storia sociale di ciascuna città. […]. Ciò che appare chiaro è che per chi vive in città il profilo ecologico e quello culturale di questa comunità di erbacce sono strettamente intrecciati fra loro. Sono coinquiline, squatter vegetali, una sorta di graffito vivente, sfacciate, abituate alla vita di strada, un passo avanti rispetto ai costruttori e ai puritani lamentosi. In loro vive lo spirito di Banksy».
Il secondo è il lavoro della Pink Posse. «(…) le erbacce sono anche taggate ai loro habitat, tanto che hanno pubblicato una mappa di Google delle loro «tagwort» con link che rimandano a brevi notizie sulle varie specie. [Queste note] forniscono alcuni simpatici spunti che spingono i più curiosi a dare un’occhiata più da vicino a queste piante che sono state decorate con l’equivalente erbaceo di una targa commemorativa».
Il terzo percorso non è (ancora?) botanico ed è di questi giorni. Si tratta del trekking urbano di Resistenze in Cirenaica. La recente apposizione di targhe ai luoghi storici della Resistenza del rione Cirenaica, praticata dal basso, rende giustizia alle specificità di quel pugno di strade.
Allo stesso modo, un’erbaccia (indigena o allogena che sia) che si ritaglia uno spazio ci racconta qualcosa delle condizioni ambientali, storiche e sociali di un determinato posto.
schizo
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belisssimo
pure Gilles Clément ne parla negli stessi termini su
“Elogio delle vagabonde – Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo” Ed. Derive/APPRODI
in particolare segnalo la seconda parte del libro
dal titolo “Il pianeta, un paese senza bandiera”
“Il mondo preoccupato grida all’invasione degli esseri venuti da luoghi lontani.
Stranieri, piante, animali, come osate voi impadronirvi delle nostre terre?
Gli studi sull’argomento abbondano. Si tengono convegni, si organizzano conferenze mondiali sull’urgenza di lottare contro tutto ciò che non è indigeno, locale, nazionale. Si intima all’utente di sradicare con ogni mezzo possibile le specie che non figurano sulle liste autorizzate. Si legifera, si salvaguarda, si garantisce. Una volta messo a punto il sistema si va a incidere un processo stravagante: quello dell’evoluzione.
Voi, esseri vagabondi, non avete il diritto di occupare il terreno altrui. Sparite, non ingombrate le nostre serie floristiche con la vostra presenza abusiva e mortale. Voi mettete in fuga le nostre specie, talvolta le uccidete. Siete voi l’inquinamento. In nome dell’identità nazionale noi vi combattiamo, proteggiamo i nostri cittadini, il nostro paesaggio, il nostro ambiente.
In nome della diversità
vi faremo la guerra,
perché vogliamo la pace…”
Per il resto del tempo,
la vita fa il suo corso.
qualche ano fa,
a mi l’ano,
in un gruppo di complici
cercammo di valorizzare un piccolo fazzoletto di terra lasciato all’incuria;
ne raccogliemmo sporcizia varia, taaanta, utilizzandone in parte per abbellire l’ameno luogo e iniziammo a valorizzare gli esseri che lo avevano colonizzato, avevamo iniziato maldestramente a nominarli, per farceli amici.
tra le varie specie, ovviamente, non potevano mancare gli ailanti e, durante quella esperienza, a me, che mi fregio dell’etichetta di tessitore, venne la fantasticheria di rivalutarli proprio con l’intento di allevar farfalle e usarne la grossolana seta (senza ucciderne i bachi)… del resto c’erano pure delle budleje, amate dalle farfalle e robaccia del genere… la temuta Ambrosia, che a me è simpaticissima perché quando me ne faccio tisane faccio finta che sia il cugino Assenzio…
era il Giardino ScaldaSole
http://www.inventati.org/noviglob/calendar/ScaldaSole.html
vi ci rimando perché a mio parere descrive un “punto di vista” particolare sull’ailanto, sugli ambienti dove può prosperare;
quello,
per me,
era diventato un preziosissimo ancorché minuscolo
angolo di demonizzato paradiso
Il lupo è una questione politica. Intervista a Luca Giunti su #AlpinismoMolotov, prima parte - Giap
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[…] pianta-mostro» ecc.), Alpinismo Molotov ha deciso di vederci chiaro e così è nato il lungo post Ailanto: l’albero maudit che porta il paradiso fra il cemento, segnalato qui su Giap nel giugno […]
Letz
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Volevo ringraziarvi per l’articolo che tengo sempre a mente da quando lo avete pubblicato. Qualche giorno fa, per l’ennesima volta, ci ho ripensato per averlo portato all’attenzione di un mio docente. È un concetto eretico, e se diffuso tra i botanici si rischia quasi la fucilazione istantanea. Tuttavia, ho trovato terreno fertile proprio nel responsabile della gestione di un’area protetta qui nel Lazio. Lui ci parlava di gambusie e Procambarus clarkii come specie altamente attrattive per i bambini (nelle attività didattiche e di sensibilizzazione li fanno pescare, maneggiare, osservare per poi rigettarli in palude) nonché per l’avifauna. A sua detta, dall’esplosione di Procambarus si ha avuto un netto aumento delle visite dei migratori, tra cui il Cavaliere d’Italia e altri limicoli, per via dell’aumento delle risorse trofiche.
Insomma, l’approccio è eretico, ma può passare, anche in ambienti piuttosto fondamentalisti.
Forze che si generano nell'attrito. Poesia, terzo paesaggio? Un dialogo con Francesco Terzago • Le parole e le cose²
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[…] noi potrebbe essere l’Ailanto (Alpinismomolotov ha dedicato a questa pianta uno splendido lavoro https://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2016/06/01/ailanto-albero-maudit-che-porta-il-paradiso-fra…), cioè una delle insegne che ombreggia il nostro […]