di Yamunin
Partenza e arrivo:
Grange di Valle Stretta – Névache (Francia)
Quota di partenza: 1765m
Quota massima: 3178m
Dislivello: 1450m
Tempo di salita: 6 h
È una giornata d’estate. Il fine settimana lavoro in una pizzeria in cui accolgo i clienti, riempio boccali di birra e imparo a portare ai tavoli tre piatti per volta, con relativa pizza. Il lavoro va avanti fino alle due di notte, poi c’è la passeggiata notturna de-faticante con i miei cani. Il resto dei giorni è fatta di studio, passeggiate, ricerca di un nuovo lavoro, scrittura, lettura dei classici del giallo. Bunker, Le Breton, Manchette soprattutto. Crimine e montagna nel Piccolo blues di Manchette.
Una sera il circolo è interrotto da una telefonata di Diserzione:
– Ciao.
– Ciao, disturbo?
– Figurati, come va?
– … senti, che ne diresti di andare in montagna?
– Quando?
– Pensavo di andare sabato e…
– Sabato lavoro, scusa t’ho interrotto.
– Beh, ecco, c’è la mia ragazza che vuole andare a fare una camminata sul Thabor, di notte.
– Ah.
– Eh sì, e prima di andare con lei vorrei fare un giro di ricognizione e ho pensato a te.
– Di notte e senza esserci mai andati.
– Sì, è un po’ folle, per questo prima di andarci con lei ho pensato che…
– Va bene, andiamo. Ma sabato non posso.
– Allora facciamo domenica.
– Aspè… domenica mattina ci sarà la festa di compleanno di mio nipote… va beh, posso dormire un po’ e recuperare le forze prima di partire. Se mi passi a prendere per le sei avrò già fatto la passeggiata con i cani e andremo su.
– E ce la farai?
– Boh, credo di sì.
– Chiedo a Mariano, forse potrà venire pure lui.
– Dai, un po’ di magia serve sempre.
Alcune sere dopo, nella periferia torinese, le ore in pizzeria trascorrono tranquille, con una parte del cervello impegnata a fare una check list delle cose da portare per la camminata: almeno una felpa, cappello, k-way, acqua, magliette di ricambio, una torcia, batterie. Poi…
La notte trascorre quasi insonne, dopo l’uscita con i cani e la doccia non riesco a dormire nonostante la stanchezza. L’eccitazione per la passeggiata in montagna non mi aiuta.
Ci saranno dei gufi? E i lupi? Incontreremo dei lupi?
Negli ultimi tempi hanno ucciso diversi lupi in Italia.
Il lupo continua a recitare la parte del cattivo suo malgrado.
Porterei con me i miei cani, lo farei volentieri ma potrebbero essere un problema. Di notte, in un posto in cui non sono mai stati. Forse sarebbero un problema per me, o meglio, una mia preoccupazione. E se incontrassimo i lupi? Ecco, appunto.
Puntuale arriva Mariano a prendermi con la sua due posti, non verrà con noi ma è felice di partecipare alla preparazione, ci farà compagnia fino al momento della partenza. Durante il tragitto verso la Valle Stretta, verso il “campo base”, parliamo di montagna, magia, cerchi nel grano. Riesco a strappargli una promessa: potrò partecipare al prossimo crop circle come osservatore. Potrò essere un alieno.
Raggiungiamo Diserzione nel suo rifugio in montagna, la cena è quasi pronta e, prima di sederci a tavola, diamo un’occhiata alla cartina, controlliamo l’equipaggiamento. In seguito facciamo una passeggiata preparatoria nel bosco vicino al rifugio. Giusto per avere un’idea di come potrà essere lassù.
Lo zaino di Diserzione è più pesante del mio, chiedo se è il caso di viaggiare così pesanti.
– Se arriveremo in cima saprai perché.
– Quante ore di marcia, secondo te?
– Direi almeno sette. Se riuscissimo ad arrivare in cima all’alba sarebbe bello.
– Partenza a mezzanotte.
– E sì.
– Allora è meglio se andate, dice Mariano.
Lui monta in macchina verso Torino. Noi ci avviamo verso la frontiera con la Francia.
– Qua non è controllata, vero?
– No, non dovrebbe. Raggiungere la Francia da qua è un casino. Fa freddo a queste altitudini anche in estate.
– La Francia ha sospeso Schenghen.
– Ma noi passiamo.
– I migranti no.
– Se non hanno messo le guardie passeremo.
– Vedremo…
– …
Il gabbiotto di frontiera è una capanna vuota, la sbarra alzata. Passiamo oltre. Sbagliamo strada, torniamo indietro, imbocchiamo quella che ci porta su. Parcheggiamo, chiudiamo l’auto e muoviamo i primi passi sulla strada sterrata.
Superiamo un secondo parcheggio e relativo gabbiotto dove avremmo dovuto comprare i ticket per la sosta. Fosse stato aperto, forse, chissà, ma la notte sai.
La notte disegna i bordi della stradina bianca che si inoltra fra le case del borgo, i nostri passi rimbalzano fra i muri di pietra. La strada diventa un sentiero delimitato ai lati da un muretto a secco alto poco meno di un metro, oltre c’è il bosco. Punto il fascio di luce fra gli alberi nella speranza di incrociare un paio di occhi di un qualunque animale. Un lupo, un gufo, un meta lupo.
– Secondo te ci sono i lupi?
– Sì certo.
– Bene.
– E se li incontriamo?
– Boh.
– Teniamo accese entrambe le torce.
– Ma sì.
Arrivano gocce di pioggia, leggere, nebulizzate, portate dal vento. Il cielo è coperto e c’è il rischio d’essere sorpresi da un temporale. Decidiamo di fermarci e vedere cosa succede.
– Tu sei per andare?
– Beh… sì. Tu?
– Anch’io.
– Ma è meglio aspettare.
– Aspettiamo.
Torniamo sui nostri passi per un centinaio di metri, ci sistemiamo sotto la sporgenza di un tetto. Il muro dietro le spalle, la valle che corre in su, il nostro sguardo fisso a seguirne la linea. Fumiamo un sigaretta, lentamente. Il vento si alza la pioggia continua a venire giù. Aspettiamo ancora, gocce nebulizzate sulla faccia. Il freddo delle pietre comincia a farsi sentire.
– Che dici, andiamo?
– Andiamo, al peggio torniamo giù.
Il vento si calma un po’, raggiungiamo il ponte sul fiume che viene giù dalla montagna. Non troviamo il sentiero una volta superato il ponte. Solo una pietra con una tacca bianca e rossa, poi nulla. Ci separiamo per coprire più terreno possibile. Diserzione cerca una rotta su una mappa sul suo smartphone, io mi metto a camminare spostando la luce della torcia di roccia in roccia. Il rombo del fiume è avvolgente, spengo la torcia e punto gli occhi nel cielo ora sgombro di nuvole. Milioni di puntini luminosi girano intorno e mi perdo nel suono.
– Ehi, dove sei?
– Qua.
– Ho trovato il sentiero. Di qua!
– Andiamo.
Passando di tacca in tacca, perdendo il sentiero e ritrovandolo andiamo su. Ho sottovalutato la stanchezza, ho già il fiatone e non ho ancora superato il limite dopo il quale si riesce a camminare davvero. Il sentiero è un mistero che tentiamo di risolvere metro dopo metro. Abbiamo sottovalutato che il buio in montagna è nero pesto.
Parliamo dei sentieri, dei misteri delle vie, della necessità delle tacche e dell’abuso che a volte se ne fa. Parliamo di sentieri tracciati e delle alternative. Alla libertà del fuori pista, che rischia però di rovinare il terreno. Seguiamo un sentiero o ne tracciamo un altro?
Attraversiamo più volte un torrente, le tacche vanno a zig zag, noi seguiamo fin quando possiamo poi tiriamo dritti, tanto dobbiamo andare su.
– Quindi noi adesso cosa siamo?
– Scusa?
– Abbiamo superato la frontiera con la Francia.
– Sì.
– E dicevamo che la Francia ha sospeso Schengen.
– Sì, giusto.
– Quindi siamo illegali?
– “Italiani all’estero”.
– Ah, beh.
– Cosa sono quelle luci laggiù?
– Escursionisti?
– Guarda come vanno. Corrono?
– O sono in bici?
– Boh, saranno lungo il torrente.
– Comunque è una cosa infame bloccare le persone a Ventimiglia.
– Di qua potrebbero passare?
– Beh sì, ma ci sono passaggi più facili a valle. E poi fa freddo.
– Quando penso che ci sono cazzoni che fanno polemica sui cellulari dei migranti… questa è gente che non è mai uscita di casa.
– Senza una mappa, in un posto che non conosci, come fai?
– Sta servendo a noi che tutto sommato sappiamo dove andare.
– Fasci di merda. Fermiamoci, sono marcio di sudore, non ce la faccio più.
– T’immagini spunta una guardia di frontiera?
– Bonsuar! Nojo vulevam, vulevan savuar…
Diserzione mi presta una delle sue magliette e una maglia con le maniche lunghe entrambe “tecniche”, ficco la mia roba nello zaino e riparto più leggero. Camminiamo al buio, o quasi, siamo in una piccolissima bolla di luce, se vogliamo usare un’immagine approssimativa. Ci muoviamo al buio, con una polla di luce davanti ai piedi. Ecco, così è meglio. Non sappiamo cosa c’è a cinque metri da noi. Burrone, scarpata, distesa di pietre. Boh. Non sappiamo se ci sono occhi che ci stanno seguendo. Tu non sai niente. Cammini al buio. Camminiamo verso un luogo che vedremo fra ore. Un luogo che non abbiamo mai visto, ma camminiamo con la certezza che è lì. Forse sarebbe meglio dire con la speranza che sia lì la fine del viaggio. Un viaggio nel buio. Scritta così pare una cosa paurosa, poi penso al viaggio fatto da migliaia di persone partite dalle coste libiche, o dalla Siria o da non so dove e comincio a sentire la paura dell’ignoto. Di quello che non sai, di ciò che speri, di ciò che immagini di poter incontrare. La paura è che lì può essere peggio. Ma come può essere peggio della guerra? Poi, dopo aver attraversato mari e deserti, ti ritrovi davanti a un muro, un filo spinato con le lame, una barriera fatta di ignoranza e paura alta centinaia di piedi e il freddo arriva. Come l’inverno. Che arriva. E allora cos’è meglio?
Alle nostre spalle riappare la fila di luci che viene in su veloce e sicura. Ma chi cazzo sono? Un grappolo di pensieri mi esplode in testa: e se sono guardie? O fasci? Che facciamo, corriamo? E ce la farò? Sono distrutto e questi pensieri non sono miei, sono della stanchezza. Che fesso. I partigiani ce la facevano a correre in montagna, certo che ne avevano di fegato. Quassù in montagna, con i fascisti, la fame e il freddo intorno.
Io rido di chi corre in montagna ma adesso vorrei saperlo fare.
– Oi, ma chi cazzo saranno?
– Fermiamoci va.
– Mangiamo?
– Mangiamo.
Diamo le spalle al vento, tiriamo su i cappucci e mastichiamo un panino a testa. Guardiamo il serpente di luci strisciare verso di noi.
– Corrono eh?
– Forse camminano solo velocemente, conoscono la strada di sicuro.
– Ho contato dieci luci.
Cominciamo a sentire le voci che arrivano dal gruppo. Saranno a una quarto d’ora da noi, siamo più lenti di loro. Ci raggiungono e noi ci facciamo da parte per farli passare. Un gruppo misto, ragazze e ragazzi sui vent’anni, ben equipaggiati e in forma. Sorrido dei miei pensieri.
Tirano su veloci e noi ci accodiamo, così non perderemo tempo a cercare il sentiero. Il terreno diventa via via più impegnativo, anche il gruppo di testa rallenta. Ci ricompattiamo e a un certo punto mi rendo conto che ci stiamo arrampicando. Ho le mani sulle rocce e non ricordo quando cazzo sia successo. Ho sottovalutato la stanchezza, decisamente. Mi perdo a fantasticare sulla guerra in montagna. Scene da Uomini e comandanti di Giulio Questi. Ci sarà stata qua la guerra? L’arrampicata mi da una scossa di adrenalina, mi sento sveglio. Ci fermiamo. Respiro, mi guardo intorno.
– Beh?
– Mi sa che abbiamo sbagliato.
– Ah.
– Di quanto?
Ci consultiamo con i ragazzi e… sì, siamo dove non dovremmo essere: su una parete che non dovremmo scalare. Diserzione controlla la mappa sul suo smartphone e…
– Abbiamo il sentiero alla nostra sinistra.
– Di quanto?
– Circa 50 metri. Dobbiamo scendere un po’ e poi attraversare.
Le mappe sono una cosa, la terra una cosa brutalmente diversa.
Mi arriva un’altra botta di adrenalina e sento la fatica svanire. Scendiamo lungo la strettoia in cui siamo bloccati e poi iniziamo ad arrampicarci verso sinistra cercando gli appigli giusti per non spostare rocce e farle scivolare rotolando giù insieme a loro. Non tanto per la caduta e l’eventuale dolore ma per non dover faticare ancora rifacendo la strada già fatta, che andare su sembra una condanna a questo punto della notte. Potremmo tornare indietro e basta e invece andiamo avanti. Per cosa? Orgoglio, per il gusto di camminare e salire? Per finire una cosa iniziata e vedere l’alba a 3000 metri?
Forse sono tutte queste cose insieme.
Siamo ormai sul sentiero e tiriamo un po’ il fiato, alla nostra destra il cielo comincia a schiarire lentamente. Siamo su una cresta, proseguiamo in fila indiana, mi rendo conto che sto rallentando la marcia e ringrazio mentalmente Diserzione che sta rallentando il ritmo dei suoi passi così che non resti indietro da solo.
La cima ci appare. O forse è l’anticima?
– Chissà che monte è quello?
– Quale?
– Quello laggiù.
– Boh, non ho idea…
– …
Diserzione snocciola ipotesi. Io scatto una foto. Che monte sarà? Eppure…
Abbiamo ancora un’ora prima che arrivi l’alba e un quesito da risolvere: che monte sarà? E come si raggiunge? E dove vorresti salire?
– Sul Monviso.
– Che ci vai a fare sul Monviso?
– È un 4000m.
– Quasi un 4000m. Ma è stronzo il Monviso: ti fai il mazzo per arrivare lassù ma non c’è niente da vedere.
– In che senso? Puoi vedere tutto, sei più in alto.
– Appunto, hai le altre montagne sotto di te, non vedi niente.
– Anche ora non stiamo vedendo molto.
Ridiamo.
Sotto di noi si stende un tappeto di nuvole dense spinte dal vento, una striscia di luce arancione si stende dietro le cime delle montagne nere. Comincia a far freddo.
– Quindi niente Monviso.
– C’è di meglio.
Un passo dopo l’altro e finalmente siamo quasi arrivati, vediamo l’immancabile croce e la chiesetta che sta quasi in cima. Dobbiamo arrivare lì. Ci siamo quasi, penso, e ho un primo giramento di testa. Il fiato corto e mi fermo. Mi appoggio al bastone e respiro piano. Riparto e dopo pochi metri la cosa si ripete. Porcoggiuda. Tanto giù non torno se prima non arrivo lassù. Una volta lì mi riposerò. Ho sonno, quest’alba ce la stiamo sudando. Un passo e un passo ancora. Diserzione mi precede di circa cento metri. O forse sono di meno. Ho la terra che si muove sotto i piedi e vedo la chiesa dondolare come fosse una giostra. In quante ore farò questi ultimi metri? Bolt ne percorre 100 in meno di 10 secondi. Ci metterò una vita.
I ragazzi si sono già sistemati, vedo le magliette colorate stese ad asciugare.
Raggiungo la chiesetta, Diserzione è accovacciato, mi dà le spalle.
Credevo di non farcela, dico.
Lui si gira verso di me e sorridendo tira fuori dallo zaino una caffettiera e due brioches.
– Breakfast on mount Thabor! Che ne dici?
– Sorrido di gratitudine e penso al peso in più che si è accollato per portare su il necessario per la colazione.
Accendiamo il fuoco del fornellino e ci godiamo l’alba.
– Guarda come si vede bene adesso. Chissà che monte è?
Bevo il mio caffè, guardo il monte e mi addormento appoggiato al muro della chiesetta. Ho superato un limite, non so quale ma l’ho superato.
Mi sveglio, non so se sono passati dieci o venti minuti. Diserzione non è nei dintorni. Mi ha avvolto in una coperta termica leggerissima color argento che riflette la luce del sole. Le stesse coperte con cui si avvolgono i migranti. Fino al 1947 era la vetta a segnare il confine tra Italia e Francia. Noi siamo oltre la frontiera, a Ventimiglia hanno bloccato delle persone in una prigione a cielo aperto. Davanti hanno una barriera fatta di leggi, filo spinato e polizia.
Siamo sul monte Thabor, ho letto che esiste un altro monte Thabor ed è in Galilea, Israele. Quello è un monte alto poche centinaia di metri ed è il monte dove si narra avvenne la trasfigurazione di Gesù. Fu a lungo un monte importante anche a livello strategico, segnava il confine, la frontiera fra i terreni di tre tribù.
Un nome, due monti, diversi confini, frontiere, barriere.
Soltanto un uomo, soltanto una persona.
Sotto ogni corona c’è
Soltanto un uomo, soltanto una persona.
Dobbiamo andare, rischiamo di fare tardi.
Diserzione arriva, lui ha raggiunto la vetta, 3178 m, io mi sono fermato a 3169 m.
– Vuoi arrivare in vetta?
– Non me ne può fregar di meno, adesso.
– Allora andiamo…
– Andiamo.
Di solito è la discesa la parte più difficile e anche questa volta sarà così. La terra in cima richiama alla mente le immagini inviate dalle sonde inviate su Marte. L’aria è limpida, il sole picchia di già. Piccoli sbuffi di polvere rossa si alzano a ogni passo. Si torna giù con la fatica nelle gambe ma in più questa volta c’è la gioia della scoperta, del “guarda da dove siamo passati”.
Vediamo il sentiero finalmente e vediamo tutte le nostre deviazioni e i rischi che ci siamo presi.
Per cosa? Perché andare lì, su quella vetta, su quella montagna? Per superare un limite, o per sentire che quel limite era lì ma perché ce lo stavamo portando noi. Superare limiti, frontiere, muri. Superarli e incontrare l’altro da noi. Perché l’inverno sta arrivando. Sta arrivando per davvero.
Una settimana dopo:
– Ciao.
– Ciao.
– Dimmi.
– Ci dobbiamo tornare, ci dobbiamo tornare…
– Dove? Sul Thabor?
– Sì, ci dobbiamo tornare.
– Che ti ci sei dimenticato?
– No… niente.
– Ah…
– Senti, ho capito che monte era quello che non sapevamo quale fosse.
– E?
– Indovina?
– Non so.
– Il Rocciamelone!
FINE.
[aprile/maggio 2016]
Fotografie di Yamunin e Diserzione.