L’anno 2015 risulta essere stato il più caldo a livello globale da almeno un secolo e mezzo, i ghiacciai sulle Alpi hanno subito nuovi arretramenti e paiono confermarsi le nefaste previsioni che danno oramai la loro presenza con i decenni contati. Dopo aver in tempo reale commentato le condizioni climatiche e meteorologiche anomale dell’inverno appena passato nel back office di Alpinismo Molotov e prima che il suo ricordo sfumi e si faccia vago, abbiamo chiesto a Luca Bonardi – responsabile del Comitato scientifico del Servizio Glaciologico Lombardo e geografo presso l’Università degli Studi di Milano – di rispondere ad alcune domande, nel tentativo di avere una lettura informata e che non fosse legata alle sole percezioni individuali e alle dinamiche meteorologiche locali.
Prima di lasciarvi alla lettura dell’intervista segnaliamo la pagina web relativa alla prima puntata della trasmissione televisiva Scalamercalli, ricca di link a banche dati e rapporti sul clima globale, sui ghiacciai alpini e nel mondo.
Ringraziamo Luca Bonardi per la disponibilità.
Buona lettura.
L’inverno è da poco finito, un inverno in cui si sono registrate pochissime precipitazioni, temperature medie piuttosto alte, zero termico stabilmente a quote elevate per la stagione e poca neve. Anomalo è un inverno anomalo, ci puoi descrivere da un punto di vista più tecnico e informato gli aspetti atipici?
Prolungati periodi di temperature sopra la media hanno rappresentato la norma negli ultimi vent’anni. Vero è che la distanza dalla media nel corso dell’ultimo inverno, e per l’ennesima volta, è stata molto ampia: a Milano di quasi due gradi e mezzo oltre i valori medi degli ultimi cento anni, secondo un andamento peraltro in linea con gli inverni del 2014 e del 2015. Ugualmente, inverni molto secchi, seppur non frequentissimi non rappresentano un’eccezione in area padano-alpina. Le stazioni dell’area milanese hanno fatto registrare apporti piovosi debolissimi nel bimestre dicembre-gennaio, attorno ai 20 mm, con un parziale recupero nel mese di febbraio. Va ricordato però che il parametro precipitazioni è soggetto a una forte variabilità regionale e locale (in parte della Liguria, ad esempio, l’inverno è stato decisamente umido).
Ciò che principalmente definisce l’anomalia dell’inverno 2015-16 è piuttosto la singolare congiunzione di queste due circostanze. E l’ovvia conseguenza di precipitazioni nevose scarsissime, e assenti in pianura.
Di norma, in Italia settentrionale gli inverni siccitosi si accompagnano a temperature piuttosto rigide o, per contro, gli inverni tiepidi a ricorrenti piogge. Ciò in rapporto alla provenienza delle correnti atmosferiche prevalenti, in un caso e nell’altro. Inverni caldi e al contempo secchi sono davvero un’evenienza molto rara. Alla scala regionale il fenomeno trova spiegazione nel costante dominio delle correnti mediterranee, di quelle secche come di quelle, in questo caso più rare, umide. I grandi assenti dell’inverno 2016 sono stati due: l’ovest, cioé l’Atlantico, con le sue masse d’aria perturbate, e il Nord, con i suoi venti secchi e gelidi.
A questa si aggiunge una seconda atipicità: il trimestre invernale è stato preceduto da una stagione autunnale anch’essa prevalentemente calda e secca, al punto che non si è avvertita una reale transizione da una stagione all’altra. In particolare, il mese di novembre ha fatto segnare temperature molte alte (peraltro anche a livello mondiale di quasi un grado oltre la media), con picchi di massima diurni elevatissimi, e precipitazioni, in Italia settentrionale, pari a meno di un quarto della media. Un’analisi più completa dovrebbe però contemplare anche quanto accaduto, in senso opposto, su alcune regioni meridionali, colpite da intense piogge che hanno innescato i consueti fenomeni alluvionali e di dissesto.
I dati delle temperature medie globali segnalano per il 2015 un nuovo record, confermando il trend della crescita delle temperature medie e quindi il fenomeno del global warming. Come possiamo leggere in maniera corretta la relazione tra i fenomeni globali del clima e quelli locali? Rispetto all’anomalia della stagione invernale che si va concludendo, che correlazione si possono avanzare con i fenomeni globali?
Accanto a quello generale dell’anno più caldo, e di parecchio più caldo (quasi un grado sopra la media del XX secolo), il 2015 ha fatto segnare molti altri record climatici a livello mondiale. Impossibile elencarli tutti, ma può essere interessante ricordare che ben dieci mesi dello scorso anno sono risultati i più caldi di sempre. Anche in situazioni così parossistiche è però bene distinguere tra gli andamenti a livello globale e le infinite declinazioni locali, non sempre necessariamente in linea. Dico questo perché troppo spesso ci è toccato di leggere o ascoltare, anche sui principali organi di (dis-)informazione, voci che annunciavano la fine del global warming dopo qualche giorno sottozero o dopo una (e una sola) stagione più nevosa del solito. Nel nostro caso, comunque, l’andamento termico dell’inverno è stato, come abbiamo detto, pienamente in linea con le tendenze globali al riscaldamento. Più complesso il discorso sulle precipitazioni, i trend delle quali, negli scenari previsti per l’era del global warming, appaiono fortemente regionalizzati, coerentemente con la sensibile, ma normale variabilità geografica di questo parametro climatico. A fronte di zone che vedranno verosimilmente aumentare i loro apporti piovosi ve ne saranno altre che li vedranno ridursi, seppure in un contesto di tendenziale crescita e di aumento dei fenomeni di precipitazione intensa alla scala globale. Tutto ciò va poi ridefinito a livello stagionale, rendendo ancora più complessa l’analisi. In ogni caso, per l’Italia gli episodi di prolungata siccità, soprattutto però estiva, sono previsti in aumento, più marcatamente nelle regioni centro-meridionali mentre per il nord si ipotizzano solo modeste riduzioni delle precipitazioni. In questo senso l’inverno 2016 appare come l’estremizzazione di un segnale comunque previsto. Una più attenta analisi dei suoi aspetti deve comunque tenere conto anche dell’acuto episodio di El Niño attualmente in corso, capace di sensibili radicalizzazioni delle tendenze in atto.
In definitiva, per comprendere appieno l’inverno climatico del 2016 dobbiamo fare riferimento a tre diverse dominanti, tra loro variamente collegate: il Mediterraneo, il Nino, il cambiamento climatico globale.
Passiamo alla situazione di sofferenza dei ghiacciai alpini, in fase di ritiro da decenni oramai. Periodicamente e al contempo con discontinuità sulla stampa si possono leggere notizie dal tono allarmistico su alcuni ghiacciai in particolare, che sia la Marmolada, i ghiaccia del gruppo del Bianco oppure quelli adamellini. Puoi brevemente – anche se immaginiamo che una risposta sintetica non sia semplice da avanzare – presentarci la situazione dello stato dei ghiaccia nell’arco alpino?
In questo caso non è così difficile essere sintetici. Lo stato del glacialismo alpino è semplicemente disastroso e, con ogni probabilità, ancor più lo apparirà al termine della prossima estate, visti i modestissimi accumuli nevosi presenti sulle superfici glaciali. Può aiutare a comprendere la situazione il sapere che già solo con i trend climatici in atto diversi settori montuosi si troveranno a breve, nell’arco di un paio di decenni o poco più, interamente deglacializzati. Nelle Alpi non vi sono eccezioni alla tendenza in atto, anche se è ovvio che il fenomeno è meno percepibile nei settori più elevati. Poi, qua e là vanno pure rilevate alcune particolarità, con processi più accelerati o, per contro, più lenti, in ragione di specificità morfologiche o della particolare collocazione geografica di alcuni rilievi che ospitano le masse glaciali. In generale si osservano alcuni principali fenomeni: forti perdite di spessore (di frequente sin oltre i 3200-3300 metri di quota), e conseguenti, marcatissimi ritiri frontali; comparsa di laghi proglaciali, a contatto o nei pressi delle fronti; forte aumento della copertura detritica sulla superficie dei ghiacciai; suddivisione in più unità della medesima massa glaciale; estinzione dei ghiacciai di più piccole dimensioni.
Il ritiro delle masse glaciali comporta anche un conseguente denudamento dei depositi morenici e di enormi quantità di accumuli di detrito in generale. Sicuramente ci sono conseguenze dal punto di vista alpinistico, ma anche di dissesto idrologico, frane e colate: quali conseguenze si presenteranno (o già si presentano) sia per quanto l’approccio alpinistico che in generale?
Da un punto di vista alpinistico, o comunque della frequentazione dell’alta quota alpina, le conseguenze sono principalmente di due tipi. Una prima in ordine all’aumento del rischio derivante dalla deglaciazione dei versanti – sia in termini di scomparsa di tratti glacializzati, sia per la fusione del ghiaccio interstiziale durante periodi di temperature estive molto elevate – con la conseguente attivazione di fenomeni di crollo più o meno consistenti. In rapporto a ciò, la precauzionale chiusura estiva di diverse, note vie alpinistiche rappresenta un fenomeno ormai molto frequente (vedi nel 2015 li blocchi attuati sulla normale al Bianco, lato francese, e sulla via italiana al Cervino). Una seconda, derivante dal mutamento paesaggistico prodotto dalla deglaciazione, coinvolge gli aspetti tecnici e, più in generale, l’attrattività della montagna alpina. Le vie di ghiaccio non sono certo scomparse, ma sono sempre meno e sempre meno percorribili, almeno come tali, anche in ragione della fusione sempre più precoce.
Poi andrebbe affrontato anche il problema del permafrost (il suolo gelato) soggetto all’attacco del riscaldamento climatico e dunque anch’esso in riduzione. Ma su questo terreno il discorso si fa molto più ampio; le situazioni di rischio giungono infatti a includere aree della montagna alpina abitate permanentemente, infrastrutture di comunicazione, ecc. Se da un lato il fenomeno della fusione del permafrost non assume qui le dimensioni clamorose che si osservano alle alte latitudini, dall’altro va sempre tenuto conto che le Alpi costituiscono una catena montuosa fortemente antropizzata.
In ultimo, ti poniamo una domanda meno tecnica: le preoccupazioni legate alle conseguenze di questi cambiamenti climatici sullo stato dei ghiaccia vengono spesso incentrate su questioni marginali, come ad esempio il futuro dei comprensori sciistici, quando è evidente che la posta in gioco è bel differente. Per intenderci, immaginare le Alpi senza i ghiacciai è straniante, ma questo è l’aspetto meno drammatico. Secondo il tuo parere come è possibile utilizzare nel modo più efficace dal punto di vista comunicativo/divulgativo questo tipo di scenario?
Come ripeto spesso, per comprendere il probabile futuro paesaggistico di estese porzioni delle Alpi può essere sufficiente guardare oggi un poco più a Sud, agli Appennini, o alle altre catene montuose del Mediterraneo, deglacializzate o ospitanti un glacialismo ormai ridottissimo. Questo semplice esercizio fa capire quali conseguenze possa portare con sé la deglaciazione, e dunque il cambiamento climatico, alla scala regionale: in termini ambientali, socio-economici, turistici…
Per come è venuta costruendosi dal Settecento a oggi, l’immagine delle Alpi è strettamente legata ai ghiacciai: le conseguenze della probabilissima, imminente rottura di questo binomio, sinora ritenuto inscindibile, restano tutte da misurare.
Mr Mill
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L’incognita nel riscaldamento globale è oramai solo nel suo andamento; segnalo questo articolo di Gwynne Dyer perché incentrato sul mutamento “non lineare” dei sistemi complessi, come è quello del clima. Si sa, anche quando diamo per assodato un cambiamento che comporti gravi danni e nefaste conseguenze lo immaginiamo sempre lontano da noi, spazialmente e/o temporalmente. E invece uno scarto improvviso potrebbe sorprendere anche la nostra immaginazione…
Radio Onda d'Urto » AMBIENTE: A MARZO TEMPERATURE RECORD DI CALDO
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