di Mr Mill
Mancava un canto del gallo, prima che comparisse – sul muro a ridosso del sagrato in selciato della chiesa – la bianca scritta in calce; poche ore dopo che, come in preda a pazzia, pane e farina furono distribuiti fra le famiglie del paese direttamente dalle mani del fornaio, con gli occhi allucinati e le mani tremanti di chi ha visto la morte in volto.
Nel villaggio e nella campagna attorno tutto era segnato dallo strato di ghiaccio che aveva ricoperto case e vicoli, piante e prati; per giorni nei rivi e nel torrente l’acqua aveva fermato la sua corsa, nessuno ricordava che il torrente si fosse mai ghiacciato. Il vino era gelato nelle botti, ma questa era una preoccupazione per pochi. La farina non era gelata, ma oramai le scorte nelle case di quei contadini di montagna erano prossime alla fine. Dopo i giorni di bufera ogni cosa familiare aveva mutato aspetto, come annunciando la venuta ormai prossima dell’Apocalisse. A raccontarla tutta, in quel villaggio, dal grande freddo a quel canto del gallo, mai erano successi fatti così sconvolgenti, misteriosi e – di grazia – portatori di una mìgola di giustizia.
Le mie gambe da tempo non si affrettavano nei passi, al pari mi conducevano attraverso pianure e colli, ora di valle in valle, di paese in villaggio; se era una fuga, la mia era una fuga stanca. Un lento incedere verso nord, senza una carta a guidare il cammino, solamente la vista della sempre più prossima barriera di roccia delle Alpi. Svernare ai suoi piedi, ripararsi in qualche ricovero per viandanti nei mesi più freddi, spingersi fin là dove l’inverno avrebbe permesso, per trovarsi il più vicino possibile a dove i miei occhi avrebbero potuto mirare la vastità delle terre che si stendono oltre i monti, a primavera. Il freddo quell’anno stentava ad arrivare, così il mio cammino anziché fermarsi ai piedi delle montagne mi aveva di giorno in giorno portato fino alle ginocchia di quel gigante di roccia, attraversando via via villaggi sempre più distanti tra loro e incrociandovi pochi volti che scansavano lo sguardo e affrettavano il passo nell’incontro di un forestiero.
Il gelo mi colse così in una stretta valle, nel cui fondo scorrevano le acque rumorose di un torrente: al primo soffio gelido che mi venne incontro portai i lembi del pastrano a coprirmi la testa, alzai lo sguardo e vidi il cielo farsi bianco mentre alcuni uccelli lo attraversavano veloci in volo. Affrettai il cammino, voltandomi appena con lo sguardo a cercare la vista del castello, poggiato sulla balza rocciosa, che sigillava la valletta che stavo percorrendo, là dove come la biforcazione di una pianta, il ramo si stacca dal tronco, ma non mi fermai e non invertii il cammino. Il presagio di un evento fuori dall’ordinario mi attraversava con un brivido le membra, come se quel primo gelido soffio annunciasse, come un colpo alla porta l’inverno, che fino ai primi giorni dell’Anno Domini 1709 aveva tardato ad arrivare e ora voleva d’impeto abbattere quella porta.
Passate alcune ore sentivo il volto come ferito dalle gelide sferzate del vento, il biancore mi circondava e la testa era colma del fragore della bufera. Più che soffice neve, il mio corpo, nel procedere, infrangeva una barriera di minuscoli frammenti di ghiaccio, a fatica riuscivo oramai a seguire il viottolo ridotto a esile traccia sbiadita. Il sacco che portavo a spalla, contenente le mie poche robe, irrigidito; le mani, strette a pugno, doloranti. Non un riparo, nemmeno una casa. In poche ore mi vedevo perso. Poi, oramai arreso allo sconforto e al freddo, la vista di un ammasso scuro fra il biancore, che assumeva, avvicinandosi, i tratti di case addossate l’una all’altra. A quella vista mi rianimai e, anche se i piedi scivolavano con difficoltà ogni volta che toccavano il terreno, mossi passi più svelti quando, ad un tratto, mi ghiacciai all’udire alcuni sordi tonfi. La bufera non produce tonfi: i corvi che cadono a peso morto dal cielo sì. Una visione spettrale, le penne nere ricoperte di un sottile strato di ghiaccio, la loro rigidità muta in piccole fosse nello strato di neve.
Un urlo mi si trattenne in gola, ora correvo verso le case.
D’infilata in un pertugio fra le case, oramai buio attorno, con la mano mi poggiai per sostenermi ad un muro, sentendo sotto alle dita il ghiaccio che aveva ricoperto i sassi come un velo. Avanzai quindi piano, fino a un androne dove intravidi in fondo un baluginio. Mi accostai così a una porta di pesanti assi di legno, picchiai forte e attesi una risposta. Dopo pochi attimi la porta s’aprì a sufficienza per vedere la sagoma di un uomo che forte disse: «Chi èlo?». A un viandante nel bel mezzo di una notte di bufera la porta si apre, seppur forestiero. Mi affrettai a entrare dove, perlopiù nell’oscurità, intravidi altre sagome umane: alcuni uomini, altrettante donne e quattro o cinque fanciulli. L’uomo che aveva dischiuso l’uscio, senza aggiungere altre parole una volta riconosciuto nel forestiero un viandante, mi indicò un paglione e lì sedetti, a pochi passi da una vacca magra che occupava gran parte della piccola stalla. Non proferii parola, negli occhi ancora impressa l’immagine dei corvi caduti morti dal cielo, i muscoli che piano si distendono, una mano che mi porge una tazza d’acqua. Dopo pochi minuti mi assopii, la testa che mi doleva, come una eco lontana sentii la voce di una vecchia riprendere un racconto che il mio arrivo doveva avere interrotto, ma solo dopo essersi rivolta a uno degli uomini dicendogli: «Hèra bé chèla pórta, che mé pìca i déch e pò i dénoch dal frètt».
Fiammelle azzurrine fra le tombe del camposanto, contadini che rientrando dai campi sul far della sera le vedono muoversi al livello del terreno, sentendo nel mentre il rumore dello sferragliar di catene. Un corteo notturno di uomini e donne, movimenti lenti e incespicati, piano scendono dai margini del villaggio lungo la stradella, imbracciando torce. Il villaggio deserto, ogni uscio è sbarrato, tutti dormono. Da una sola porta un chiarore, solo il fornaio ancora sveglio, proprio lì dove la stradella fa ingresso nel paese. Prima il rumore, ancora di catene; poi un chiarore, infine le ombre che si allungano fin dentro al forno. «Chi siete? Cosa volete?» l’uomo bianco come la farina del suo pane, affacciato alla porta, fermi davanti a lui uomini e donne gli rivolgono sguardi spenti. Di nuovo: «Chi siete? Cosa volete?». Dalla massa immobile che gli sta davanti si stacca una figura, fa alcuni passi verso di lui. Un naso enorme, deformato e lungo una spanna. Due occhi bui, sprofondati dentro orbite tonde. La pelle dai segni profondi. «Siam venuti perché abbiamo fame!» la voce come uscisse da un buco, a un braccio di distanza dal fornaio. Sempre più bianco in volto, bloccato dalla paura, poi la sua mano si muove da sola e corre ad afferrare la torcia dell’uomo che gli sta di fronte e che gli ha parlato. Ora i suoi occhi guardano la propria mano e son pieni di terrore: non una torcia ma un braccio umano è quello che tiene stretto in pugno. «Dacci pane…», mentre alla spalle dell’uomo con un braccio solo si alza piano e via più forte una risata che ghiaccia l’anima.
«Buuuh!! Pò a i morch i gà fàm!» concluse la vecchia. Mi ridestai di soprassalto dal dormiveglia, prima l’urlo di paura dei fanciulli e a seguire le risate di tutti che rimbombano nella piccola stalla. Mi sentivo febbricitante, con un gesto chiesi un altro po’ d’acqua e dopo un lungo sorso, fra brividi e tremori, mi addormentai profondamente in un sonno privo di sogni e di voci.
I capi famiglia si erano radunati, appena passato il freddo più brutto, impauriti e confusi per quell’inverno cane come non s’era mai visto. Tutto era finito in una sfuriata in cui ci si incolpava a vicenda, giacché a comandare era oramai la fame e non poteva che andar peggio nei giorni e nei mesi a seguire.
«L’unica cosa che si è deciso di fare è di chiedere che non ci vengano anche a riscuotere la decima, ma anche se i Signori capiranno che da niente non si può tirar fuori una parte, non so cosa mangeremo… farina non ce n’è più, le galline non fanno uova neanche a far novena, la terra è dura che non ci crescerà nulla questa stagione che viene. Tu sei forestiero, come sei arrivato te ne andrai e magari in altri posti qualcosa da mangiare lo recupererai, piutost che nient l’è mei piutost, ma noi da qui non ci si muove e come vedi l’è finit anc ‘l piutost…».
Il forestiero ascoltava in silenzio, dopo essere scampato a quella bufera che lo aveva colto sul suo cammino questa gente lo aveva ospitato e curato dalla tremenda febbre che lo aveva lasciato incosciente più giorni consecutivi. Poi disse, quasi tra sé: «Qualcuno la farina ancora la tiene, il pane però lo sforna solo per i Signori…».
Giòan lo guardò storto, rimuginò le sue parole, poi mantenendo lo stesso tono basso disse: «Mica possiamo metterci a rubare, o tagliar le teste col pòdet che se no non arriviamo in tempo a morir di fame qui. Succedesse che il pane ce lo danno senza chiederlo, ma te pàr pùhibil?».
A quel punto il forestiero si fermò di scatto, allungò la mano e afferrò per il braccio Giòan: «Possiamo provarci, senza far male a nessuno. Convinci gli altri a fidarsi, nessuno offenderà nessuno. Se ce la fai a farti dar spago, dì che ci incontreremo domani sera sotto al camposanto, prima che suoni il vespro…». Giòan lo fermò con un gesto della mano, gli puntò gli occhi negli occhi: «Mé me fide, ma hé te me ciàpet per ol nah, te taglie vià ol cò».
Si trovarono che era scuro, Giòan non aveva convinto tutti i capifamiglia ma tra quelli che si erano fidati e i loro figli erano un bel gruppetto. Disse che si sarebbero visti dopo due giorni, allo stesso posto e alla stessa ora, chiedendo ad ognuno di portare da casa una manciata di tizzoni spenti ma ben bruciati, un bastone e un pezzo di straccio. I convenuti lo guardavano con occhi accesi, lui si ricordò la promessa fattagli da Giòan: «hé te me ciàpet per ol nah, te taglie vià ol cò».
Non infilava le braccia fino al fondo del suo sacco da molto tempo, da qualche anno. Ricordava chiaramente quando l’aveva riempita l’ultima volta, in fuga da un assedio, da una guerra in cui i Signori, mentre mettevano al lavoro le proprie diplomazie, condannavano la carne del popolo, al macello o allo strazio. Vi infilò la mano e tastò quel che cercava, insieme a un altro paio di cose che sarebbero tornate utili, era sempre stato lì, ora era tempo di servirsene nuovamente.
C’erano tutti. Era pronto a dirigere la grande messa in scena. Ignari di quel che sarebbe successo i quattordici uomini seguirono le istruzioni impartite dal forestiero: strofinarsi viso, mani e braccia con i tizzoni spenti che aveva chiesto ognuno portasse. Dopo alcuni minuti i quattordici si guardavano con le facce annerite, sempre più confusi per quel che stavano per andare a compiere. Ora, che ognuno prendesse il bastone che aveva con sé, gli avvolgesse lo straccio che aveva portato. Il forestiero passò in rassegna i quattordici, Giòan aveva come gli altri seguito le sue indicazioni, fu il primo a fare un passo avanti. «E adéss?» disse impaziente.
«Ora cammineremo, lenti e come se avessimo bevuto molto vino da qui all’ingresso del villaggio, prima con questo olio bagnerò lo straccio sui vostri bastoni e gli daremo fuoco. Davanti a voi camminerò io, trascinerò legato al piede questo pezzo di catena, voi cercate di camminare e muovermi come farò io. Tenete le braccia larghe o alte davanti al corpo. Non dovrete mai parlare, non dovrete emettere suono dalla bocca se non mettervi a ridere forte quando lo farò io, qualcuno si prenderà un grande spavento. Finito di ridere ognuno si dilegui nel bosco, si faccia un giro, si pulisca la faccia nella neve e torni a casa senza farsi vedere».
«Perché tu non ti sporchi la faccia?» chiese Giòan.
A quel punto il forestiero infilò l’intero braccio nel sacco che aveva con sé, lentamente estrasse qualcosa che nessuno capì cosa fosse, fino a quando lui sollevò la mano davanti alla faccia e con un gesto deciso si infilò una maschera: un naso lungo e ricurvo, delle rughe profonde segnate nel cuoio. Mentre tutti lo guardavano in silenzio lui portò a termine la sua vestizione, sollevandosi sopra la testa il lembo del pastrano e, così facendo, coprendosi ad egual modo il collo e il mento. Nella mente pensava: «Bentornato Scaramouche!».
Non attese oltre per mettersi alla testa di quel piccolo esercito armato solamente di torce, si avviò così barcollante lungo la stradella, trascinando con il piede la catena che segnava la cadenza delle trenta gambe. Si voltò un attimo e sì, facevano spavento. Giunti a poca distanza dall’ingresso del villaggio se non tutti i quattordici, buona parte di loro aveva capito verso cosa, verso chi, stavano marciando. Il forno, di proprietà dei Signori del paese, era proprio lì, a lavorarci il fornaio e un paio di garzoni. All’udire lo sferragliare della catena uno dei garzoni si portò alla porta, vide giungere questa congrega e subito gli tornarono alla mente alcuni dei racconti che tante volte si era sentito raccontare, senza pensarci oltre si dileguò. Il secondo garzone lo vide sfilarsi dalla porta, sentì i suoi zoccoli battere sul selciato, quindi andò alla porta e si trovò oramai di fronte le facce scure del corteo, con occhi bianchi che gli sembravano grandi come nespole. Dalla sua gola uscì solo uno stridulo verso, abbastanza forte perché venisse udito dal fornaio. Questo si voltò, vide il garzone fermo sulla porta e all’esterno un bagliore di fiamma. Non fece in tempo a dire Ché sucedél? Che si trovò a una spanna dal muso un naso lungo tre volte il suo, al centro di una faccia con la pelle che pareva cuoio: «Succede che anche i morti hanno fame, pensa te i vivi». Il fornaio rimase fermo sul posto, sembrava non respirare. «Domani mattina il pane e la farina la distribuisci per il paese, prima che i tuoi Signori abbiano da ridire, altrimenti torneremo a cercarti qui, o se non qui verremo ogni notte a tirarti le gambe nel letto». Come salisse dal fondo di una caverna si udì allora una risata, a cui si unirono le risate di tutto quel corteo, salire salire per poi tacciarsi di secco e lasciare quel povero uomo impalato lì dove aveva pronunciato l’ultima sua parola.
Non cambiò le sorti di questa gente quel tetro corteo, rimarrà un popolo affamato ma per quel giorno il loro mondo ol hé rebaltàd e, al canto del gallo, pane e farina furono distribuiti a tutti. Fra loro nessuno sapeva né scrivere né leggere, ma un messaggio ai Signori di quelle terre era sacrosanto lasciarlo, a suggello, prima di riprendere la strada verso nord:
HÉ I MÓRCH I GÀ FÀM, PENSÉ CHI CHE IÈ MÌA MÓRCH
Dedicato a Gina e Cucco,
con gratitudine.