Abbiamo ricevuto e pubblichiamo questo testo inviatoci da un compagno friulano, in cui racconta il percorso che l’ha portato alla scoperta del Rifugio Casera Ditta. Situata in val Mesath questa casera fu un punto d’appoggio durante la Resistenza, oggi è un rifugio lontano dai sentieri più battuti dagli escursionisti, un luogo in cui il gestore Adriano negli ultimi anni ha organizzato incontri sulla Resistenza di ieri e quella di oggi. Fra pochi giorni vi si terrà una delle giornate di festeggiamento per i dieci anni di pubblicazione di Nunatak – Rivista di storie, culture, lotte della montagna, da sempre impegnata nel «dare voce alle esperienze di chi in montagna, oggi come ieri, vuole vivere e lottare, affinché una vita meno alienata e meno contaminata possa, giorno dopo giorno, scendere sempre più a valle».
Per chi non conoscesse la rivista Nunatak, qui può scaricare la maggior parte dei numeri pubblicati a partire dal 2006. Per informazioni e abbonamenti potete scrivere a nunatak@autistici.org.
Buona lettura.
La val Mesath a quasi tutti e tutte non dirà nulla. Quel ti-acca finale, probabilmente, ve la farebbe collocare molto lontano da dove essa, silente, selvaggia ed immobile, si nasconde ai più. Lo sciacallaggio della toponomastica ha codificato attraverso una zeta (o col classico suffisso -zzo) quel suono così familiare per gli ertani. Ci troviamo al limite occidentale della mia terra, il Friûl. A due passi da quel monumento ignobile che è la diga del Vajont, nemesi della didattica nel rapporto uomo-natura. Questa valle, all’escursionista superficiale o di passaggio, può sembrare un tempio della “wilderness” (gabbia linguistico-colonialista per indicare ipocritamente il non antropizzabile, il poco – o diversamente – redditizio). Ai “foresti” quei boschi posson sembrar verdi poemi che, al contrario, addolorano quei pochi che ne custodiscono la memoria. Qui era tutto un oceano di prati, miniere di fieno, laboratori alchemici dei carbonai, piste delle musse (le slitte utilizzate per la fienagione o per trasportar fascine). Oggi essa appare quasi invisa all’uomo, ma i ruderi delle malghe e delle casere son ancora lì. Giacigli per muschi. Frammenti architettonici donati al materico. Tra quelle tracce di condivisione leale fra uomo e territorio resiste una casera in particolare.
Ricovero di caccia prima. Poi base partigiana. Non vi trovarono rifugio solo giovani del luogo o del vicino Cadore, ma giunsero perfino dei bolognesi che ripiegarono nell’aspro Nordest assecondando una visione tattica che dava gli Appennini per “persi” o, per lo meno, poco difendibili. Tra questi, tanti furono i compagni e le compagne che avevano già imbracciato la libertà, attraverso la canna del fucile, nella rivoluzione spagnola e che traslarono i loro aneliti in quest’angolo sperduto. Altro fronte, stessi ideali. L’agglutinamento delle forze e la morfologia del territorio trasformò quella capanna in un punto fermo ove, nell’ottobre del 1943, grazie al rimpolpamento delle forze, prese vita il distaccamento Tino Ferdiani, come ricorda la targa apposta sul muro esterno. Tante le gesta eroiche, dai rapimenti di generali nazisti alle classiche azioni di guerriglia, fino a che il “covo dei Banditen” fu dato alle fiamme dai nazifascisti. Solo l’ostinazione del discendente ertano di quei cacciatori le seppe dare una nuova vita fino a farla diventare un rifugio.
Dopo diverse gestioni, casera Ditta fu testimone d’un nuovo arrivo. Della migrazione, ostinata e contraria, di Adriano. Che in mezzo a quel nulla, che è tutto, ha scelto di viverci. Trecentosessantacinque giorni l’anno. Anche quando la turbina va in letargo, Anche quando l’acqua s’ha da conquistare a suon di ramponi! Lo spirito del Mesath ormai si è impadronito di un rifugista rifugiato che ha affondato le radici tra i sassi. L’acqua che scorre burbera a valle gli ribollisce tra le vene, lo sguardo s’è fatto rapace, la schiena s’è piegata a nuovi doveri, l’animo s’è rafforzato con cortecce di Cjarpins e Faiârs (carpini e faggi – in marilenghe). L’umiltà infinita, celata dalle sue ringhiate d’ordinanza, s’è fatta maestra di vita, carpendo quelle parole di montagna, striminzite e rarefatte che racchiudono pagine di saggezza secolare. Poggiano solidi i piedi di Adriano, questa è la sua terra, ancor di più perché l’ha scelta. Perché essa lo ha accettato come lui ne ha accettato le asprezze. Che educano alla necessità, all’essenziale, rendendo ancor più preziose quelle minuscole inezie che trasformano il vivere in gemma preziosa. Ogni mattina osserva il suo giardino verticale, la potenza di una natura che detta le regole del gioco. Ogni mattina, senza parola alcuna, si sente un uomo fortunato, con qualsiasi clima, in qualsiasi stagione, perché il volto dell’amata, in ogni suo profilo ed espressione, qualsiasi sia il temperamento d’occase, s’impadronisce del respiro, inondandolo di cielo.
Ma ecco che la mia pedula sinistra fa il primo passo indietro…
Cercando informazioni sulla rete per l’ennesima, bivacchevole fuga in quelle zone impervie, scopro come ogni anno vi si celebri una giornata (“Dalla cultura della resistenza alla resistenza della cultura”) per ricordare chi lottò in quella valle e come, poche settimane prima, una sindacalista della Electrolux (ditta pordenonese passata ad una multinazionale degli elettrodomestici) dopo un comizio sanguigno fuori dai cancelli di quella casa di dignità e sfruttamento che stava per chiudere i battenti, fosse stata invitata in casera, in mezzo al nulla, tra i resistenti di montagna, tra i dimenticati, a raccontare la lotta proletaria della piana. Scocca la scintilla. La mia bottiglia emozionale si riempie di sabbia e combustibile, la mia personale unione di monte e militanza (nel particolare con la solidarietà con il popolo basco) diventa il combustore.
Ora è la pedula destra a fare il secondo passo indietro…
Un paio di mesi prima avevo assistito, al CPA di Firenze Sud, durante l’immancabile festival Sgrana & Traballa, allo spettacolo “Darinka”. Un reading musicato costruito con cura e passione da un musico ed una teatrante ferraresi. Un monologo basato sull’autobiografia di Darinka Jojic. Partigiana dalmata. Cresciuta ai piedi della catena dinarica. Una testimonianza intrisa di umanità. Spoglia di ideologia. Ove una scelta obbligata portò una donna come tante ad entrare nelle file dei ribelli jugoslavi per difendere la propria terra ed i propri cari Per dare il proprio contributo al cambiamento radicale dell’esistente. Una testimonianza viva, per l’universalità delle istanze che propugnava e ancor più attuale a causa della sconfitta di quelle lotte, di quei sacrifici, di quelle speranze tradite. Preziosa nei contenuti e nella loro soggettività femminile. Darinka visse l’occupazione, l’esilio e la prigionia. Conobbe un partigiano ferrarese che combatté al suo fianco nella divisione italiana dell’esercito di liberazione jugoslavo. Poi, a guerra finita, dopo l’umiliazione d’esser considerati briganti all’entrata d’una Trieste che ormai era divenuta un pezzo dello scacchiere della politica internazionale in mano agli “alleati”, si trasferì a Ferrara. Col suo amore combattente. Qui continuò a lottare per i diritti di genere e non solo.
Quando vidi quello spettacolo, dopo il pianto, i pugni che grignavano silenti, la rabbia d’una consapevolezza quasi arresa alla desolazione delle (in)coscienze che ci circondano, mi chiesi come mai quella piccola scheggia di memoria non fosse ancora approdata in quel remoto Nordest: uno dei luoghi chiave di tali avvenimenti, un germinatore di speranze ormai ridotto a tempio del revisionismo storico.
…e finalmente gli scarponi iniziano a conquistar terreno…
Dopo aver terminato i quesiti squisitamente montanari, provai a proporgli di portare lo spettacolo in val Mesath. Adriano rispose entusiasta. Vieni su che ne parliamo a voce! Mi disse, attraverso quel cavo che dalla sua cucina percorre a ritroso i sentieri fino ad una casa in località Pineda, che funge da ponte telefonico, unico suo aggancio al folle esterno da cui è fuggito. Venire su? Si…come se il Vajont fosse dietro l’angolo. Come se quell’altare sacrificato agli artigli della SADE non fosse rintanato nel nulla! A due ore di macchina dalla provincia di Gorizia! Basterebbe ciò a chiudere qui la storia, con un telefono muto ed una smorfia incredula (la mia).
Poche settimane dopo sono sulla vetta del tragicamente conosciuto monte Toc (che in friulano, non a caso, vuol dire pezzo – nomen cacumen). Dall’alto noto il puntino di quella casera. Irraggiungibile da quel versante. Non resta che accollarmi i mille e cento metri di dislivello della discesa aggiungendoci, sotto una pioggia battente, quelli del troi (sentiero) fino al rifugio. Friulano d’origine, Adriano cresce in Lombardia al tempo in cui, come dice lui stesso, i diritti si conquistavano con la chiave inglese. Le percorse tutte quelle lotte, per poi ritornare, una volta che la rivolta fu ingoiata dal boom economico, dalla repressione, dai tradimenti e dai bisogni indotti, nel suo Friûl. Ad Andreis. E poi a casera Ditta.
Nel settembre del 2014 si concretizza un’iniziativa che per me voleva dire tanto. Che valeva più di un migliaio di persone annoiate in piazza a Udine, magari ben disposte a lavar la memoria e scansar una rabbia fugace il giorno dopo. Come si soffia la fuliggine dalle spalle, scaldate dal camino di un ricovero montano che dà l’illusione d’esser liberi, d’esser uomini (e donne). Così quel troi denominato Africa (dedicato a Ibrahima, Namma, Mohamed e Dramane) per ricordar l’aiuto di migranti fra i migranti prestatisi alla fatica, diventa testimone d’un via vai di strumenti portati a spalla. S’avanza percorrendo quelle vene erose dalla fatica di fantasmi di dignità e che oggi chiamiamo sentieri, addomesticandoli a nostro uso e consumo. L’appuntamento s’arricchisce con l’arrivo dei compagni di Nunatak. Molti conosceranno la rivista, la loro militanza, la Cassa Anti-repressione delle Alpi Occidentali, il prezzo che pagano consci che esser libertari vuol dire semplicemente vivere. Da libertari. Fomentando l’ostinazione di una utopia che è zaino da indossare quotidianamente.
Per chi non li conoscesse permettetemi di presentarli come li vedo io. Nunatak è molto più di una rivista. È un inceder per creste. Avvolte dalla fumate, quella vaporosa danza montana che diventa gioco di nubi, votate all’ascesa. A volte ammantano l’anima e lo sguardo di chi percorre le dorsali selvagge. A volte si fan dissolvenza. Quest’ultimo è il caso di Nunatak. Un cammino metaforico e militante nello spazio e nel tempo. Quando il candore si dissipa, ecco briganti e contrabbandieri a percorrere i ricami dei monti, poi di nuovo il bianco e ancora lo sguardo che spazia sulle montagne del Kurdistan, lambendo Kobane, poi uno squarcio che s’apre sulla Val Susa e arriva lontano, fino alle montagne basche che ci hanno fatto conoscere, unendo i due estremi delle Alpi, attraverso la rete solidale ai prigionieri ed alle prigioniere politici/che di quelle lande resistenti. Nunatak è questo. E molto altro. Non è solo rivista. Son lidriis, radici. Che spaccan l’asfalto. Storie, culture, lotte della montagna. D’una montagna che non vuol essere esilio o rifugio ma riconquista di spazi, d’esistenze. Antigerarchiche, orizzontali, libertarie e liberate.
Asciugando le polveri inumidite dalla storia, la montagna torna ad esser rifugio, coltivazione in vitro di libertà. Per farla esondare a valle, per disperdere germi che contagino coscienze, che annichiliscano l’oblio. Una serata legata da un filo rosso che si fa gomitolo di ribellione, in un luogo che trascende il simbolismo. Quella serata, per me, è stata una dinamo ingovernabile, un miscuglio di rabbia, gioia, progetti e condivisione. Quelle pareti di pietra hanno assorbito i nostri canti fino a notte fonda, hanno osservato ancora una volta quelle cinque dita, chiudersi, per voler aprire il mondo. In fondo è stata una piccola cosa. Una casera stracolma di poche manciate di cuori, occhi, anime. In una briciola di memoria lontana, a due passi dalla catastrofe dell’ingordigia umana che pretende di governar il vital furore delle acque. Una goccia. Effimera.
O forse no… quella iniziativa è stato solo il primo tic! Un suono sordo a scavar la nuda anima del capitale. Poi un altro tac! Le ha fatto eco con il nuovo spettacolo della memoria (Sklavin) proveniente da Ferrara, poi un altro sgocciolio ancora, con il Coro Popolare della Resistenza di Udine a cantar le lotte dei nostri combattenti, dei miliziani spagnoli, dei vessilli rossoneri o della lotta sudafricana. Ancora tante son le gocce di queste lacrime di rabbia che continuano a battere su quella pietra.
La prossima assumerà il riflesso della festa per il decennale di Nunatak. Nelle prime due giornate d’agosto. Uno dei tre appuntamenti nelle Alpi: occidentali, centrali e, in questo caso, orientali. Nel blog troverete la locandina e l’invito di Adriano, così come il link per scaricare i vecchi numeri della rivista. Links. Che sian abbracci, che si facciano inviti a braccia aperte, non dei frenetici clic sul mouse. Per riunirci in quest’angolo di terra selvaggia ove flebili rivoli di rivolta, goccia dopo goccia, s’incaponiscon a incidere le pietre. Per unirsi alle altre, per condividere il cammino. Per far sì che lo sciabordio diventi frastuono, in una quotidianità fatta di desolante silenzio.
In euskera si griderebbe: Hamaika herri, borroka bakarra! Tanti popoli, una sola lotta!
Jo Ta Ke!
Scrit par bande di Askatasuna il 20 di Lui dal 2015.
CONTATTI CASERA DITTA (non è presente un collegamento internet diretto per mancanza di rete, ma è facilmente raggiungibile calpestando la recente carrareccia forestale ed un breve tratto di sentiero).
Tel: 0427-879010
Web (non aggiornata): www.rifugiocaseraditta.com – per altre info visitate la pagina facebook