Anni imprigionati come sospensioni dentro una provetta crepata, con le spalle appiccicate a un versante di valle e il naso a puntellare quello fragile di là. In quello che è l’esperimento Tavernola si prova a intervenire. Come purtroppo succede di questi tempi, si sutura male, con la strategia sbagliata.
I sensori installati monitorano con costanza la parete che minaccia il paese e tutto l’ecosistema del Lago d’Iseo, ma fino a ieri niente più. Fino a quando abbiamo letto che la frana provocata dal cementificio va consolidata a suon di iniezioni di cemento nel ventre del Monte Saresano.
Si procede per assurdo: il cemento da causa della frana diventa LA soluzione.
Un passo indietro
Nel lontano febbraio 2021, quando timidi cominciavamo a immaginare di poter mettere l’emergenza del Covid alle spalle, mentre il delirio che ne era scaturito faceva ancora vibrare i nostri corpi, le sponde del Lago d’Iseo subirono un brusco risveglio.
Emergenza nell’emergenza, di questo viviamo, la costa di monte a picco su Tavernola prese a marciare verso lo specchio d’acqua sottostante, al ritmo di 20-25 millimetri al giorno.
Innumerevoli studi di facoltà – tra queste Brescia, Bologna e Firenze – descrivevano lo scenario di potenziale collasso di oltre due milioni di metri cubi di roccia che avrebbero generato un’onda alta fino a nove metri, poi ridimensionata, come se i “soli” cinque-otto dei calcoli finali potessero essere meno preoccupanti.
Lo tsunami – come fu impropriamente definito dalla stampa – avrebbe spazzato via qualsiasi cosa lungo il suo cammino sopra e sottomarino: paesi, paesaggi, intere comunità di flora e fauna.
Una brevissima parentesi
Del resto l’interesse per l’habitat lacustre è scarso e privo di una visione d’insieme. Se infatti a sud, a Paratico, è stato posizionato un depuratore che filtra e ripulisce le acque, e se i paesi rivieraschi hanno risistemato o installato alcuni collettori fognari moderni, i comuni di Valle Camonica fanno molto poco per contrastare i continui sversamenti nel fiume Oglio che si immette nel lago. Una valle lunga ottanta chilometri scarica in un bacino che lo è meno di un terzo circa 110 tonnellate di fosforo l’anno, col risultato di favorire la morte biologica di uno specchio d’acqua molto poco ossigenato nelle sue acque profonde, per nulla sotto i 100 metri.
Ripresa
La crepa nell’asfalto in località Squadre è ancora lì, avvolta dal suo lenzuolo bianco di paziente in balia di sé stesso, come nel caso del Vajont al massimo si interverrà per seppellire i corpi e piangere due lacrime di circostanza.
I padroni del cemento vanno lusingati, il senso del ridicolo non abita da queste parti: prima palazzo Pirelli ha commissionato a tre università milanesi uno studio che ha individuato nel cementificio e nell’estrazione di marna a suon di boati esplosivi – alla miniera Ca’ Bianca di Parzanica – la concausa del disastro.
Poi Regione Lombardia si è attenuta al minimo sindacale. Dopo aver decretato per ItalSacci una brevissima interruzione d’attività, gli ha consentito di riprenderla come nulla fosse. O quasi: la perizia che testimoniava la pericolosità delle vibrazioni prodotte dagli esplosivi fece optare i politici per la prosecuzione degli scavi a colpi di martelloni, enormi motoperforatori del peso di 3 e 6 tonnellate ciascuno, che secondo chi decide forse carezzano la roccia.
Nel frattempo i piani di emergenza per evacuare la popolazione si sono sciolti in un battere di ciglia, come la scarsa neve primaverile cui il clima ci ha abituati.
Dapprima si pensò di scuotere il torpore degli abitanti di mezzo lago per mezzo del fischio di una sirena presa in prestito dal cementificio e posizionata sul campanile della chiesa.
Degna rappresentazione del nostro gusto nazional-popolare, bigotto nella santificazione dell’industria. Un’opera d’arte totale, altro che Floating Piers.
Il parere del prof. Marco Pilotti a proposito della rimozione dei plinti di ancoraggio di Floating Piers, tratto da un’intervista sullo stato del Lago d’Iseo, da corriere della sera Brescia, 25 luglio 2016 – clicca l’immagine per l’intervista completa.
Domenica 7 marzo 2021, nonostante le orecchie della cittadina fossero ancora tese ai freschi scricchiolii del monte, il sibilo della sirena non fu percepito che da un pugno di mosche, la prova generale non riuscì. Disorientati, gli esperti d’emergenza si piegarono a tuffo nella tradizione, l’iniziativa ingegneristica d’allarme virò sul ricalco della prova effettuata nella vicina Monte Isola, dove nella frazione di Siviano il ricorso alla cella campanaria parrocchiale aveva risuonato forte e chiaro.
Il giorno seguente il Paese immerso in decine di migliaia di campanili riprogrammava l’esperimento, con lo stesso risultato. Questa volta il canto dei martelletti si disperse tra i ronzii dell’Ora, il vento ricorrente del lago. Altro giro altra corsa: la quotazione sirena alla borsa di questa mosca cieca tornò a crescere. Ululati rafforzati stavolta: i fischi elettronici sarebbero stati tre, due in prestito dal cementificio e uno – storico – donato dal Comune di Gorno, dopo che fu rispolverato dal museo dei minatori in cui giaceva.
Del resto ci sono priorità e priorità: quando si tratta di turismo o gentrificazione non si lesina in investimenti, quando invece tocca ragionare della salute e dell’esistenza di porzioni di territorio, a fronte di una richiesta di stato d’emergenza, le cifre stanziate in prima battuta coprono giusto il costo di un appartamento.
Nella commedia all’italiana cui qui si è sottoposti non ci si è fatti mancare davvero nulla, è spuntata così anche la figura del capogruppo di maggioranza di Tavernola, proprietario di una fabbrica di fuochi d’artificio. Non poteva forse regalare qualche bomba da esplodere per avvisare la popolazione?
Un grottesco piano di accumulo di terrore al terrore svanito. Morto nella culla, sipario.
Sopra: si noti il «che, si assicura, non influirebbe sulla frana», nel mentre non si riesce a far funzionare nemmeno un allarme, da Corriere della Sera Bergamo del 9 marzo 2021.
Sotto: lo stanziamento di Regione Lombardia, da Fanpage del 4 marzo 2021.
Trovata la quadra più semplice per l’evacuazione – nessuna soluzione – si è passati alla distribuzione di questionari per capire chi in caso del peggio si sarebbe arrangiato con l’alloggio e chi invece avrebbe avuto bisogno di ospitalità.
Vajont
Lo pensiamo e ce lo diciamo da tempo: queste sono le stesse dinamiche – pur con le dovute differenze – che crearono la tragedia del Vajont. Stessa volontà di ridimensionare o tenere in un cassetto il fatto che c’è una porzione di un monte (all’epoca il Toc, ora la montagna di Tavernola) che si muove a causa dei lavori di estrazione di materiale e valore che vengono fatti lungo la fiancata. Lo stesso sistema dello scarica barile, del ridimensionamento del problema e dei sotterfugi per prendere tempo che all’epoca la SADE mise in atto e che costò la vita di tutta la gente morta sotto l’acqua. Il capitale dà per scontato, ha messo in conto, che altri cento Vajont siano possibili e probabili, intanto si fattura, poi si vedrà.
Oggi
Leggere pertanto oggi che la soluzione sarebbe un monte “botox”, iniettato di cemento e barre di tondino lunghe 90 metri; sapere che un’azienda che deturpa e inquina, che provoca danni, può continuare a far come se nulla fosse, lascia l’amaro in bocca, ha il sapore delle Olimpiadi 2026.
In questa realtà capovolta è piuttosto facile immaginare a chi sarà affidato l’intervento: i responsabili avranno la possibilità di generare profitto sul danno che hanno causato.
È altrettanto facile ipotizzare la narrazione dei novelli Karate Kid della politica: metti il cemento, togli il cemento.
Nessuno può far meglio di chi lavora sul territorio, di chi lo conosce. Ci si può imbastire un’efficace campagna di marketing, togliere e rimettere nello stesso posto da cui si è prelevato è green, a chilometro zero.
Figurarsi poi i vecchi tunnel zeppi di scorie, solventi e rifiuti pericolosi mai rimossi. Lì erano al sicuro anche nel pieno dell’allarme, perché secondo l’azienda che grazie a regione giudica i suoi stessi guai non c’era pericolo: i cunicoli avrebbero retto e non ci sarebbe stato nessun problema.
Farcirli oggi di colate grigie può essere un’ottima soluzione, efficace, funzionale alla logica dominante della polvere sotto al tappeto.
Del resto sappiamo bene che in Italia si può andare in deroga rispetto agli inceneritori e bruciare CSS per produrre cemento anche a uso edile-residenziale impastando qualsiasi scarto, anche tossico, col risultato di costruirci intime alcove al veleno.
Quanto a noi: per quanto tempo ancora vorremo sopportare questa farsa?