Dopo la pubblicazione dello speciale 25 aprile con il racconto delle “resistenti evasioni”, torniamo ancora alla giornata di commemorazione della Liberazione dal nazifascismo di questo 2020. Quello che segue è il récit collettivo di un’escursione clandestina in notturna, da Bologna al cippo dedicato ai caduti partigiani che si trova a Sabbiuno di Piano.
Da poco tempo ricevuto, lo pubblichiamo sia perché il ricorso alla forma del récit collettivo al di fuori della banda di Alpinismo Molotov è una pratica che crediamo importante valorizzare e amplificare, sia perché – in questi giorni in cui finalmente molte piazze sono tornate a riempirsi di manifestanti – questo racconto ci ricorda come poco più di un mese fa si è dovuto forzare le maglie dell’imperativo “state in casa” per riuscire a portare un fiore a ricordo di chi 75 anni fa lottò per mettere fine alla barbarie nazifascista.
Buona lettura.
«Al monumento di Sabbiuno di Piano, quando ci si poteva andare.»
25 Aprile 2020
GI, E, GL, T, V, S, GB: umani.
C, P, L: cani.
S: Lo stare in quarantena non ha particolarmente sconvolto la mia quotidianità durante il giorno. Però, la noia credo che abbia acuito la mia attenzione verso l’esterno. Non è una perversione ma una predisposizione maggiore ad accogliere ciò che avviene fuori. Complice l’inverno, sicuramente, ho passato pochissimo tempo in balcone prima della quarantena e solo da poche settimane ho scoperto che, nel palazzo a sinistra di quello che ho di fronte, si affaccia il balcone di GI ed E, li posso vedere dal mio, cosí per diverse sere al tramonto condividiamo aperitivi a distanza .
GI: Sono una partita IVA. Sono in “smart working” da 7 anni. Nulla è cambiato nel mio rapporto con il mondo del lavoro. Ho 4 mesi di ritardi nei pagamenti costanti. Questi 600 euro bonus li investirò sicuramente in multe, nel caso mi dovessero fermare e non dovessi addurre una scusa abbastanza credibile. Non posso, non voglio restare a casa.
Ho passato la gioventù a giocare con il computer. I miei giochi preferiti erano Age of Empire 2 e Commandos: behind the enemy lines. Per chi non conosce questi giochi, il primo è un gioco di strategia in cui devi pianificare la crescita della tua popolazione e difenderla dagli attacchi, l’altro è uno gioco in cui un esiguo gruppo di militari viene inviato ad eseguire una missione suicida dietro le linee nemiche; naziste solitamente. Suicida perché il gioco terminava ogni qual volta venivi scoperto dal nemico. Fortunatamente si poteva salvare! Ho passato ore e ore a morire e ricominciare alla ricerca di una strategia migliore. L’osservazione del nemico era fondamentale, alcuni schemi potevi finirli solo se conoscevi a memoria gli spostamenti delle sentinelle. A volte contavo anche i passi.
S: Pochi giorni prima del 25 aprile dal suo balcone GI mi ha invitato sul loro a fare aperitivo. Nella chiacchiera, GI ed E, mi hanno spiegato la loro idea di formare un gruppetto di non più di dieci persone e arrivare al monumento dell’eccidio di Sabbiuno di Piano, 20 chilometri andata e ritorno, quattro ore circa, con partenza al tramonto. Si attraversa tutto il parco del Navile, si passa Castel Maggiore, un tratto di aperta campagna, uno brevissimo di statale (il più rischioso), e alla fine il monumento, dove avremmo lasciato dei fiori. Andrà fatto tutto al buio, le torce si portano per sicurezza ma per non rischiare di essere beccati è meglio tenerle spente. Tanto lungo quasi tutto il percorso non sono distanti lampioni, luci di capannoni, case, insomma si dovrebbe vedere abbastanza da non farsi male. A guidarci sarà l’inquinamento luminoso.
GI: Un giorno T mi ha scritto un messaggio su Signal chiedendomi cosa avrei fatto il 25 aprile. “Che ne pensi di fare un giro per le lapidi della Bolognina?”. Gli ho risposto che non mi attirava troppo, che sarebbe stato meglio che per la Bolognina si fosse camminato alla spicciolata. Gli spiego però il mio piano: “Andiamo di notte, passando lungo il Navile fino a Sabbiuno di Piano, dove c’è quel bel monumento sull’eccidio. La stessa strada che abbiamo fatto con Antifa Murri anni fa!”. Non dibattiamo troppo per telefono, ci diamo appuntamento per un pranzo a casa di E, dove abito anche io, per definire quando, dove, chi, quanti.
Il pranzo è stato semplice, la discussione su questo punto altrettanto. Tutto viene stabilito. La certezza della riuscita mi brillava negli occhi. La felicità mi batteva nel cuore. Abbiamo festeggiato con una fuga nel parco chiuso della Trilogia Navile per aperitivo. Poche cose rimanevano da fare, non le farò fino all’ultimo, as usual.
GL: Mi ripetevo da giorni che questo stato di eccezione non deve diventare normale. Ho pensato all’incirca tutti i giorni, di impazzire, di diventare cupa e astiosa, rompicoglioni da paura e affetta da strane manie e persecuzioni casalinghe. Ma i giorni passano e sembra che il margine di manovra possibile affinché questo sia impedito (dentro e fuori di me), si riduca sempre più.
S: Abbozzando pratiche di gruppi di affinità che scelgono di incontrarsi, consci di aumentare i rischi del contagio, ma al prezzo di ristabilire un equilibrio mentale, era già qualche settimana che mi stavo concedendo molte più libertà di quelle, poche e tremende, lasciateci dai decreti: la libertà di chi è costretto ad andare a lavoro, la libertà di chi è costretto ad andare al supermercato. Conscio che l’epidemia non si può ridurre a questo, a un fatto di libertà individuale, ma conscio anche del fatto che dopo due mesi siamo pressoché allo stesso punto. Senza un piano ma circondati da macerie.
GL: … e oggi è pure la festa della Liberazione, che quest’anno assume sicuramente un significato più profondo, sentito e confuso.
Cazzo – mi dico – c’è gente che ha affermato con le proprie azioni che la paura di morire non può impedirci di lottare per una vita degna! E io che posso fare in questo giorno, che non può e non deve essere uguale agli altri, nonostante l’emergenza Covid-19 e sti minchia di decreti?
Si era parlato giorni prima di fare un gesto, un’evasione notturna insieme e ci si scambiava messaggi per organizzarci: infine si decide di raggiungere a piedi il monumento ai partigiani, a Sabbiuno di Piano, circa 10 km da Bologna, seguendo il corso del canale Navile.
La giornata è già stata onorata, sì: giro per le targhe partigiane della Bolognina con annessi canti restistenti e fiori. Una giornata limpida. Ma qualcosa… manca qualcosa. Quest’anno si deve fare un’azione coraggiosa. Ma poi coraggiosa perché?
GI: È il 25 aprile, ricevo i primi messaggi nelle chat. Io ed E. ci alziamo un po’ imbalsamati. Vado in cucina a fare il caffè e mentre attendo il gorgoglio della caffettiera ascolto un audio mandato da
GB: “Era giugno e faceva un gran caldo / Almirante affamato sbuffava / di mangiare a Bologna sperava / e al suo autista ordino di frenar… ”. Sorrido – “chissà se E la conosce?”. Facciamo colazione e gliela propongo. Sorride è galvanizzata. Credo mi trovi buffo quando biascico imitando il bolognese.
Il programma è di uscire per andare a raccogliere i fiori; così usciamo con i 2 cani e dopo poco arriviamo al parco di Villa Grosso. Io raccolgo solo fiori gialli, faccio due bei mazzi. E. raccoglie i fiori con più ordine. Ne prende di viola e di gialli facendo mazzetti più piccoli dei miei ma facendone almeno 4 o 5.
E: “Era giugno e faceva un gran caldo / Almirante affamato sbuffava / di mangiare a Bologna sperava / e al suo autista ordino di frenar…” … esco di casa con questa canzone in testa che poco fa mi ha fatto ascoltare GI . È il 25 aprile, e spumeggiante vado con GI, C e P al parco di Villa Grosso per assembrare mazzolin di fiori. Raggiungiamo il parco con i nostri cani, un cane a testa, nessuno può fermarci perché per noi padroni di cani, uscire è una reale necessità. Mi sento una contadinella urbana e compongo con cura diversi mazzetti. Alcuni tutti gialli, altri tutti viola e infine mazzetti fritto misto. Guardo verso GI per capire a che punto è…solo 2 mazzi…. andranno bene ugualmente. Richiamiamo i cani, che intanto si sono ricoperti di piumini di pioppo e ci incamminammo. L’obiettivo è quello di passare per alcune delle lapidi della Bolognina e donare quei mazzetti ai partigiani caduti come gesto commemorativo. Oltre a questi modesti mazzolini, dal profilo parecchio basso, non abbiamo altro da offrire. Cammino per le lapidi, guardinga con quei fiori che mi spuntano dalla borsa di tela ed il primo mazzo, caratterizzato da papaveri rossi della rotonda di xm24, è per te, Rocco, partigiano nell’era moderna.
S: L’idea della staffetta notturna mi ha solleticato, ne ho parlato con pochissime persone, la mia compagna ovviamente, che però sapevo già non l’avrebbe mai fatto… il buio, la quarantena, il poco allenamento… il 25 aprile poi, è una giornata meravigliosa, la Bolognina di nuovo viva nella memoria della resistenza. Non c’è decreto che possa tenere, ognuna/o nelle sue possibilità e sensibilità compie un gesto in omaggio alle partigiane e ai partigiani. È una giornata piena di incontri dopo tanto tempo, sono disabituato a stare in giro per delle ore, senza troppe ansie. Vado al parchetto, per un saluto a Rocchino, arriva il tramonto e la situazione diventa simpaticamente molesta, sto per cedere e rinunciare alla camminata, ma poi la curiosità di sapere come sarà mi convince a salutare velocemente tutti e schizzare a casa a prepararmi.
GI: Decidiamo di andare a posare 3 bouquet per la camminata serale e di omaggiare con gli altri alcune delle lapidi più vicine a casa. Non incontriamo molte persone lungo il tragitto, s’è già fatto un po’ tardi, ma capiamo che in molti in quartiere sono transumati col nostro stesso scopo. Ogni luogo della resistenza che visitiamo è adorno; sia quelli storici, che quelli degli ultimi avvenimenti. “Ciao fratello Rocco!”. Lungo le vie, dalle finestre, ci sono tantissime canzoni. L’atmosfera è frizzante. La paranoia di essere fermato si affievolisce. Per far ritorno alla maison, lungo via Lionello Spada, cammino baldanzoso al centro della strada. “Questa è la mia casa. Questa è la mia casa..” – dalla finestra Luchino spezza una lancia per me.
E: La passeggiata per le lapidi della Bolognina non dura molto e io e GI siamo molto tentati da quel tiepido sole a stare ancora un po’ fuori a zonzo. Incontriamo per strada qualche compagno che salutiamo da lontano, e uno di loro ci dona un paio di mazzetti di fiori realizzati con la carta. Li custodiamo con cura, per il giro notturno di sta notte. Sono fuori casa dopo cosi tanto tempo… Mi sento stranita ..quando sono spuntati questi fiori? Guarda quant’è alta l’erba ai cigli della strada! Minchia le mascherine buttate a cazzo…Assaporo il gusto di quell’aria cosi pulita.
GI: Mangiamo un boccone, scrivo qualche messaggio ai fratelli e alle sorelle della congiura: “Se volete ci sono dei bei fiori arancioni vicino ad Xm24”. Sono le 14.30. Dal balcone cantano “Bella Ciao”. Mi unisco al coro stonato con E e con i vicini. In molti si affacciano contenti dell’iniziativa.
E: Alle 14 siamo di nuovo a casa per mettere qualcosa sotto i denti, euforica per quella seppur breve uscita mi unisco al coro di “Bella Ciao” intonato dal balcone di fronte. Mamma mia quanto siamo stonati, penso! …ma non ho altro da fare e cazzeggio dal balcone ancora un po’ con i dirimpettai conosciuti durante la quarantena. Ho come sottofondo Radio Spore e, finita la storia di cantare dal balcone, incollo l’orecchio alla radio. Alle 16 del pomeriggio ho già lo zainetto pronto per la passeggiata serale. Peccato che mancano ancora 4 ore all’inizio del giro… Non mi stacco dalla radio per niente al mondo: si è subito rivelata un’ottima compagna. Non smetto di ridere quando in radio passano l’intervista di Miolli che dice in diretta di essere dispiaciuto e insonne da quando non ha più nulla da fare perché ha sgomberato XM24. Chiamo G a voce alta? – Miolli ha la voce che ti somiglio?!? Ridiamo insieme..
GI: Torno in camera per preparare qualche foglio da leggere all’inizio del percorso, per Patrizia e Rodolfo, Sinti uccisi dalla banda di poliziotti fascisti dell’uno bianca, e alla fine, dove ci fu una vera e propria battaglia tra SAP, GAP un esiguo numero e i Nazi/fascisti, che avendo la peggio, successivamente se la presero con i primi che trovarono in strada.
Sono le 17:30… “Che faccio adesso?!”. Studio ancora il percorso. Individuo i punti in cui siamo più esposti. Non credo che ci siano pattuglie di ronda, ma è possibile che qualche abitante dei luoghi che dobbiamo attraversare, spaventato di vedere dei ceffi di nero vestiti, avvisi le autorità. Meglio essere guardinghi. Meglio che nessuno ci veda. Non si può salvare e ricominciare. Segno i punti sulla mappa: 1. L’attraversamento dopo il ponte della bionda 2. L’attraversamento e il costeggiamento dei palazzi, prima di imboccare il sentiero nei campi, a Castel Maggiore. 3. Il tratto di strada di via di saliceto prima di prendere a destra la carrabile buia per il monumento. 3. Ascolta Radio Spore, io ho un orecchia tesa verso la radio. Mi viene un’idea e registro un micro pezzo dove fingo di esser Miolli, noto DIGOS locale, e dico di essere un follower della radio. Un follower vero, uno di quelli che ti segue anche quando vai a fare la spesa.
S: Mi vesto comodo per la camminata, di scuro perché aiuta sempre (e anche perché non ho altro), preparo lo zaino e chiedo aiuto alla mia compagna per i panini perché sono, come sempre, in ritardo. Mi inizia a salire l’ansietta per il tragitto che devo compiere per raggiungere il punto d’incontro, è quella dei primi giorni di quarantena, è la stessa di quando scendi di casa la mattina prestissimo per andare ad occupare. Saluto la mia compagna, le sorrido, è preoccupata e mi scappa da ridere, sono la parodia di uno che si accinge a una missione pericolosissima. Scendo di casa, la mente è lucida ma tesa, è tutto ovattato, le gambe sono leggere e veloci. Ci metto poco ad allontanarmi dalla strada, raggiungo il parco del Navile e riprendo a respirare, di lì a poco riconosco GI, E, e V, sono in ritardo ma non sono l’ultimo, del resto a qualcuno tocca sempre.
E: Ancora poche ore e finalmente posso respirare pollini e libertà!
GL: Abbiamo deciso. Partecipiamo alla notturna e fanculo la paura dell’iper-controllo e della sbirraglia alle finestre. La punta è alle 20.
Si chiude il cancello dietro di noi, siamo in strada col nostro peloso compagno e già percepisco tra i capelli un’aria diversa, calda e tenace. Vedo una gazza volare e disegnare con la sua coda impertinente. Stiamo facendo la cosa più giusta e necessaria in questo momento. Sorrido e mi sento bella e spavalda.
E: Fiori? Presi!
Giacca? Presa!
Torcia? Presa!
“GI, hai preso le due letture che faremo?!”
“Prese!”
Stranamente abbiamo tutto, guardo indietro prima di attraversare l’uscio di casa, guardo P che scodinzola come se da un momento all’altro le si dovesse staccare la coda. Ho un po’ d’ansia, faccio un bel respiro e con tono deciso pronuncio eppur bisogna andar!
V: Sono le 19:30, se non esco di casa entro 5 minuti arriverò in ritardo. Non sono mai stato una persona puntuale. Sin da piccolo ho maturato l’idea secondo cui l’arco temporale che sta tra “ora dovrei cominciare a prepararmi per arrivare in orario” e “ora dovrei uscire di casa per non fare tardi”, sia il momento in cui si raggiungono straordinarie vette di intensità e piacere nel far le cose. “Ti prego altri due minuti di tv!”, “Per favore ancora due palleggi”, rispondevo alla voce spazientita e rassegnata di mia madre che mi pregava di darmi una mossa. Con l’età adulta poi giochi e televisione hanno lasciato il passo a “l’ultima sigaretta e ci sono”, “l’ultimo giro di accordi e via”. Stanca strategia per allontanare la partenza, il trauma. E così mi ritrovo sistematicamente a fingere di stupirmi che ormai è tardi, che non riuscirò neanche questa volta ad arrivare all’appuntamento nell’orario convenuto. Mi catapulto in un’inutile e goffa serie di “è tardi cazzo! Dove sono le chiavi! Il portafogli? Madonna quanto è tardi!”, mentre assisto all’inesorabile scorrere delle lancette, schiacciato tra l’impossibilità di recuperare il tempo perduto e l’inutile ostinazione nel volerci riuscire.
Non oggi.
Oggi orario e luogo di incontro devono essere rispettati con massima precisione, perché se evadere le regole del confinamento in solitaria è un’operazione che necessita cura del dettaglio e una buona dose di fortuna, evadere le regole del confinamento in gruppo aggiunge il dovere morale di coordinarsi alla stregua di nuotatrici sincronizzate. Il vecchio me fa ritardo. Il nuovo me è la Natalia Ishchenko dell’appuntamento. Lo scorrere del tempo è una piscina, la puntualità è la coreografia da eseguire. Sono pronto. In orario. Scendo le scale di casa tra gli applausi di una folla immaginaria accorsa per vedere il mio numero che si preannuncia indimenticabile. Esco dal portone e sono in strada.
GI: Sono le 19:05 – “Cazzo sono in ritardo. E ci sei?” – mi capita molto raramente di arrivare in ritardo. La dico tutta… Odio profondamente chi arriva in ritardo! Oggi però devo essere il più preciso possibile. Essere al punto di concentramento troppo in anticipo non è cosa buona nè giusta. È giunta l’ora. C’è ancora luce. Usciamo con i cani. Non sono nervoso. Cammino a passo svelto per dirigermi al museo dell’industria, incrocio Navile. In anni di attacchinaggi e giri in vallate, credo che funzioni meglio il muoversi rapidi e decisi, piuttosto che lenti e guardinghi. Almeno in zona aperte. Accelero. Anzi no, volo.
E: Sono fuori di casa e mi sento come se stessi uscendo per andare a compiere chissà quale impresa illegale. Cammino a passo svelto per raggiungere il luogo dell’incontro, ma i miei passi sono rigidi, macchinosi. Con GI evitiamo il più possibile di rimanere sulle vie principali e mi schiaccio sempre di più verso le facciate dei palazzi, avverto la città ostile. GI in realtà mi guarda un po’ strano, forse perché mi muovo come una 007, a scatti. Vedo che accelera, fa finta di non conoscermi… e va avanti. Mi sento abbastanza beota.
GL: Attraversiamo il quartiere percorrendolo da est ad ovest, e a quell’ora la palla di fuoco arancione all’orizzonte è prepotente tanto da farci strizzare gli occhi. Cammino e mi sento sospesa. Arriviamo presso un giardinetto in mezzo alle case. Ci sono uomini dell’est Europa che se la ridono in compagnia e con svariate bottiglie di birra in una busta. Mentre attraversiamo il piccolo lembo verde, scappano. Pochi secondi dopo ci voltiamo e vediamo gli sbirri arrivare. Che palle – penso – la loro presenza, onnipresenza, mi irrita più del solito, per qualche minuto mi sento nervosa. Continuiamo a camminare e ci infrattiamo tra aree verdi e aree in costruzione. Sono in tensione, e per alcuni minuti la testa si affolla di così tanti pensieri, che diventano inenarrabili. “In cinque minuti arriviamo e saremo insieme”. Da lontano vedo le compagne che ci attendono su una gradinata.
E: Il mio sguardo va a destra e sinistra ad ogni incrocio, non tanto per la paura di essere stirata da una macchina… aguzzo lo sguardo alla ricerca di possibili volanti di sbirri e vigili urbani che non mancherebbero di fermarmi e darmi il ben contento di una multa di 400 euro. Volgo lo sguardo anche in alto per intercettare possibili spioni e fancazzisti dai balconi. Mi muovo veloce e cauta allo stesso tempo e per un attimo tutto mi sembra cosi ridicolo. Io mi sento ridicola. Io che non sto facendo altro che andare a camminare per commemorare i nostri morti uccisi da uno stato fascista. Cosa mai può esserci di sbagliato in questo?! Eppure il Covid mi ha prima resa illegale e poi colpevole. Siamo costretti a nasconderci. Per un attimo vedo me stessa come fuori dal mio stesso corpo vestita di nero per mimetizzarmi nel buio che da li a poco sarebbe sopraggiunto, zainetto nero, mascherina nera anti-Covid, schiva tra le strade e quei palazzi. Cosa mai potrà pensare una pattuglia o un estraneo nel vedermi? Una ladra? A quell’immagine surreale di me stessa mi scappa da ridere. Vedo P che, cosi stonata in quella stessa immagine, bianca come la neve, scodinzolosa e con un bastoncino in bocca, mi rende totalmente non credibile come ladra. Mi scrollo tutte quelle paranoie di dosso e arriviamo puntuali al luogo dell’incontro…
V: Luogo di ritrovo: la lapide dell’eccidio di via Gobetti, tra me e il punto convenuto 1 Km e mezzo. Appuntamento alle 20.00. Obiettivo: raggiungere il monumento dell’eccidio di Sabbiuno di Piano commesso dai nazifascisti il 14 ottobre 1944. 20 km andata e ritorno in notturna per evitare occhi indiscreti. In sei abbiamo deciso di percorrere il cammino che costeggia il Navile fino a Castel Maggiore, forzare le regole della quarantena per lasciare un fiore in ricordo dei partigiani e delle partigiane. Oggi è il 25 Aprile e non c’è distanziamento sociale che tenga.
Mi aggiro per il quartiere facendo attenzione a camminare quanto più attaccato ai palazzi per non far notare la mia presenza. Mi muovo alternando finta nonchalance, scrutando la strada pronto a cogliere ogni impercettibile segno di pericolo. Da subito realizzo che la mia andatura è artificiosa, risultato della somma tra tensione e un’inattesa assenza di familiarità con il camminare. Più mi sforzo di riprodurre un movimento armonioso tra braccia/gambe/testa, più cerco di far sembrare i miei movimenti naturali, più il mio sembra l’inutile tentativo di un alieno appena atterrato sulla terra che prova a farsi passare per un umano. Non posso non essere notato. Immagino improbabili scenari in caso di incontro con le forze dell’ordine. Dialoghi del tipo:
“Lei, si fermi! Documenti! Ha l’autocertificazione?”
“Non mi avrete mai!” – detto prima di ingoiare capsula di cianuro.
In un altro scenario invece sono protagonista di un inseguimento con la polizia, loro in macchina io a piedi. La sequenza è tutta un alternarsi di corsa affannata-sgommare di copertoni/sirena e lampeggianti- corsa affannata. Mi metto in un vicolo cieco, ormai mi hanno in pugno. Scendono dalla volante con fare beffardo, ma in quello stesso momento si accorgono che dietro di loro un fiume di gente si è unita in corteo per festeggiare la Liberazione, riprendendosi le strade e la propria libertà. Un unico corpo fatto di persone, bandiere, fumogeni e striscioni piovuto dal cielo improvvisamente proprio alle loro spalle. Sono migliaia, forse milioni. I poliziotti restano immobili ai lati della volante mentre fissano la scena con gli occhi sbarrati, un misto di stupore e angoscia. Il nostro inseguimento è divenuto irrilevante rispetto all’incedere implacabile della storia. Con passo lento e sicuro mi unisco al corteo, mentre uno dei due agenti, entrambi paralizzati dalla visione, avvicina la radiolina d’ordinanza ad una bocca spalancata e attonita priva di parole. Il futuro non sarà più lo stesso. Una sorta di remake contemporaneo di Apocalypto di Mel Gibson, con me e gli sbirri nel ruolo dei Maya e il corteo al posto delle caravelle.
GI: Arriviamo al punto d’incontro evitando di passare dal giardino dei marinai d’Italia dove più volte ho visto la municipale imboccare il sentiero con l’auto. Passiamo invece dal CNR. Non c’è nessuno, o meglio non c’è nessuno di chi ci dovrebbe essere. Io e E con i due cani ci sediamo in prossimità del ponte maledicendo gli insetti che ci ronzano intorno. “E ma che ora è?”. Scrivo in chat per chiedere conferma dell’arrivo di tutti. V è puntuale. S un po’ meno. T e G sono in ritardo. Decidiamo di aspettarli. Nei film avrebbero annullato tutto – “Chissà cosa sarebbe successo al tempo dei partigiani?”.
V: Percorro tutta via Procaccini per sbucare in via Fioravanti. Giro a sinistra. In lontananza il sole si spegne lentamente dietro la collina di San Luca. Una scura tonalità di porpora avvolge lo spazio davanti a me: il complesso residenziale della trilogia, l’XM24, il parco che separa l’uno dall’altro. è la prima volta che ripasso da qui da inizio pandemia. Le ombre e i colori del tramonto conferiscono una certa solennità a quelle costruzioni. Enormi edifici transennati da barriere affinché il vuoto che contengono resti custodito. Non si capisce se sono lì a proteggere il dentro dal fuori, o il fuori dal dentro. Nel secondo caso evidentemente le protezioni non devono aver retto, consentendo al vuoto di prendersi tutto il mondo nel giro di due mesi. Mi sento come l’ultimo uomo rimasto sulla terra.
E: Non c’è ancora nessuno del giro ma tanto, l’unica cosa che non ho oggi è la fretta…
V: Ogni tanto il silenzio è rotto dallo scoppiettare del motore di qualche auto. Uomini e donne con vari modelli di mascherina a protezione del volto, percorrono via Gobetti in entrambi i sensi di marcia. Chissà se anche loro sono lì in quel momento con una scusa, se stanno pregando il proprio santo/entità/idolo televisivo di fiducia affinché non faccia sbucare al prossimo incrocio una pattuglia. Individui da sempre ligi alle regole, irreprensibili cittadini, mai una sbavatura, mai un divieto di sosta; costretti a ricorrere a piccole strategie per beffare la legge, nel tentativo di far fronte alle spietate restrizioni: il cane in prestito dai vicini, il supermercato più lontano da casa per allungare il tragitto, accumulare file su file pur di prendere un po’ d’aria, con la speranza di ricordare il sapore che aveva la libertà prima che iniziasse tutto questo. Uomini e donne per cui l’inganno ha il gusto delle ultime marachelle commesse nell’età dell’infanzia, persone che non hanno mai dovuto nascondere niente a nessuno, trasparenti come cristallo. Chissà come ci si sente quando scopri che aver fatto tutto per bene, aver seguito le leggi come il più austero dei carmelitani il volere del signore, non è bastato per farti guadagnare la salvezza, non ti ha risparmiato la sepoltura in casa. Ti sei dovuto accollare anche tu la quarantena, caro cittadino eletto. Tu che avevi pagato per bene le tasse, tutte, che hai sempre fatto la revisione alla macchina, timbrato il cartellino in orario, provveduto alla famiglia e richiamato con un sorriso l’attenzione della cassiera che sbagliava a darti dieci centesimi di resto in più. Come eri orgoglioso di te stesso. Mai ti saresti aspettato di dover uscire di casa con l’ansia di essere braccato, di dover modificare i tragitti quotidiani di tutta una vita per non incappare nelle forze dell’ordine. All’inizio hai provato a seguire divieti e le indicazioni in maniera scrupolosa, quasi maniacale: appena hai saputo delle autocertificazioni ne hai stampate subito cinquanta “Che non si sa mai” hai detto, l’indecente impennata del prezzo delle mascherine non ti ha impedito di acquistarne almeno due paia per ogni membro della famiglia, casa/lavoro/supermarket facendo sempre la strada più breve, rispettando il sacro comandamento del distanziamento sociale per spostarti da un punto all’altro. “è per la nostra salute!”, dicevi, “Se facciamo come ci dicono in poco tempo tornerà tutto come prima”. Quanta fiducia avevi nelle cose. Ma come poteva essere altrimenti? Non hai mai ricevuto una busta paga in ritardo, hai goduto della stima e del rispetto degli affetti e dei colleghi indefessamente, la crisi economica che imperversava da ormai vent’anni secondo te aveva colpito solo due categorie di persone: quelli che non si impegnavano abbastanza e gli imbroglioni. Un sistema giusto che punisce le mele marce. Poi però hai cominciato a far caso che nonostante i divieti ad andare in strada, le fabbriche continuavano ad essere affollate come alveari, il lavoro un vaccino in grado di proteggerti dal virus durante le otto, dieci o dodici ore di turno. Ti sono cominciati a sembrare di cattivo gusto quegli applausi che la gente dedica a medici e infermieri, mentre quei poveracci a causa di anni e anni di tagli si trovavano a lavorare in ospedali al collasso. “ma che abbiamo fatto mentre succedeva tutto questo? Dov’eravamo mentre si fottevano la nostra salute?” hai pensato un giorno. Così la tua fede incrollabile verso le regole e verso quello che rappresentano ha vacillato, e da difensore oltranzista dell’ordine nell’emergenza, hai iniziato a fare anche tu come quelli che prima bollavi come “irresponsabili” e ora avevi preso a considerare come “vittime di un sistema sbagliato”. Chissà se ci pensi a quanto sei cambiato mentre sfrecci a bordo della tua Polo grigia in via Gobetti, magari mentre te ne stai tornando al tuo appartamento dopo aver passato tutto il giorno a pranzo con la famiglia a casa di tua sorella.
GL: Siamo in ritardo, di almeno venti minuti, ma sono sorridenti, e lo sono anche io, di nuovo, improvvisamente. Mentre i tre quadrupedi si salutano e si annusano, noi facciamo altrettanto. Siamo pronti per partire. Siamo in quella fase del giorno che i fotografi amano definire “Ora Blu”. Ripensando a un film, è proprio vero che Blue is the warmest colour!
V: Arrivato in via Gagarin attraverso il parco per arrivare al punto convenuto. Sono le 19.59, perfettamente in orario.
Da lontano scorgo E e GI. Mi avvicino “Bella uagliù! E gli altri?” “Gli altri sono in ritardo!”. Mi sento un cazzone per il mio atteggiamento da “federali alle calcagna” degli ultimi 30 minuti. Ma non posso fare a meno di provare anche un briciolo di speranza, concedermi un fugace assaggio di normalità, nel sapere che c’è spazio per il ritardo anche in tempi di emergenza pandemica.
S: Arrivano anche gli ultimi due T e G, un saluto veloce e si parte. GI ed E hanno pensato a tutto, anche che lì di fianco al punto d’incontro si può rendere omaggio a due sinti morti ammazzati dalla banda della Uno Bianca, Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina. Non è un fatto legato alla resistenza ma un episodio di vent’anni fa che a me ricorda che non esiste solo il fascismo storico del ventennio, che non è bastata la liberazione del ’45 a levarcelo di torno, quel pensiero che ritorna sotto tante forme e sparge odio e violenza. GI legge alcuni cenni delle vicende della strage di via Gobetti, posiamo i fiori e il testo. Sta tramontando e da qui a Sabbiuno di Piano “non c’è strada per andare che non sia di camminare”.
T: Ma da quant’è che non metto un piede su del fango? È questo che penso mentre attraversiamo i primi sambuchi e iniziamo a sentire il fischio dell’assiolo. Il torrente ci accompagna in silenzio e la luce cala poco a poco, ma delle torce frontali non abbiamo mai bisogno, perché si vede quello che si deve vedere.
E: “Ai funerali dei due nomadi uccisi dai killer della Uno Bianca erano presenti poche centinaia di persone. Fu una vergogna per Bologna….in quel momento affiorò visibilmente l’indifferenza sociale e il razzismo perbenista alla petroniana. E il freddo di una giornata terribile e triste si trasformò subito in gelo: forse per i più non valeva rendere omaggio a una coppia di zingari brutti sporchi e cattivi.”
Non potevamo non commemorare Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina. Insieme a GI, GL, T, S e V mi sentivo nel posto giusto! Non potevamo che essere lì, esattamente così! Tutti e 6 vestiti di nero e con un cuore rosso sangue che ci pulsa dentro.
GI: T G e L arrivano. Pochi convenevoli, non indugiamo oltre e ci incamminiamo per arrivare davanti la lapide dei Sinti dove leggo le paginette che avevo preparato copia incollando da articoli online. Lasciamo un mazzo di fiori vero e un fiore di carta, che la mattina HC mi aveva lasciato. Ci apprestiamo a prendere il Navile. Camminiamo abbastanza sfilacciati. Chiacchiero casualmente con chi mi capita accanto.
Il sole cala. Il cielo timido colora il suo pallore di rosa e rosso. Le ombra inghiottono noi e il Navile. La luna oggi non c’è. Sorrido – “Lo sapevo, lo avevo calcolato”. Quello che non avevo calcolato è che l’inquinamento luminoso rischiara il cammino senza che ci sia bisogno di accendere alcuna luce. Il passo del gruppo inizialmente rapido, rallenta. Si è fatto sicuro. E e V parlano dei problemi causati dal Covid ai programmi internazionali di V. Sono spesso davanti per “dirigere” il gruppo lungo l’unica strada. Dritta. “Che ci sto a fare davanti?”, torno dietro.
GL: Siamo al sostegno del Battiferro e inizia con le famose scalette la nostra camminata in direzione nord. La tensione iniziale che probabilmente tutte sentivamo, si scioglie. Le chiacchiere prendono piede e tra le voci mi dimentico chi sono, solo i piedi sono presenti, e sanno dove stanno andando. Le ultime luci del tramonto lasciano spazio a un cielo blu, profondo, con una luna bassa e timida.
E: La camminata prende sin da subito un ritmo svelto, forse tutti noi non vogliamo altro che lasciarci la città alle spalle o forse, dopo mesi di fermo, sentiamo i muscoli scalpitare. Sono energica, ho voglia di stancarmi, di sudare e faticare. Le voci di tutte ben mescolate ai suoni di uccelli e anatre e insetti compongono una frizzante orchestra. E quell’orchestra divora argomenti vari e chilometri, tant’è che in pochissimo tempo ci ritroviamo al Ponte Della Bionda pronti a superare il primo ostacolo… l’attraversamento stradale.
GI: Saremo presto al ponte della bionda, accelero e mi rimetto davanti al gruppo, al bivio imbocco la via di destra, quella a sinistra è troppo illuminata dalla casa e troppo vicino alla strada. Avverto i compagni che presto dovremo attraversare una strada e che per centinaia di metri saremo visibili. Ci ammutoliamo. Attraversiamo velocemente la strada e manteniamo un andatura spedita fino ad essere nuovamente inghiottiti dal buio. “E uno fatto” – penso – “Il più semplice”.
E: Cade il silenzio, concentrata proseguo sempre svelta per ritrovarmi nuovamente nel sentiero safe e non esposto a caseggiati. Due minuti di attesa e la natura ci esplode nuovamente intorno e le chiacchiere ritornano a fare da padrona. Chiacchiere e risate sovrastate dal canto di uccelli, dove tutto profuma di fiori, foglie, funghi e anche un po’ di Navile ovviamente. Con una certa nostalgia apprezzo quegli odori che prima davo per scontati, neanche tanto eccezionali ma che ora si sono riempiti di un gusto unico, umido. È notte, e qualche lume in lontananza ci ricorda che siamo comunque alle porte di una Bologna ostile. Le luci artificiali rimbalzano sulle nuvole che troneggiano le nostre teste e ci restituiscono un chiarore che permette di camminare anche senza torce elettriche. Ed in quel chiarore ci muoviamo agili, veloci mimetizzati. Non avere le torce rappresenta una salvezza.
G: Ci inoltriamo nel secondo tratto. Dopo circa 1 km, il percorso diventa molto più naturale rispetto la prima parte, dove le nuove università lo hanno antropizzato ulteriormente. Tutto intorno a noi canta un ode alla natura, ognuno nella propria lingua. L’albero col fruscio delle foglie, la rana con suo gracchiare, il fiume col suo intenso scorrere. Non parlo più, ascolto. Mi piace stare qui. Sono commosso.
GL: Nei momenti di silenzio, si percepiscono i rumori della fauna del canale e qualche tuffo gioioso di qualche anatra, o nutria… È bello, e non sento il solito odore fognesco del Navile ma solo la bellezza della sera. A fianco degli argini ci sono capannoni in funzione e il loro rumore, a volte troppo prepotente mi fa arrabbiare. Un altro tipo, frequenta questi posti e passa veloce col suo monopattino elettrico sullo sterrato. Pazzesco!
GI: Ad un tratto vedo una piccola luce. Una luce che si muove molto velocemente nella direzione opposta alla nostra. Penso sia una bicicletta. Sono spaventato che ci travolga o che investendo un cane si possano fare entrambi male. Fischio ripetutamente con un buon timbro. Afferro il mio cane per il collare e lo avvicino a me. La luce ad un tratto rallenta. Ci passa senza proferir parola un ragazzino con il suo monopattino elettrico. Un ghigno mi si stampa sulla bocca. “Se noi ci siamo presi uno spavento, lui, vedendoci in 6 con 3 cani si sarà cagato addosso!”.
E: Ahhhhhhhhh, faccio un salto all’indietro quando nel silenzio e nel buio appare all’improvviso su quella strada deserta un ragazzino in monopattino elettrico che probabilmente si spaventa a sua volta nel vedere noi 6 che ci aggiriamo di notte nelle campagne con 3 cani liberi. Spaventati, ci ricambiamo i saluti, incrocio il suo sguardo che come il mio custodisce lo stesso segreto… quello di non poter essere li in quel momento…. Proseguo lasciando spazio all’immaginazione sul dove mai stia andando…
GL: Luci artificiali non servono, i nostri occhi, come quelli di giaguari percepiscono quello che serve, e questo basta. Ad un certo punto, da poco attraversato il famoso ponte della bionda, mi ritrovo in testa al gruppo. Vedo una luce, è una sigaretta. Sgomento e sorpresa, mi blocco. Un tizio sta camminando, in direzione opposta alla nostra. La diffidenza passa subito, per lasciar spazio alla serenità data dalla consapevolezza che anche qualcun altro adotta comportamenti non perfettamente in linea con i decreti-di-sto-cazzo, strumenti per l’omicidio dell’anima.
GI: Giungiamo a Castel Maggiore, avviso i raminghi dell’attraversamento cittadino imminente. Decidiamo di attraversare quei 400 metri di strada in mezzo al paese uno alla volta così da ridurre al minimo la confusione e i fermati da una eventuale volante di passaggio. Sto per uscire allo scoperto. Passa un auto. Mi fermo coperto dalla siepe. Mi affaccio, è distante. Con una accelerazione che farebbe invidia a Bolt, mi accingo a fare quel breve tratto di strada. In lontananza vedo una Croce Rossa. Quando mi è vicina sono intento a far scavalcare il muretto al mio cane. C’è ancora un tratto di strada vicino ad un palazzo, ma prima di continuare aspetto vicino ad un albero che anche gli altri siano al sicuro. Ora siamo in 4. Lentamente guardando indietro mi incammino sicuro che presto tutti sarebbero arrivati. Ancora qualche secondo e saremo di nuovo tutti al sicuro nello scuro della notte con solo le stelle a guidare il nostro cammino.
E: Secondo ostacolo, attraversamento stradale + attraversamento parcheggio in quartiere abitato. Guardinghi tutti e 5 dietro il cespuglio che ci separa dalla strada aspettiamo che GI compia il primo attraversamento. Io sono la prossima. Con il cuore in gola percorro quei 100 metri con il cane come se lo stessi pisciando..non c’è nessuno e costeggio la piazzetta di Castel Maggiore, ma a metà attraversamento passa l’ambulanza che mi osserva e rallenta, proprio mentre GI a 30 metri da me, e ignaro dell’ambulanza che lo guarda, spinge C, il suo cane, oltre il muretto, e scavalca anche lui per nascondersi nel parcheggio. V è dall’altra parte della strada con GL e T. Mi volto, aspettano che l’ambulanza passi… Superati gli ostacoli, GL e T ridono per la scena: a godersela è stato un fumatore di sigaretta notturno che si trovava proprio di fronte al nostro cespuglio. Mi scappa da ridere nel pensare a noi quatti quatti convinti di non essere visti da nessuno…ma la notte ha occhi dove meno te li aspetti!
T: Quando arriviamo a Castel Maggiore, e ci troviamo a dover uscire dal sentiero e attraversare una strada principale, mi rendo conto di quello che stiamo facendo. Siamo ormai in un comune diverso da Bologna e il rischio è ben più di una multa. Le voci si fanno sussurrate, il gruppo si compatta e si organizza. Bisogna attraversare la strada in un punto abitato, prima di riguadagnare la campagna. Si decide di andare uno alla volta. Come nei film, una persona a turno si sgancia, scompare dal campo visivo, ricompare dall’altra parte della strada, fa un cenno, e avanti il prossimo… Tutti, con attenzione, seguiamo queste disposizioni, che ci siamo dati un attimo prima. Io vado per ultimo. Esco in strada. Guardo a destra: nessuno. Guardo a sinistra: un uomo appoggiato ad un portone fuma tranquillo. Probabilmente ci ha visti passare tutti, con fare furtivo, uno alla volta, rimanendo impassibile. Mi viene da ridere, nel momento di massima tensione.
GL: Dopo circa due ore, non di cammino, ma quasi di trotto, arriviamo a Castel Maggiore. Qui il sentiero si interrompe e dobbiamo attraversare una strada e affiancare qualche abitazione. È necessaria qualche accortezza, certo. Ad uno ad uno, il più velocemente possibile attraversiamo. Ma l’intenzione di non farci sgamare, viene subito negata. Come ninja camminiamo lungo il breve tratto di asfalto. La mia coda dell’occhio vede qualcosa, mi giro e vedo un tizio che fuma sull’uscio e si vede spettatore di quella scena. Ci credevamo tutti tantissimo, è stato esilarante! Ho sempre pensato che quando fai qualcosa che non si attiene alle leggi della società, tanto vale farla come se nulla fosse, con tranquillità. “Assumi l’atteggiamento da invertebrato”. Ridiamo della nostra parte ridicola.
T: Ricordo questi campi piatti, ricordo questo maledetto spazio aperto e paludoso che odio, ricordo la volta che attraversai questi luoghi per andare a festeggiare il Primo Maggio alla Casona di Ponticelli: partimmo in bici da Piazza Unità e arrivammo per pranzo. Chissà quando riproverò quella sensazione di libertà, alla luce del sole? Perché dovrei sentirmi colpevole di qualcosa nel camminare in uno spazio aperto e vasto come questo? La natura è la mia casa, le leggi degli uomini, a cui pure ci pieghiamo, qui suonano ridicole. Questo penso mentre dal campo vediamo sullo sfondo la provinciale, attraversata dai pochi fasci luminosi, che saranno la nostra lotteria.
E: Dall’attraversamento in poi il percorso pare essersi tramutato, almeno nella mia mente, in un percorso ad ostacoli… il fumatore alla finestra che “perché non pensi alla salute “, la vecchia alla porta che ancora non dorme….il motorino alle 23:30 che “dove cazzo va su quella statale deserta”… e per finire in bellezza il guardiano di Sabbiuno che avverte la nostra presenza alla statua come un lagotto con il tartufo. Noi dietro la statua e lui dietro la finestra, entrambi spaventati per l’atto che potrebbe compiere l’altro (“Chiamerà gli sbirri a controllare?” noi…. “Non saranno mica dei fasci che imbrattano la statua?” probabilmente lui) rimaniamo ben confinati e separati dal buio della notte.
GI: Un imprevisto. Lungo il campo c’è una casa illuminata. “L’ultima volta che eravamo venuti c’era?” – Protestano i miei neuroni sbattendo i pugni sul tavolo. “Forza. Veloci. Andiamo. Di qua!”.
Al prossimo attraversamento manca poco. Sara’ più lungo, saremo in mezzo ad una strada a percorrenza veloce. Oltre a muoverci compatti questa volta, decidiamo di accedere le luci delle torce da testa per segnalare la nostra presenza. È pericoloso farla nel buio, potrebbero investirci. Rimaniamo in strada non più di 5 minuti. Passa solo un auto prima che possiamo tutti svoltare sulla sterrata per il monumento.
C’è rimasta solo un caseggiato illuminato tra noi e la nostra meta. Mi ricordo che c’era un fosso alto con dei liquami, accendo la torcia per cercare di non finirci dentro ma non trovandolo e non fidandomi decido che è meglio per tutti se passiamo vicino alla siepe della casa. Con il solito trottar di piedi mi dirigo verso il monumento e una volta arrivato lo aggiro per posizionarmi dietro, in un avvallamento del terreno ben coperto dalle grosse siepi. Tutti mi seguono.
GL: Attraversiamo i campi desolati della bassa bolognese e siamo costretti ad attraversare un’altra strada. L’unica macchina della sera è passata proprio mentre stavamo sull’asfalto. Incredibile! Siamo ormai vicinissimi al monumento. Il cuore mi batte forte, un po’ per il ritmo sostenuto che abbiamo tenuto fino ad ora (e vista la sedentarietà dell’ultimo mese…è stato un bel colpo per il mio corpo) un po’ per l’emozione di essere arrivati lì. Smolliamo gli zaini e le gambe. I cani si riposano e bevono. Faccio altrettanto, nel frattempo che GI legge un altro pezzo.
T: Da quello che vediamo, nessun altro oltre a noi oggi è venuto ad onorare i Partigiani di Sabbiuno di pianura. Al monumento sono in ansia. Le nostre torce frontali, gli abitanti del casolare alla finestra, le macchine che ci hanno visto attraversare la strada. Mentre Ascolto GI, che legge la storia dei partigiani che qui hanno perso la vita, una parte del mio cervello è distratta dalle paranoie. Come sempre. Per questo è importante camminare: per fare spazio dentro di sé, attraverso lo spazio che c’è fuori, e trovare il pensiero giusto. E il mio pensiero giusto all’improvviso arriva: stiamo facendo quello che si deve fare. E sono felice di essere qua.
E: Tutto ha un sapore più dolce quando te lo sei meritato…il vino, la banana di CampiAperti, il formaggio, ma sopratutto la compagnia. Altro non importa. Siamo qui insieme e insieme torniamo. Mentre GI legge sull’eccidio di Sabbiuno di Piano, mi immedesimo nei partigiani del racconto, penso a come sarebbe potuto essere e a quel che significa avere paura di scovati, alla necessità di attaccare, al doversi nascondere per un pericolo reale. La memoria di ciò che è successo mi accarezza i capelli. “Erano più giovani di noi” – penso, “un coraggio incommensurabile se paragonato alla mia angoscia provata solo per arrivare in questo luogo ai tempi del Covid”.
GI: Riprendiamo fiato quando dalla casa esce una persona. Io non la vedo, ma T e GL che sono più in alto di me distinguono il chiarore della brace del tiro della sigaretta. Non abbiamo nessuna luce accesa. Il silenzio è assordante. Deglutisco un po’ di saliva. Pochi minuti cosi’ e l’uomo rientra – “Chissà se ci ha visto?”.
Non credo che nessuno di noi abbia cenato. E credo che siano almeno le 23. Prima di pensare o far qualsiasi cosa occorre mangiare. Io e E abbiamo portato delle banane e 1 litro di vino rosso. Ne offriamo un po’ agli altri che accettano di buon grado. Io prendo un pezzo di formaggio che mi offre T. Mangio e bevo. È decisamente tutto saporito. Ci vuole altro vino. Facciamo un brindisi silenzioso. “Ai partigiani di oggi e di ieri!”
GL: Mangio un pezzo di formaggio e il gracidare delle rane è davvero forte. Non ricordo di averne sentito un altro così intenso. Si beve del vino, e si celebra la Liberazione, forse un po’ anche la nostra che ci siamo riusciti a strappare alla cattività degli ultimi giorni. Ne sono grata e felice, anche se proprio nel momento della sosta, mi rendo conto di quanto quei dieci chilometri di pianura, mi abbiano devastato le gambe. Un piacevole dolore di cui avevo bisogno. Il mio corpo è finalmente vivo.
GI: Leggo il racconto su quanto accaduto qui. Parlo dell’incontro organizzativo che avvenne proprio in quel caseggiato tra la GAP e la SAP che poi ci rimase anche per passare la notte. Parlo del rastrellamento dei tedeschi incominciato proprio da quella casa. Parlo della GAP che per difendere i compagni attacca in una trentina i 200 tedeschi. Parlo del comandante Franco Franchini che guido’ l’assalto perdendoci anche la vita. Tradito da un tedesco che si era finto morto nel fosso. Parlo dei 33 civili e 2 disertori fucilati dai tedeschi per rappresaglia. Fisicamente siamo qui, ma i nostri pensieri eludono la percezione umana del tempo e si spostano seguendo l’algoritmo della resistenza per ritrovarsi in ogni luogo e in ogni lotta partigiana avvenuta pre e post guerra.
E: Dopo aver affinato il piano per ripercorrere i 10 km a ritroso, aspettiamo che le luci della casa del guardiano si spengano completamente prima di attraversare nuovamente quei campi deserti e silenziosi.
GI: Si è fatto tardi, lasciamo di fronte al monumento i nostri mazzi di fiori per poi incamminarci lungo la strada del ritorno. Siamo fulmini. Tutto è oliato. Ci spostiamo nella notte più rapidamente e silenziosamente di prima. Agli incroci sappiamo già cosa fare. Li passiamo come se non ci fossero.
E: Sussurriamo per non farci sentire ma ecco un altro fumatore notturno, sotto il portico di casa sua, che nonostante il buio della notte, non fa una piega nel vederci. Non mi fermo neanche al parcheggio per bere dell’acqua nonostante sto morendo di sete, sono subito al muretto, oltrepasso la strada, arrivo al cespuglio, e finalmente respiro. Siamo tutti e 6 e per ora ce l’abbiamo fatta. Il ritorno è spensierato. Guardo le stelle e quel cielo luminoso, commentiamo il potere della luna paragonandolo al potere dei lampioni, Immaginiamo possibili strategie strampalate per diventare ricchi ai tempi del Covid e ci poniamo quesiti sul cosa avremmo fatto se avessimo trovato una valigia piena di soldi… E piena di armi? E piena droga? Ridiamo di ogni possibile soluzioni…
GI: Quando ad un tratto L si sdraia. T dice: “Andate pure, gli serve un po’ di tempo e poi ripartiamo, ma voi andate”. Ci sediamo tutti a terra. “Si parte e si torna insieme” – mi risuona la canzoncina in testa. Non più di 10 minuti e ripartiamo.
E: Come il ritorno di ogni viaggio, anche questo mi appare più breve dell’andata. “Non ho voglia di rientrare a casa!”. Ci prendiamo una pausa perchè L non ci sta troppo dentro, data la stazza e data l’età. Con la scusa di L, seduti in semicercio iniziamo a parlare delle nostre gesta. “Non ancora! Non puoi dirlo fino a quando non saremo tutti a casa!” mi rimprovera V quando, ogni 2 per 3, gli domando con tono ironico in tono ironico: “Posso dire adesso che siamo dei Grandi?”
Ci fermiamo nuovamente alla panchina lungo il Navile, siamo abbastanza vicini a casa e T ci propone una nuova lettura… Un pezzo di un racconto tratto da un libro di Matteo Meschiari che non avevo mai sentito prima di adesso. Mi piace, ma T si ferma dopo qualche pagina.
T: Lettura da L’ora del mondo di Matteo Meschiari.
Era aprile disse il Mezzo Patriarca rimasto. Era aprile come adesso. Anzi. Era il 25 di aprile. Come oggi. Ma del 1945. Un attimo fa per noi. Per voi carni molli una vita intera. Erano state stagioni di battaglie e di fughe. Vedevamo eserciti e ribelli. Uccisioni. Atti di orrore e di pietà. Per me e per lui però erano solo polvere che si posa e va via. Solo terra che si bagna e si asciuga. Vedi. Era una storia che conoscevamo troppo bene. Che avevamo vissuto sulla nostra pelle fin dai giorni remoti. Fin da prima di questo mondo e delle stelle. Immagina. Due creature eterne. Io e lui. O io e lei. Perché a volte io ero femmina e lui maschio. A volte la femmina era lui e io indossavo il suo opposto. Bene. Lottavamo. Amandoci e odiandoci. Facendoci del male e accarezzandoci. Uguali e diversi. Amici e nemici. A volte io ero un albero e lui la mano che lo tagliava. A volte lui era l’erba e io la falce del contadino. In certe ere del mondo riposavamo e per un po’ eravamo uno. Ma molto spesso vivevamo separati. Per anni. Per minuti. Uno al Tropico del Cancro l’altro al Tropico del Capricorno. E così via lungo le epoche della Terra. Ma eravamo sempre lì sai? Gilgamesh ed Enkidu. Mosè e il Faraone. I contadini e lo Zar. Nordisti e Sudisti. Partigiani e Fascisti. Amore e Odio. Azione e Conoscenza. Sempre. Lì. Fino al dì venticinquesimo di aprile. Quando decise di non parlarmi più. E il giorno in cui sei nata sparì.
Libera per la prima volta capì che si poteva soffrire. Non per una pianta. Ma con una pianta. E aveva gli occhi un po’ acquosi e un po’ rossi.
GI: Tutto scorre liscio fino poco prima del ponte della bionda dove ad un certo punto T mi allerta della sparizione del mio cane. Mi fermo un po’ spaventato e indispettito. Fischio agitato un paio di volte e, dopo poco, lo vedo apparire da dietro una pianta – “Chissà cosa stava facendo? Mah!”
Le sorprese non sono finite. Anche T ha portato qualcosa da leggere. Ci fermiamo su delle panchine, tutti ammucchiati . Rimango ad ascoltare. Non è un riassunto sulla storia del posto. È un racconto fantastico. Rimango a bocca aperta non so bene cosa dire. Il brano è bello, ma sono troppo stanco per discutere.
GL: Lasciamo il nostro pensiero floreale e torniamo sui nostri passi. Facciamo un altro paio di soste, per defaticare il corpo e arricchire il pensiero con un’altra lettura. Poco prima del rientro tra le strade della Bolognina, penso che questa era proprio la notte che aspettavo, tutta, pulita. Siamo riusciti ad emergere dal silenzio della non azione, macabramente imposta e così liberi camminare nella sostanza del tempo.
E: Se non fosse stato per il riccio che P da brava segugia annusava come una disperata proprio a 30 cm dei nostri piedi, l’ultimo pezzo di strada sarebbe stato poco emozionante. Io sono serena e soddisfatta per l’impresa che, purtroppo, sta giungendo al termine.
GI: Ripartiamo e percorriamo velocemente ciò che manca fino ad arrivare al sostegno Torreggiani dove T G e L, dopo i saluti, cambiano strada per raggiungere più agevolmente la propria casa. In 4 continuiamo.
E: Alle 2 di notte ultimi attraversamenti cittadini, di nuovo schiacciati lungo i palazzi, ancora la para di vigili e sbirri, eccoci tornati nella città ostile. Ci fermiamo per l’ultima sigaretta, assaporiamo l’ultimo sorso di vino e di libertà. V svanisce nel buio e rientriamo in casa anche noi. Io, GI, S, P, e C. GL e T hanno svoltato poco prima.
GI: Siamo sotto casa, ma abbiamo ancora un po’ di vino nello zaino, cosi’ raggiungiamo delle panchine appartate dentro al giardino dei donatori di sangue. Ci sediamo, qualcuno fuma una sigaretta. Scherziamo e ridiamo. Il volto è rilassato. Il cuore sgombro. Quando ci lasciamo per raggiungere ognuno la propria casa ci promettiamo di scriverci un messaggio in chat. Io e E e i 2 cani rientriamo a casa. Credo che siamo i primi a scrivere. Arrivano uno dopo l’altro i messaggi dei compagni e delle compagne. All’ultimo messaggio ci spegniamo accasciandoci nel letto, nemmeno il tempo di una buona notte e Morfeo ci concede il suo letargico abbraccio.
E: Arrivano i messaggi.
«Siamo a casa!»
«Anche io sono a casa!»
«Ma quindi adesso possiamo dirlo?», scrivo
«Cosa, che siamo dei grandi cazzooooo?!?? :)»
Rido, sì, siamo stati dei grandi cazzo!