La storia di L
Vivo da 5 anni in un bosco in Val Sangone, nel Comune di Giaveno, in una valle poco abitata tra la Val Chisone e la Val di Susa, in provincia di Torino. In questi giorni di isolamento vengo ripagata potendo uscire, dalla baita in cui vivo, a piedi ed evadere nei boschi in cerca di nuovi sentieri. Per l’evasione antifascista invece sapevo dove volevo andare, due luoghi che ricordano giovani morti. Così il 23 aprile ho raggiunto Roc dou preve, un masso lungo una sterrata che porta alle ultime borgate prima del colle, zona molto vissuta dai partigiani, solo 3 anni fa, in un piccolo ricovero per animali, sono state trovate due casse di armi nascoste lì nel periodo della resistenza. A Roc duo preve vi è una targa che ricorda la morte nel 1945 di un bambino di 8 anni a causa di una mina. Quella fu una zona di rastrellamenti e di azioni molto pesanti anche per i civili. Ci sono andata a piedi dalla mia baita. Ho incontrato solo un residente di un’altra borgata che sostava sulla strada. La lapide è curata e ci sono dei fiori finti. Li ho sistemati, ho toccato quella roccia pensando alla crudeltà di minare zone boschive, ben sapendo che avrebbero portato morte a caso per lungo tempo.
Oggi invece, 25 aprile, sono stata sul versante della Val Sangone che guarda la val di Susa, quota 1000 mt, alle Prese di Fransa. Un altopiano molto bello, ai piedi del Col del Besso, una manciata di baite in pietra abbandonate, bosco di faggi e prati. Lì vi è una lapide in memoria di Tiziano Chiabai, partigiano di Udine, ucciso dai nazifascisti durante i pesanti rastrellamenti svolti in valle nel novembre del 1944. Aveva 18 anni.
Ho portato un vaso con un fiore rosso e ho piantato a terra una margherita. Ho cantato in memoria di tutti i morti durante la resistenza, Siamo i ribelli della montagna e Bella ciao, colonna sonora di questa mia giornata, ho bevuto il serpül che faccio con il timo che raccolgo qui. Lo sguardo fiero di un’altro partigiano ribelle era nel mio cuore, quella di mio nonno, Matteo Cavallera, partigiano nella Brigata Saluzzo, nel cuneese. Ero emozionata e triste. Un senso quasi di timore per dover celebrare questa giornata di nascosto, che trovo molto preoccupante, tristezza perché ero da sola, nessuno era passato di lì oggi a commemorare quella morte ed il suo valore. L’anno scorso, in questo periodo, accompagnavo le classi delle scuole medie dell’hinterland torinese, all’Ossario dei caduti ed alla Fossa comune di Forno di Coazze, luogo simbolo della resistenza in Val Sangone. Quest’anno solo silenzio e senso di impotenza. Ma forte era la voglia di essere lì sapendo che altri stavano recandosi in diversi luoghi della memoria, con la stessa emozione nel cuore.
La storia di A1
Da qualche tempo ci stiamo incontrando, in pochi a dire il vero, 2, massimo 4. È l’unico trefolo cui posso aggrapparmi in questa ritirata asfittica, e altri con me. In alcuni, un atomo, non abbiamo mai smesso di farlo, mai chiuso i battenti sociali. Ora i contatti si infittiscono, con mille precauzioni, sterilizzati anch’essi, ma devono, dobbiamo vederci. La serrata in questa protesi del centro, in questa terra socialmente distanziata dal ‘cuore pulsante’, ha ingobbito quasi tutt* – come altrove del resto – e non dà cenno di allentare. Una clausura sempre più illogica, irrazionale, uguale a sé stessa, seppur senza una vera forma o traccia, mutevole nei giorni e nelle divise. Da tempo ne registro memoria e orma, il solco che scava, sintomi dello stesso male d’altri altrove, comunità fisse e sdrucciolevoli, sfarinate e rarefatte, oblique.
Ieri mi chiama uno dei pochi, di quel giro strettissimo con cui continuiamo o meglio proviamo a non arrenderci.
– Sai cosa è successo? –, chiede con un tono di voce rotto e un ritmo frenetico, urgente. Non viene di persona, come suo solito, ché lo hanno avvertito con fermezza, i suoi orari d’uscita futile sono ridotti al lumicino, all’alba o col buio.
Cosa cazzo può succedere ancora; nemmeno il tempo di rispondere e continua, la necessità comunicativa si fa sempre più pressante: – Hanno fermato il figlio di Z. all’imbarcadero, faceva due passi sul lago.
– Cooosa? –, domando in un vortice di rabbia e stupore.
Non ci posso credere, penso di non aver capito, me ne convinco: ho quel cazzo di rumore metallico che sferraglia sopra la testa, uno dei tanti elicotteri dediti a questa pornografia filmica dell’escursionista, di chi cerca di sgranchire gli arti.
Sono sicuro, DEVO non aver capito.
Questa è quotidianità, a questo siamo ridotti: da giorni pale a tutte le ore, anche col buio, e se non è l’uccello metallico allora sono i suoi moscerini, i droni. A chi mi sta parlando sono comparsi in giardino, dentro casa; G. se li è visti sfrecciare mentre stendeva sul balcone, come anche T.
Il porto cazzo, quella prominenza a getto sull’acqua lungo una linea di pavé deserta, il porto è in centro al paese, non è nemmeno quegli altri 200 m più in là, dove si piazzano e bivaccano i CC, dietro a una curva e riparati, pronti a chiamare l’intervento di altre pattuglie, posti là a spezzare una comunità.
Finora il primissimo tratto di lago tra la punta settentrionale ancora libera, più in là invece vietata e transennata, e fin poco prima della sbirraglia era presidiato dai vigili. Tutt’al più un richiamo e via, a casa, litigi, qualche tensione e pressioni pesanti ma ancora nessuna multa per noi delle “vicinanze”, una piccola zona franca strappata a suon di non ci sto.
– Sì, l’hanno raggiunto, passeggiava e sono intervenuti in motoscafo, dal lago. Sono partiti a tutta velocità, l’hanno preso e gli han fatto il verbale, multato.
– Cioè? Ora escono in barca?! A questo siamo, al sadismo? Cosa cristo stanno facendo, cosa ancora? Dobbiamo vederci.
– Sì, a chi ce la fa prima, ciao. –, in effetti l’incontro era già programmato.
***
Il vetro vibra, ne percepisco chiare le onde, mi attraversano e mi fanno sobbalzare, mi giro di soprassalto.
“Chi è?” – penso – “Ah, certo, guarda com’è conciato”, porta cappello da pescatore, occhiali scuri da cui discende un foulard infilato nel collo della giacca tirata su. Mascherato da folletto da B-movie, degno di un film di Monnezza, è fuori dalla sua portata esistenziale, dai suoi 200 m, senza motivo.
– Entriamo?
– Si, non mi fido a stare qui, ormai è impossibile, mi stanno addosso.”
Scendiamo, prendo due sedie e iniziamo a parlare fitto, in brevissimo tempo concludiamo che basta, è tempo di unire i corpi: le uscite solitarie, individuali non bastano più, non possono. Non sono sufficienti nemmeno quelle a due, come questi incontri vietati e clandestini; dobbiamo ampliare, dobbiamo vederci, sorriderci e se non ci starà il giro contatteremo i montanari, anni luce avanti alla rassegnazione di certi compagni.
Tutt’ad un tratto la porta cigola, le nostre espressioni cambiano, cala immediatamente un silenzio denso, opprimente. Mi scopro a gesticolare, sto indicando un angolo cieco ammassato di materiale, quello che era fisico si tramuta in ombra che muove muta alle mie spalle mentre di slancio salgo le scale.
Falso allarme per fortuna, è lui, potevo immaginarlo, è il suo orario; il riflesso è duro a spegnersi, gesticolo ancora, mimo, gli indico di sbrigarsi e scendere.
Sotto l’ombra è scomparsa, o meglio non la rintraccio subito, sorride infrattata dietro un angolo, anzi no, ha capito e sta ridendo, mima un balzo e: – Stiamo pensando di andare in montagna, ci stai?
– Perché non direttamente al C., alle 10:00 depongono una corona di fiori.
– Bene, può essere –, siamo dell’idea, ma se fossimo solo in 3 avrebbe valore quasi zero, sarebbe soltanto l’ennesima e canonica testimonianza poco più che individuale.
– Ok, ma se non peschiamo un minimo cambiamo piano e torniamo alla montagna.
Cosa è resistenza in questo aprile 2020? Abbiamo convenuto che non è negare ma è non negarsi, Covid-19 c’entra poco, non si tratta di corsa alle armi né del suo semplice ricordo per giunta a un balcone, alla finestra, così come non è guerra a un nemico invisibile, anzi, maledetta sia questa stucchevole retorica. Non si tratta di salire in montagna a combattere o ricordare, si tratta di opporre corpi, distanziati ok, sorrisi e pensiero a un potere che è sempre quello, quello che ci vuole ghettizzati, antisociali, quello che ci vieta di portare un piatto di pasta o un tozzo di formaggio a qualcuno in difficoltà, che spesse volte ci nega DI SAPERE se qualcuno è in difficoltà.
No, non stiamo combattendo un subdolo e invisibile virus: qui, oggi, si tratta di replicare a un virus che ha nome e cognome, fatto di negazioni, divise, confino e abusi, sensi di de-responsabilizzazione assortiti e coercizioni varie, negazionismo scientifico paternale e mascherato, isolamenti in paesi, valli e palazzi già normalmente distanziati, isolati. Prove di controllo che nulla hanno a che vedere con la sanità pubblica e parecchio col gusto del castigo: esci, lavora e torna a casa, esci consuma e torna a casa, come da ragazzini dopo qualche stronzata, “ora TU esci solo per andare a scuola e torni qui, in castigo!”.
Ci accordiamo sul giro di chiamate e decidiamo di aggiornarci al pomeriggio col risultato della conta, con uno straccio di certezza.
Ore frenetiche che man mano si dipanano lasciano un ottimo sapore, presto ci rendiamo conto che qualcosa si è rotto, qualcuno che non si era più visto risponde subito che sì, ci sarà, e alla fine raggiungiamo 18 adesioni, avremmo potuto essere molti di più, forse, ma abbiamo deciso di non lanciare una chiama pubblica, sarebbe stata troppo rischiosa, avrebbe potuto far saltare tutto.
7:00 del mattino, scendo con Z. e controllo la situazione, un’auto dei CC blocca la strada principale, l’elicottero già vola. Io mi dirigo verso la caserma, “merda, sono già tutti fuori, chissà come andrà a finire”, mi dico. La sensazione è comunque buona, l’umore anche, “dai, su che ce la facciamo”.
9:00 del mattino, squilla il telefono: – Sono sotto di te, sono uscito con la scusa di pane e giornale, ho incrociato 3 pattuglie, due muovono e una staziona.
– Ok, dove? Una l’ho vista anch’io, quella ferma, è dalle 7 che la controllo. L’altra che ho incrociato piegava in direzione della P.
– Io ne ho viste in via M., alla S. e in via T..
– Bene, alle 10:00, non un secondo prima, dobbiamo sbucargli tutti assieme –, beate l’operosità e puntualità di qui, alle volte servono davvero.
Alle 10:00 allungo lo sguardo mentre cammino, siamo in 10, poi 12, poi 15, alcuni – pochi – mancano e non si presenteranno. Non importa, ormai è fatta e per dove siamo già 10 corpi sarebbero stati un gran successo.
Assistiamo alla deposizione dei fiori e aspettiamo che finiscano le due canzoni istituzionali, poi ci facciamo sotto e intoniamo Bella ciao, il pezzo prescelto, ci sarebbe di più consono a noi, ma questo lo conoscono tutti e non si sa mai che qualche passante per compere si aggreghi. E così sarà, nel picco sfioriamo le 20 persone.
Le autorità se ne vanno, i vigili controllano torvi e noi – non tutti che qualcuno se ne va subito – decidiamo che non è abbastanza, non tanto perché vogliamo osare, quanto perché finalmente ci siamo incontrati, possiamo guardarci e parlare, quanto è bello parlare guardandosi, quanto è liberatorio!
– Abbiamo del vino? Facciamo un brindisi?
Una voce urla: – Lo porto io, assieme ai bicchieri –, ha assistito e cantato con noi dal suo balcone, posto proprio sopra questa piccola e bellissima manifestazione.
Stappiamo la bottiglia, ridiamo, ci si allontana un passo in più e si calano le mascherine per bere, FdO passano più volte, controllano, scrutano, vanno e tornano ma non possono nulla, oggi sono impotenti. Gli stessi vigili che fino a ieri rimbrottavano e sbucavano da ogni angolo in veste da sceriffi e che domani riprenderanno lo sporco lavoro HANNO ceduto, controllano a distanza e stanno muti, oggi abbiamo rotto l’argine e finito il brindisi in quattro (il doppio del limite di assembramento fissato a due), poi in tre, ci facciamo vicini, discutiamo e progettiamo restando a ridere e finire l’ultima bottiglia per due intense e meravigliose ore, solo troppo brevi.
La storia di A2
Mentre mi muovo, mi rendo conto che molti dei canti che sento sono veramente delle eco, che percepisco solo quando sono nella posizione giusta rispetto agli edifici su cui il canto originale rimbalza. È come essere al centro di un enorme flipper, dove la pallina è il chiù dell’assiolo. Adesso, mentre mi avvicino degli ultimi metri, inizio a percepire l’altezza della fonte del suono. Sono ormai vicino, con pochi passi mi ritrovo sotto alla chioma di un pioppo enorme, da cui il canto continua regolare. Guardo in alto, scandaglio le sagome tra i rami e le foglie nere, sullo sfondo delle nuvole arancio del cielo cittadino. Muovo piano la testa. Il suono cessa. Rimango fermo immobile, tendo l’udito, il silenzio fischia tutt’intorno. Mi sembra di indovinare, tra le mille forme scure, una più regolare, appoggiata su un ramo, tondetta e minuta. Allungo il collo, osservo il minimo movimento.
All’improvviso, da lontano sento una macchina avvicinarsi all’incrocio, ancora non la vedo, nascosta dietro la siepe che circonda il cancello del parchetto. A quest’ora, sicuro che è la polizia, penso. Penso anche che io sono a 500 metri buoni da casa mia, e che potrei essere l’unica persona in strada di tutto il quartiere. Mi sento speciale ma anche un po’ esposto allo stesso tempo… è palese che non stia andando a fare la spesa. Troppo tardi per giocare a guardie e ladri e accovacciarsi dietro ad una macchina, l’auto sbuca dalla siepe e si ferma al semaforo, proprio di fianco a me, e mi trovo faccia a faccia con la polizia di stato (quelli meno amabili), cinque metri ci separano. La paranoia degli ultimi tempi, tutto l’impegno speso a pensare ad una scusa plausibile ogni volta che sono uscito di casa, le storie di prima mano di multe arbitrarie e inappellabili che ho sentito durante tutta la quarantena, rendono la mia situazione disperata quasi comica. In tutto questo sono in calze ed infradito, non posso neanche scappare. Tutto l’allenamento, tutte quelle corsette, sprecate. In un attimo scelgo la parte dell’ornitologo nerd ed inizio a fischiare fiù sulla stessa nota dell’assiolo, sperando in una risposta che possa fornirmi un alibi. Già mi ci vedo a convincere le guardie che la bellezza di quel richiamo è un motivo degno di autocertificazione. Dai, assiolo, canta, ti prego. Semaforo verde, l’auto riparte e mentre scompare lontano il canto riprende, ma adesso proviene dai cortili al di là della strada.
Me ne torno sciabattando verso casa. Mentre mi allontano, ricomincio a sentire intorno a me le eco del chiù, che cambiano di direzione e di ritmo man mano che percorro i cinquecento metri che mi riportano a casa, man mano che muta la configurazione degli specchi sonori dei palazzi intorno a me.
***
Mentre mangiamo tutti e tre tranquilli al sole nel nostro giardino, iniziamo a sentire un ronzio lontano, fastidioso, che aumenta via via di intensità. “Ma… lo sentite anche voi?“ chiedo. A. aggrotta le sopracciglia, tende le orecchie, guarda in alto e dice: “Cosa è?“, e mi indica un puntino in cielo, che si ingrandisce man mano che si avvicina, nero sullo sfondo azzurro. Un pettirosso si getta a capofitto dentro alla siepe, cinguettando all’impazzata. Poi silenzio, solo il ronzio meccanico del coso sopra di noi, con le lucette rosse accese. Il merlo arriva volando e si posa sul nostro tavolo, ci guarda, fischia due volte e riparte in volo.
All’improvviso dagli alberi, dai cortili, dalle siepi, dalle fessure degli edifici, dai comignoli, monta un fragore di fruscii di foglie e di rami, di cinguettii di guerra, le penne di arruffano, soffi e fischi da accapponare la pelle, tutto intorno a noi è agitazione. Vediamo uscire dall’edera, dalle chiome degli alberi, dalle siepi, miriadi di pennuti che si lanciano verso il drone. Sono così tanti che oscurano il sole, mentre la parabola del loro volo si avvicina all’obbiettivo, che ronza immobile ed ebete. Un istante dopo il ronzio cessa bruscamente in uno sbuffo di piume ed il drone rovina a terra con un tonfo di ferraglia e plastica fracassati, sul ghiaino dei vicini.
Il merlo torna al tavolo. Noi strappiamo un grosso pezzo di mollica di pane e glielo porgiamo, prima che voli via veloce. Poi riprendiamo a mangiare la nostra pasta al sugo di ortiche e papaveri.
La storia di D.
Domani sarà diverso perché è il 25…
I primi giorni, quando l’onda del brusio cresceva più della curva dei morti, mi ero anche prodigato a spiegare. In montagna non ci vengo. Punto. In montagna non si va. Punto. Perché basta una storta alla Torre, e si tira in piedi un casino per nulla.
A quei giorni si poteva ancora uscire. Anche al piano. Si poteva ancora praticare nel prato. Restando a tre metri. Si poteva passeggiare, da soli, senza far male a una mosca. Aveva senso non salire: sacrifico un po’ del mio per evitar a mio fratello più piccolo, volontario nel Soccorso, di stare in ballo 5 ore per venire pigliarmi anche solo per una stupida storta. Sai che casino se poi mi trovan con la goccia al naso?
Ti guardano… due battute e si ride lo stesso, mentre tutti però pensano: “…e se fosse Covid ?” … No no. Meglio lasciar perdere.
Anche se di là del lago, vedevi netta la traccia degli skialper fuori regione. Avevano approfittato del blocco. A quel tempo ancora solo per noi. Ma all’inizio aveva senso. In montagna non ci vengo. Punto. In montagna era giusto non andare. Punto. Ma domani… domani sarà diverso, perché è il 25.
Già era accaduto. Il sabato prima del lunedì in cui è dilagato il divieto, ci accosta in auto la Polizia. Un agente che conosco. Mi dice assertivo: “Ma non li sai, i morti? … ma allora, non li vedi i tiggì? … pensate di essere i furbi? … i più furbi? Le regole son fatte per esser rispettate”.
Rispondo che non c’è alcun divieto vigente. Che stiamo lavorando. “Vuoi l’autocertificazione?”
Non gli dico che camminavamo a tre metri. Lo ha visto. Non gli dico che indossiamo la mascherina. Lo vede. Non gli dico che la moglie di Beppe indossa due ore al giorno la bombola dell’ossigeno. Già lo sa.
“Era solo per avvisarvi… avvisati, mezzi salvati”. Ripartono. In auto. In due senza mascherina.
Dal lunedì dopo niente più spostamenti se non per le celeberrime ragioni. Due settimane abbiam resistito. La terza era troppo. Le buone ragioni per stare a baita restavano tutte. Ma già allora non se ne poteva più. Ma la prima fuga non è stata politica. Perché mica era il 25. Era solo un bisogno profondo. Limbico. Di stanchezza e cielo.
Per tre settimane, la troppo zelante protezione civile ha infatti consegnato pacchi per il paese con l’alto parlante acceso. Solo la voce del poliziotto. Lo stesso dell’ ultimo sabato all’aria:
Èbenerestareacasapercombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Benerestareacasa.
Percombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Èbenerestareacasa.
Percombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Per tre, quattro volte al giorno. Anche nei posti strambi. Addirittura per i boschi perdio! Li sentivi quando passavano lenti, vicino alla persona con cui eri al telefono…” ‘spetta che passano… Èbenerestareacasapercombat… ok,vai:ora ti sento”
Siam scappati di notte per sfogare l’eccessiva pressione subita. Partiti alle 5 e rientrati alle 17. A piedi da casa. Già un viaggio. Solo un chilometro su trenta di strada carrozzabile. Il resto boschi. Milleotto d+. Niente cima. Troppo esposta. Ne avevano già presi una mezza dozzina i forestali. Unendo l’utile (… la passeggiata che li tiene in salute) al dilettevole (… la caccia ai camminatori di boschi).
Non cammino per 24 ore. E mi vien pure la febbre. Ho esagerato dopo un mese di blocco totale. Ma ne avevo bisogno. Non era “politico” allora, era solo il corpo… Tre camosci nel canale a nord. E i larici. Sole. E il sole. Dio quanto sole. Anche troppo. Ho avuto la febbre due giorni… E l’elicottero. Ha fatto due giri e poi via verso nord. Ma tanto gli eravamo già sopra… lo abbiamo visto dall’alto… e se fosse stato politico già il primo sgarro?
Ma domani non è il bisogno di andare. E proprio che si vuole andare. Perché è il 25.
“Ciao D., si, tutto ok… dici di fare oggi?” Ci penso. Ha ragione. Domani è il 25 e ci saranno i blocchi stradali. Temono le fughe verso le seconde case. “Andata allora, a stasera”
Stacco un’ora prima e mi fermo a comprare due dalie rosse. Raggiungo D. al suo paese. Ha l’auto piena di cartoni. Anziché fermarci al centro di raccolta proseguiamo qualche decina di metri e prima della galleria svoltiamo a monte. Saliamo al tornante e lasciamo lì l’auto. Passiamo la volta rugosa del vecchio tunnel del saggio di scavo per la statale. La strada passa lì sotto a quaranta metri, fra il lago e la parete. La statale, che di solito rigurgita il caos è deserta. Il sentiero d’accesso al luogo della fucilazione è stato tagliato di fresco e ridiamo. Si sentono solo le pietre cadere dalla scarpata di sopra. Forse un cinghiale. Ed un mare di uccelli. D. posa le dalie e le innaffia. “Bello qui, non c’ero mai stato. Ci tornerò il 26 a piantarle.”
Il 26 D. torna e le pianta. Trova un altro mazzo di fiori. Al ritorno lo fermano i carabinieri. Se la cava. Stava andando al centro di raccolta a buttare i cartoni ma era chiuso.
La storia di I
Ci pensavo da qualche giorno: cosa faccio il 25 aprile? Resto a casa con la mia famiglia? Per me il 25 aprile è sempre stata l’unica vera festa, quella che merita di essere festeggiata e durante la quale, appunto, si fa festa. Si sta con gli amici, si mangia, si beve, si balla, si ascolta musica, si va a sentir la banda suonare davanti al monumento ai caduti per la Resistenza, si ritrova quella piccola comunità di persone che ancora un po’ ci crede in quei valori che sono anche i tuoi.
E a maggior ragione in questi giorni di autoritarismo strisciante (o forse sarebbe meglio dire manifesto), pensavo, è importante riaffermare quei valori. Proprio quest’anno sarebbe stato importante festeggiare il 25 aprile in grande stile. Aspettavo qualche notizia, qualche cenno, sussurro, spiffero di altri come me che sentivano l’esigenza di festeggiarlo fisicamente questo 25 aprile, in piazza, con le dovute cautele, ma con la propria presenza. Invece niente. I sussurri parlavano di cantate collettive, alla finestra o online, di incontri virtuali in rete, di proiezioni di documentari o film a tema.
Venerdì pomeriggio ero nel campo davanti casa e guardavo gli iris che stanno esplodendo in questi giorni e mi è venuta l’idea, non molto originale, certo. A cena ho informato la mia famiglia che sarei andato a portare dei fiori al monumento ai caduti per la Resistenza la sera stessa perché, ho pensato, domattina sarà pieno di polizia e non mi farebbero nemmeno avvicinare. Mia figlia si è preoccupata che mi arrestassero, mia moglie ha preso la notizia con ironica rassegnazione, sapendo però che stavo facendo una cosa a cui tenevo.
Alle 21:30 ho inforcato la bici e mi sono diretto verso la città. Abito in campagna, a circa 7 chilometri dal centro di Pistoia dove si trova Piazza della Resistenza e il suo giardino, all’interno del quale c’è il monumento. Facendo la doccia avevo studiato il percorso in modo da evitare le strade principali e più frequentate. Ho incrociato qualche auto e qualche passeggiatore solitario e dopo circa 25 minuti sono arrivato in piazza. Ho legato la bici, sono entrato nel giardino attraverso un varco tra le siepi, ho preparato il vaso con acqua e fiori che mi ero portato da casa, ho posato la Costituzione accanto al vaso, ho scattato una fotografia e sono uscito dal giardino. Dopo 25 minuti ero a casa senza aver preso multe o denunce. Mia nonna abita vicino a piazza della Resistenza, quindi, in caso di blocco, avrei potuto escogitare una scusa, ma avevo deciso di dichiarare esplicitamente la ragione della mia uscita.
Oggi ho riflettuto a lungo sull’episodio di ieri sera. E’ un’azione assolutamente insignificante per il resto del mondo, ma non per me. Il bisogno era prima di tutto fisico perché non potevo pensare di passare un 25 aprile con le mani in mano; poi per riconoscenza: i partigiani mettevano quotidianamente a rischio le loro vite e io non posso rischiare una multa e una denuncia?; infine un certo senso di vergogna: come mi sentirò se non lo faccio?
Ma quello che mi ha colpito di più è stata la sensazione successiva alla “azione”. Ancora la vergogna, ma stavolta perché avevo fatto una cosa con il cuore, convinto che fosse giusta oltre che necessaria, ma l’avevo fatta di nascosto, come un ladro. Avrei dovuto farla a mezzogiorno, davanti a tutti, anche alla polizia. Ma non ho avuto il coraggio.
E così si riaffacciano tutti quei dubbi che mi porto dentro da anni sulla mia inadeguatezza di fronte ai problemi che ci pone il mondo. Cosa significa essere di sinistra? E’ sufficiente leggere i libri giusti (ammesso che ci siano), moderare i consumi, andare in bicicletta e fare un sacco di altre cose giuste, ma che non spostano di un millimetro lo stato delle cose, per sentirsi in pace con la propria coscienza? Abito in un bel posto, faccio un lavoro che mi piace e ho la pancia piena tutti i giorni: probabilmente sono molto più borghese di quello che vorrei o, come dicevano negli anni settanta con tono dispregiativo, un piccolo borghese.
La mia generazione è stata totalmente castrata dal punto di vista politico. Ha prodotto Letta, Renzi e Salvini. Oggi, 25 aprile 2020 ha perso l’ennesima, forse ultima, occasione che aveva, quella di scendere in strada a festeggiare la festa della Liberazione, a manifestare col proprio corpo il dissenso alla gestione approssimativa, mistificatoria, incompetente e autoritaria dell’emergenza Covid. Invece è restata a casa, nel migliore dei casi alla finestra o davanti ad un PC a cantare Bella ciao, comprese tante persone a cui voglio bene. Io non ho né una forza morale né una capacità politica tali da poter giudicare queste persone. Hanno fatto quello che si sono sentite di fare, così come ho fatto io, ma, né io né loro cambieremo le cose.
Spero ancora nei ragazzi, con cui ho a che fare quotidianamente, e nella loro voglia di riprendersi il mondo che abbiamo scippato loro. Spero ancora negli ultimi, quelli che non hanno più niente da perdere eccetto la loro dignità. Io, intanto, continuerò a portare fiori al monumento ai caduti della Resistenza o sul luogo dell’uccisione di Silvano Fedi, comandante anarchico delle Squadre Franche Libertarie di Pistoia ucciso dai tedeschi il 29 luglio 1944 che, proprio oggi, avrebbe compiuto 100 anni. Lo farò perché mi fa sentire bene.
Vi saluto con le parole di un mio ex studente (di cui sono molto orgoglioso):
Questo è il momento in cui chi ha il coraggio e la forza di volontà va sulle montagne. Adesso, senza perdere altro tempo, capiamo quali sono le nostre montagne, troviamo le nostre armi, creiamo un progetto dietro cui unirci e resistiamo. Abbiamo mille ragioni per cui saremo sconfitti, ma di giustificazioni per non fare la nostra lotta, nemmeno una.
La storia di M
Quando esco per andare da D. è diverso. Succede sempre ad orari in cui la strada scivola sotto le ruote come un nastro scuro di VHS e le immagini si srotolano in un’eterna curva verticale. Di notte il tempo rallenta e la paura non esiste perché sai che si tratta solo di un sogno. Mi sento l’unico essere vivente, l’unico oggetto in movimento. Dopo la giusta quantità di alcol sembra sempre una buona idea; il giorno dopo riapro gli occhi un po’ stordita chiedendomi se sono fortunata o folle, però mi sento viva ed è per questo che non mi va di rinunciare a nutrire questo piccolo mostriciattolo anarchico che ormai mi è diventato simpatico.
A casa beviamo ancora qualcosa insieme, un distillato di pera in una bottiglia di cantina regalata da un amico, nel quale D. ritiene di spremere del limone. Pessimo risultato. Parliamo per ore e, come al solito, non saprei dire di cosa, intanto finiscono le sigarette; per fortuna c’è ancora il tabacco. Ok, andiamo a letto, ma niente sesso, solo abbracciati. Ci credo quando lo dico – giuro – poi però l’odore della sua pelle disinnesca ogni logica e si appanna la finestra dietro cui le ragioni stanno ancora argomentando le loro tesi con ardore.
Lo bacio sulle tempie per un tempo infinito, lui sembra capire, ci abbracciamo. Un attimo dopo labbra, anime e fluidi si stanno mescolando a un ritmo dolce, profondo, antico. Quando facciamo l’amore così mi sale un po’ di malinconia perché vorrei che non finisse mai e inizio a pensare al nome che ti darei. Chissà se un giorno potrò raccontarti che sei stata concepita il 25 aprile 2020, da un atto di amore e resistenza. Chissà se riuscirò a spiegarti che meraviglioso casino eravamo tuo padre ed io, nonostante tutto. Chissà se deciderai di attraversami e con quale forma, con quale suono, se diventerai di carne o se resterai d’inchiostro.
In ogni caso saresti poesia o forse lo sei già.