Ci volevano chiuse e chiusi in casa, anche nella giornata della Festa della liberazione dal nazifascismo. L’invito era ai festeggiamenti “virtuali”, il massimo concesso – per chi poteva accedere a un balcone (un balcone! Come non associarlo, il 25 aprile, a quello di piazza Venezia a Roma, altare del verbo fascista durante il Ventennio?) – l’esposizione del tricolore, l’intonazione di Bella ciao.
Ma l’occasione ha fatto fremere i corpi e tremare le gambe, e tante sono le testimonianze che si registrano di piccoli gesti ribelli (come quelle che si possono leggere nei commenti a questo post su Giap, post che è a sua volta il resoconto di una resistente evasione, meta il dirupo di Sabbiuno), di persone – con le necessarie cautele – nelle strade a commemorare le donne e gli uomini che hanno fatto la resistenza. Tra le tante, meritorio di menzione è quanto organizzato “in basso” da donne e uomini liberi che con una staffetta – la staffetta della lupa verde – hanno portato a Monte Sole pensieri resistenti raccolti lungo il tragitto. Purtroppo, senza troppa sorpresa, si sono registrati anche casi di repressione poliziesca, come nel caso, il più grave, di Milano.
In questo post iniziamo a raccogliere le resistenti evasioni che abbiamo agito, i racconti che abbiamo ricevuto, consapevoli, ancor più dopo gli ultimi annunci sulla presunta “fase 2”, che gesti come questi dovremo produrne molti per riuscire a forzare un’apertura nelle gabbie in cui ci troviamo costrett*.
È stata, nonostante tutto, una giornata di festa per molte e molti. Prima di lasciarvi ai racconti, vogliamo mostrarvi quanto avvenuto a Trieste, nelle strade della città vecchia e rispettando il distanziamento fisico: un ballo collettivo e liberatorio, un rito laico propiziatorio per quando torneremo a occupare lo spazio pubblico.
La storia di F1
Nei giorni precedenti l’ho scritto via mail a tutte le persone che vivono vicine
Care tutte, cari tutti,
ci penso già da qualche giorno e la lettura di questo articolo della Wu Ming Foundation mi conforta nel proposito. Nella giornata di sabato 25 aprile, insieme alle persone con cui vivo, ho intenzione di recarmi sulle targhe dei partigiani orbassanesi, deporre dei fiori, cantare delle canzoni. Manterremo il distanziamento fisico, indosseremo mascherine.
Furono il senso di responsabilità e l’amore per la libertà a spingere partigiane e partigiani a disobbedire.
F.
PS: Se decidete di far circolare questo messaggio in altri ambiti, magari assumetevene la responsabilità e sostituite il mio nome con il vostro.
Ho ricevuto due risposte. Gino Gallo, lo storico locale di Rivalta, mi ha chiesto di portare il saluto suo e di sua moglie alle salme dei partigiani rivaltesi sepolti a Orbassano e un altro compagno, Gianni, che dopo lettura della mia mail ha deciso che avrebbe girato il suo contributo per un videomessaggio alle comunità palestinesi fuori, in strada. Stop.
Il 25 siamo uscite. S. e io a piedi, M. in bici. Appena abbiamo messo il naso fuori dal cancelletto condominiale, è passata la macchina dei carabinieri.
– Ritornano alla base. – La caserma dei CC è a centocinquantametri da casa.
– Sono entrati nel parcheggio. Stai a vedere che fanno inversione.
Invece no. Proseguono verso ovest.
Ci incamminiamo. La prima targa è vicina. Ricorda Armando Rossi e Leonardo Tarable, due civili trucidati dai tedeschi in ritirata il 29 aprile 1945. Quel giorno le armate naziste cannoneggiarono il paese, si diedero a razzie e uccisero sette persone. La violenza devastante dei colpi di coda.
S. ha raccolto fiori di tarassaco, io pratoline. Lasciamo qualche fiore sulla targa. Poi ci muoviamo verso la piazza. Il silenzio è irreale, il sole ci scalda. M. corre avanti con la bici e noi più lente, a chiacchierare, dietro.
In piazza c’è un’altra targa. La sindaca ha fatto il suo giro istituzionale, una corona al milite ignoto della prima guerra mondiale, una al monumento per “gli orbassanesi immolatisi per la patria e la libertà”, ma qui, a trenta metri dal municipio, non ha lasciato niente. I nomi scritti sono quelli di Vincenzo Ventrella e Giulio Corino, entrambi partigiani, entrambi impiccati in piazza nell’estate del 1944 come monito alla cittadinanza.
La targa è troppo in alto e non saprei proprio come arrivarci. Lasciamo i fiori in un incavo di una colonna della chiesa, lì affianco, e poi cantiamo Siam le ribelli della montagna. È una delle canzoni preferite di M., ma non partecipa. Ci guarda a distanza di sicurezza e sorride.
Esiste anche un video che testimonia la performance canora. L’intonazione è un’altra cosa.
Ci dirigiamo verso il cimitero, qui ci sono le lapidi di partigiani orbassanesi e rivaltesi operanti in Valsangone. Ogni volta che incrociamo un altro essere umano S. ci prova:
– Buongiorno, buon 25 aprile.
Silenzio.
Il cancello del cimitero è chiuso da catena e lucchetto. Tiro fuori dalla borsa un foglio e lo scotch di carta. Scriviamo un messaggio. Poi esito un secondo. Guardo davanti e c’è scritto “area video sorvegliata” e quindi smetto di esitare. Firmo. Firmano anche Sara e Miriam. Fissiamo il foglio sul cancello e incastriamo i fiori fra le sbarre.
M. ci fa una foto e poi lentamente torniamo verso casa.
Ripenso alle manifestazioni a cui abbiamo partecipato in questo stesso giorno negli anni precedenti e concludo ad alta voce.
– Il nostro 25 aprile questa volta è davvero una liberazione.
La storia di Y
Qua dove vivo il 25 Aprile non si festeggia, visto che Vienna fu liberata dall’Armata Rossa, alla fine della battaglia che ci fu tra il 2 e il 13 Aprile del 1945, contro la Wehrmacht. A ogni modo qualcosa volevo farla anch’io. Anche qua c’è stata la Resistenza, ci sono state persone che combatterono il nazifascismo. Così decido di uscire e andare a rendere omaggio a Johann Gärtner, di cui ho visto la targa davanti all’ingresso della stazione di cambio dei tram qui nel distretto dove vivo.
Passo spesso davanti a questa targa, visto che è su uno dei percorsi che faccio per andare o tornare dal parco che sta davanti al palazzo di Schönbrunn. Sulla targa si legge che visse e lavorò per la libertà e l’unità. Per saperne un po’ di più ho dovuto fare qualche ricerca in internet: era un reduce decorato della prima guerra mondiale, membro del partito socialdemocratico dei lavoratori e del sindacato. Conduttore di Tram, in servizio presso la stazione operativa del quindicesimo distretto, quella dove ora c’è la targa che i suoi colleghi posero in suo ricordo. Faceva parte del Servizio rosso e fu arrestato nel settembre del 1943, venne processato insieme alla moglie per “Vorbereitung zum Hochverrat” (preparazione all’alto tradimento). Fu giustiziato nel novembre del 1944, sua moglie – di cui non ho trovato il nome – fu condannata a 10 anni di prigione.
E così sono uscito di casa e ho raggiunto la targa davanti alla stazione di servizio Rudolfsheim. Intorno non c’era nessuno, poche auto passavano sulla Mariahilferstrasse e non c’era nessuno a lavorare nelle sale dove stanno parcheggiati i tram. Mi sono sentito un po’ stupido per essere arrivato lì senza neppure un fiore da posare. Così, anche se stonato, ho cantato Fischia il vento / infuria la bufera / scarpe rotte / eppur bisogna andar…
La storia di F2
Sì, l’antifascismo deve essere una pratica quotidiana, ancora meglio – o ancor di più – una prassi che nel quotidiano si attiva a contrastare il microfascismo: l’antifascismo come arte marziale che abbia come proprio fine la liberazione dei nostri discorsi e dei nostri atti, dei nostri cuori e dei nostri desideri dal fascismo. Il compito di una vita, o almeno di una vita non fascista. Allo stesso tempo non vi è contraddizione se il 25 aprile di ogni anno, nel giorno che rappresenta la data convenzionale della liberazione in Italia dal nazifascismo, si sente il bisogno di portare il culo fuori dallo spazio privato della propria abitazione, per riprendersi lo spazio pubblico proprio così come successe 75 anni fa, e ricordare collettivamente le donne e gli uomini che per il loro antifascismo e durante la resistenza perirono, nelle strade e nelle piazze, o lungo i sentieri segnati dalle pesta dei ribelli e delle ribelli delle montagne.
Riaffermare in questi tempi di confinamento – in cui la dimensione collettiva è rappresentata da almeno due corpi fianco a fianco, anche alla distanza reciproca di un metro – il valore del 25 aprile fuoriuscendo dallo spazio domestico e non abbandonandolo alle stantie celebrazioni ufficiali era più che mai necessario.
Ed è così che sabato mattina dopo aver studiato un piano d’azione, indossata mascherina e fazzoletto rosso al collo, inforchiamo le biciclette e scendiamo in strada, a Brescia. Siamo in quattro: io, mia moglie F., nostro figlio E. e Gabet, l’amico immaginario di E. che da qualche settimana a questa parte è tornato a presentarsi. Gabet è un cittadino del mondo, si muove come si muovono i cirrocumuli nel cielo. Non è un convivente del nostro nucleo famigliare: ultimamente, durante questo confinamento che non può imbrigliarlo, si mette in contatto con E. da luoghi a noi vicini o lontani, solitamente mentre è impegnato in qualche monellata. Invitato, non ha dubitato un attimo dall’unirsi a noi: ogni amic* immaginari* – pensateci – non può che essere intimamente antifascista.
Ci spostiamo di buona lena, lo spazio che ci divide dalla nostra meta non è molto ma comunque superiore a quello concesso per gli spostamenti.
Una volta arrivati a destinazione, troviamo ad aspettarci un amico, nome di battaglia “Lilli”, con cui avevamo fissato un appuntamento. Non ci vediamo da settimane, già è festa ritrovarsi. Lì, anche se con i volti coperti – i volti coperti sì, ma coperti per farci vedere – alziamo gli occhi alla targa apposta sul muro di via Gorizia, via laterale di un più importante viale che è stato attraversato da generazioni di operai e (in tempo di guerra) operaie, poiché porta verso l’ingresso della storica fabbrica OM (ora Iveco).
Leggiamo ad alta voce l’iscrizione sulla lastra posata sulla facciata di un edificio. Infiliamo su un gancio posto sotto la lastra la nostra corona DIY – rosmarino profumato e rose rosse, intrecciati dalle mani di F. –, appena al di sotto di altri due mazzetti di fiori freschi che, con piacere, troviamo già posizionati. La nostra presenza non è dunque la prima della giornata ad aver voluto ricordare Luigi Malzanini. Malzanini che oggi, qui, per noi, è la parte che rappresenta il tutto: la resistenza.
Operaio prima alla Franchi e poi alla Breda, Malzanini erano comunista e dentro alle fabbriche svolse assidua attività antifascista, diffondendo la stampa clandestina. Partecipò ad alcune azioni contro caserme site a Brescia, dovendo poi fuggire entrò in contatto con i primi nuclei di partigiani, operanti a Botticino e in Valtrompia, ma venne presto arrestato. Il 10 dicembre 1943, tentò la fuga mentre veniva trasportato da prigioniero su un camion, ma i colpi di mitraglia lo raggiunsero a poche decine di metri e lo freddarono.
Dei fiori per lui, alla sua memoria, che vogliono essere un fiore – un pensiero e un patto e un gesto e un ricordo grato – a ogni ribelle antifascista.
Rimontati in bicicletta, nelle vie semivuote, pedaliamo intonando Fischia il vento… è il tempo del confinamento, e pur bisogna andar.
La storia di D1
Vivo alle pendici di un monte che è trapuntato di ricordi Partigiani, alcuni eclatanti, altri minori, ma comunque tanti.
Pertanto mi è pesato non potere, quest’anno per la prima volta, fare un laico pellegrinaggio ad onorare almeno alcuni dei luoghi della Resistenza a me vicini. Ma mio figlio ha 11 mesi e muoversi più di tanto con lui – soprattutto con le attuali restrizioni – è impossibile, andarci senza lui e la mia compagna mi pareva insensato.
Stamattina ho però presenziato – come amministratore comunale – alle “celebrazioni ufficiali del 25 aprile”. Di solito comportano banda, folta partecipazione popolare e affari d’oro per i fiorai, che da noi le lapidi partigiane sono decine. Oggi eravamo quattro: io, il sindaco, il vicesindaco e un rappresentante dell’ANPI (e paradossalmente non è poco: fino a ieri una circolare prefettizia imponeva che fosse un solo amministratore, senza alcun accompagnatore, a deporre gli omaggi floreali, poi pressioni dell’ANPI han fatto allargare le maglie).
Nessun discorso comunque, niente musica, nessun applauso.
Solo silenzio.
A modo suo è stato emozionante, e l’emozione in questione era la tristezza. Sembrava che le mascherine ci avessero tolto la voce. Le foto della posa della corona e dei fiori sono uno scarno quadro surreale, in cui si vede che c’è qualcosa di sbagliato: non c’è comunione, non c’è socialità, non c’è vita.
Tornato a casa ho montato l’ampli portatile e sono andato su un prato vicino a casa, che sovrasta la frazione in cui vivo.
All’inizio avevamo pensato, con mia moglie, di cantare I Ribelli della montagna (ignorando l’invito a fare Bella Ciao, canto che non amo pur se qui in Val di Susa ha un gusto particolare, per come è stato adottato dal movimento notav), ma le esigenze di nostro figlio rendono impossibile al momento fare cose insieme. Allora ho preso la chitarra e ho accennato una strofa di Fischia il Vento – scelta banale forse, ma facilmente riconoscibile –, disturbando il silenzio frammentato solo dai richiami dei passeri e delle cornacchie. Niente di che, ma il mio borgo ha ascoltato qualche nota partigiana, in questo settantacinquesimo di ordinata, ligia, grigia e perniciosa clausura. Un’evasione musicale, che spero possa essere stata almeno un po’ collettiva. Domani scendo in borgata e chiedo.
La storia di M1
A Trieste c’è un largo vallone che dal Borgo Teresiano si infila tra le colline fino ai pendii di Guardiella e San Giovanni. Nel fondo pianeggiante del vallone alla fine dell’ottocento si è sviluppato il rione di Barriera Nuova. Sui fianchi delle colline invece i vecchi paesini sono ormai stati inglobati dalla nuova periferia della città. Noi abitiamo su uno dei due versanti, chiamato “lo scoglietto”, vicino all’ università. Sul versante opposto, in via Pindemonte, al limitare del bosco, c’è la targa in ricordo della partigiana Alma Vivoda, che sul sito dell’ANPI viene definita “la prima caduta della resistenza italiana”.
Alma Vivoda faceva parte del gruppo di giovani donne e uomini della classe operaia triestina che entrarono in clandestinità e cominciarono a collaborare con la resistenza slovena già tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. Il partito comunista aveva mantenuto per tutto il ventennio fascista le sue cellule all’interno delle grandi fabbriche di Trieste e Monfalcone. Dopo l’invasione italiana della Jugoslavia, nell’aprile del 1941, in tutti i territori a maggioranza slovena all’interno dei confini italiani nacquero in parte spontaneamente dalle ceneri del TIGR, e in parte su impulso dell’ Osvobodilna Fronta guidata dal partito comunista sloveno, le prime brigate partigiane in appoggio alla resistenza jugoslava. Alla fine del 1942 anche i comunisti italiani formarono i loro primi distaccamenti, sul collio friulano e sul carso triestino. Alma Vivoda, Ondina Peteani, l’intera famiglia Fontanot… le vicende di questa resistenza di confine le ha raccontate Andrea Olivieri nel suo non-romanzo Una cosa oscura, senza pregio, intrecciate alla storia della sua famiglia e a quella dello scrittore sloveno/americano Louis Adamic. Leggetelo, se non l’avete ancora fatto, perché è un gran bel libro.
Alma Vivoda fu uccisa in un agguato dai fascisti il 26 giugno 1943. Nella primavera del 1943 non c’era ancora stata nessuna invasione tedesca dell’Italia. L’invasore contro cui stavano combattendo l’italiana Alma Vivoda e i suoi compagni era l’Italia fascista, e il paese invaso la Jugoslavia. La storia della resistenza giuliana è una storia di internazionalismo e di lotta di classe, e raccontarla manda gambe all’aria la narrazione nazionalpatriottica sul 25 aprile che si è andata via via imponendo in Italia negli ultimi anni. Per questo, scendere dallo scoglietto e risalire via Pindemonte per portare clandestinamente un fiore ad Alma Vivoda, sul limitare del bosco, mentre nel cono d’ombra del virus la polizia pattuglia le strade e perquisisce persone a caso per motivi arbitrari, e il potere esecutivo ci intima di celebrare il 25 aprile restando in casa e sventolando tricolori, è stato un piccolo atto di insubordinazione.
Abbiamo portato i garofani rossi, abbiamo cantato Fischia il vento e Sivi sokole stonando a mezza voce come ubriachi timidi, e abbiamo parlato con una signora che aveva acceso una candela rossa sotto la lapide. Sulla via del ritorno, abbiamo lasciato ancora un garofano sotto la targa che ricorda i morti e i torturati nella villa triste di via Cologna, per mano della banda Collotti, e un altro ancora sotto la targa che ricorda gli ospiti della casa di riposo ebraica di via Kandler deportati ad Auschwitz.
Tornati a casa, abbiamo brindato col vino rosso, perché è giusto così.
La storia di D2
25 Aprile festa della liberazione dal nazifascismo.
Ci troviamo in pochi, si evade si onora la resistenza.
Monumenti e lapidi in ricordo della repressione nazifascista sono sparsi in ogni paese del comune.
Ricordiamo i caduti per la libertà a modo nostro brindando presso ogni monumento.
La vergogna che proviamo è nel vedere assenti le istituzioni comunali, populisti che vanno a pari passo con i fascisti e nemmeno degni di due parole sullo schifo di facebook.
Schiviamo due pattuglie, ci assale l’idea di dover discutere con i servi dello stato. Ci va bene, non ci fermano, stanno controllando altre macchine.
Si continua con il nostro tour antifascista. Ogni monumento un bicchiere in ricordo degli eroi.
La storia di R
Cerco sul telefono sulla pagina delle lapidi partigiane quella di Agostino Priuli. Nei giorni scorsi ho fatto una ricerca e ho visto che, tolta quella chiusa negli uffici del comune, è la più vicina a casa nostra. Pagina caricata, pronta per la lettura, E. prende i fori di carta che ha realizzato l’altro ieri con la mamma, la quale mette in borsa lo scotch per attaccarli e usciamo.
È una giornata di pieno sole, la strada non è più deserta come una settimana fa (in realtà è qualche giorno che le vie si stanno ripopolando) e non c’è la proliferazione dei controlli che mi sarei aspettato in questa giornata. In cinque minuti raggiungiamo la lapide, stiamo scegliendo come attaccare i fiori quando arrivano un padre ed il figlio, un po’ più grande di E., con una rosa vera, prima noi e poi loro aggiungiamo i fiori al mazzo di quelli finti deposti l’anno scorso dall’ANPI, e io leggo la storia di Priuli dalla scheda dell’Istoreto, dopodiché scambiamo due parole con lo sconosciuto che ha avuto la nostra stessa idea. Ci racconta che lui e la moglie stanno facendo il giro alle lapidi separatamente, per rispettare alla lettera le disposizioni, e che dopo questa loro andranno alla lapide di via Muriaglio, mentre noi siamo diretti a quella che il sito segnala nella più vicina piazza Adriano. Ci salutiamo e proseguiamo ognuno per la sua strada.
Piazza Adriano è una gigantesca rotonda con nella parte centrale due aiuole molto grandi, separate tra loro da corso Vittorio Emanuele II, il sito dell’Istoreto indica che la lapide è nelle aiuole senza indicare con precisione il punto, quindi vaghiamo per una decina di minuti alla sua ricerca, senza risultato. G. insiste che la lapide non sia nelle aiuole ma dall’altro lato di corso Ferrucci, io le rispondo “Ma no, guarda la mappa, dice che è qui”, ma alla fine non trovandola accetto di andare a vedere dove dice lei, ed effettivamente ha ragione, la mappa dell’Istoreto è sbagliata. Anche qui leggo la scheda relativa a Giovanni Martinetti, decisamente più scarna della precedente, poi ripartiamo.
Visto che non abbiamo incontrato pattuglie decidiamo di prolungare il nostro giro, risaliamo via Dante di Nanni (che è comunque in tema) per raggiungere la lapide di Giulio Berardengo in piazza Sabotino, circa a metà strada incrociamo una signora che ci avverte che nella piazza c’è la polizia che sta multando i passanti. Ci fermiamo per decidere il da farsi, pochi scambi di battute poi alla fine l’ultima parola spetta a E., “Voglio andare dove avevate detto”, dice, e come si fa a dirgli di no?
Arriviamo in piazza Sabotino, a una decina di metri dalla lapide da un lato ci sono due digos, dall’altro una camionetta con una decina di poliziotti, per la maggior parte in mimetica, ma nessuno di loro si interessa a noi, neanche quando ci fermiamo davanti alla lapide . Stavolta non ho cercato la scheda, questa targa fa parte del percorso del corteo che il CSOA Gabrio organizza ogni anno nel pomeriggio del 25 aprile, quindi la storia di Giulio Berardengo la conosciamo già, facciamo solo una breve sosta e poi ripartiamo senza essere multati. Evidentemente la polizia è lì per presidiare il percorso abituale del corteo. Il Gabrio ha pubblicato un comunicato che annuncia che quest’anno ci si limiterà alla tradizionale lettura delle pagine di Senza tregua sulla morte di Dante di Nanni sotto le finestre della sua casa, ma evidentemente non lo prendono sul serio, e presidiano il percorso per impedire la celebrazione.
A questo punto possiamo dirci soddisfatti della nostra uscita e ci dirigiamo verso casa. Certo, è triste il confronto con le celebrazioni degli anni scorsi, con il corteo di centinaia di persone, le chiacchiere, le birre bevute sotto il sole, ma contemporaneamente è l’uscita più lunga dell’ultimo mese e mezzo. Può darsi che stavolta il 25 aprile anziché la conclusione di una rinascita ne segni l’inizio.
La storia di S
Più che in manifestazione, il 25 aprile l’ho quasi sempre passato in montagna, spesso in Val Grande, a volte gioiosamente a sciare, mi sembrava un omaggio anche quello. Oppure tra le pagine di un libro, insomma, sono una persona solitaria. Questo 25 aprile è diverso. Nessuna montagna e un libro non bastava. A Bollate, dove mi trovo in questo periodo, la targa commemorativa dell’ANPI sta dentro al cimitero ma il cimitero è chiuso. Così, la mia amica L mi dice che da febbraio c’è una pietra d’inciampo in via Mazzini, dedicata a Elia Mondelli, che era anche un amico della sua famiglia.
La cronaca ci dice che «Elia Mondelli nasce a Dergano (Mi) l’8 marzo 1923. Operaio, aderisce alla Resistenza e si unisce ai partigiani che operavano a Luino, sul monte san Martino. In seguito a un attacco nazifascista, si rifugia in Svizzera con un gruppo di compagni, ma, dopo pochi giorni, decide di rientrare in Italia per proseguire la lotta contro la dittatura. Arrestato e seviziato per il suo silenzio, viene portato a San Vittore, per poi essere trasferito a Fossoli, Bolzano, Mathausen e, infine, nel campo di Gusen. Dopo tribolazioni e patimenti, riesce a rientrare a Bollate dove, finita la guerra, costruisce la sua famiglia e la sua nuova vita, senza dimenticare il suo passato. Si iscrive all’ANED (Associazione ex deportati) raccontando la sua esperienza soprattutto nelle scuole e ai giovani. Muore a Bollate nel 2003.»
Non ho avuto modo di conoscere “el Lia”, come lo chiamavano gli amici, e anche per questo mi è sembrato che portare un fiore sulla pietra di inciampo fosse la cosa giusta da fare oggi.
Sono andata a raccogliere due papaveri, dietro casa mia crescono sin sui marciapiedi, di quel rosso acceso che non so voi, ma io i papaveri non smetterei mai di guardarli.
Ho deciso che oggi niente tuta, ho messo i jeans e ho sciolto i capelli. Con i papaveri in mano a attraversare la città, ogni passo una conquista, mi sentivo quasi bella.
Ovviamente la pietra d’inciampo era fuori dai canonici 200m. E già immaginavo che proprio nel migliore dei casi le forze dell’ordine mi avrebbero detto eh, ma se tutti facessero come lei. Al che gli avrei risposto eh, ma se non lo facesse nessuno non sarebbe mica peggio?
… Usciti ci introdussero in un nuovo locale, eravamo ancora tutti nudi era la “baracca di quarantena.” A questo punto di fecero coricare sulle tavole di legno, in costa, uno di testa e l’altro di piedi. Passammo così la prima notte, subendo periodicamente le passeggiate dei Kapò che con i loro zoccoli si assicuravano che il loro pavimento fosse uniforme e che nessuno di noi facesse il furbo prendendo una posizione differente. E poi giù bastonate a destra e a manca per farci stringere, per far posto agli altri. A volte facevano stendere sul pavimento un doppio strato di prigionieri. Da questi preliminari iniziavamo a convincerci che non saremmo più usciti da quell’esperienza. Rimanemmo in quelle condizioni per una settimana, senza sapere cosa sarebbe successo, senza nessun conforto se non il pensiero delle nostre famiglie.
Non ho incontrato divise lungo il tragitto, solo la gente in coda al supermercato e all’edicola. Poi ho raggiunto la via. Da una finestra aperta sentivo una signora che parlava di cassa integrazione. Da un’altra le note di “Andromeda”. A un certo punto sono arrivata al civico che mi ero segnata, ma la pietra non c’era. Così, chiamo la mia amica L e proprio mentre mi risponde vedo la pietra luccicare dall’altra parte della via.
“Niente scusami, non trovavo la pietra ma adesso l’ho vista.”
Ho appoggiato i papaveri e ho fatto una foto. La mia amica S. dice che fatto così da sola non serve a niente. “El Lia” scrive questo:
Quando vado nelle scuole indico ai ragazzi come la politica stia naturalmente in tutte le cose che svolgono nella giornata.
(Fonti: http://www.deportati.it/static/pdf/libri/mondelli.pdf; https://quibollate.it/pietre-dinciampo-alla-memoria-di-vincenzo-attimo-ed-elia-mondelli-la-posa-sabato-8-febbraio/)
La storia di M2
Versione solo testo: Magia e Liberazione. Un’impresa collettiva