Arriviamo alla sesta puntata della Quarantena Molotov nel giorno del 25 aprile, ricorrenza e festa della liberazione in Italia dal nazifascismo. Non sarà un anniversario della liberazione come gli altri, non solo perché il 75°, sarà infatti una festa mesta. Il 25 aprile rappresenta quel momento in cui lo spazio pubblico è stato sempre riempito di corpi festanti e di schegge di memoria che, per noi, produce conflitti nel presente; questo giro si salta (si vorrebbe che, almeno), lasciando ai soli riti istituzionali che imbalsamano quello che fu un movimento resistenziale vario e non riducibile, se non in cattivissima fede, a un immagine unica, ferma e composta.
Se sono ormai usuali i tentativi di annacquarlo, dalle bandiere blu di Renzi alla “festa dei caduti di tutte le guerre” proposta dalle destre, diverse sono le difficoltà che si presentano oggi a chi vuole celebrare gli ideali di chi si oppose alla barbarie nazifascista. Ma, senza rinunciare ad adottare tutte le precauzioni possibili e necessarie (cosa che d’altronde facevano anche i partigiani e le partigiane), sarebbe paradossale che nel celebrare la memoria di chi infranse la gabbia in cui i nazifascisti avevano chiuso l’umanità noi ci ingabbiassimo con le nostri stesse mani.
Fortunatamente, nelle nostre città e nei nostri paesi sono molti i luoghi che ospitano ricordi della resistenza: continuate a contribuire, a noi piace immaginare la prossima puntata di Quarantena molotov come uno “speciale 25 aprile”, una rassegna di resistenti evasioni, in cui il nostro camminare si leghi a questa ricorrenza.
Ericailcane
La storia di S1
«Dai vez se passi ci fa un sacco piacere…»
Passi. Guardo maps. Castel San Pietro è a soli venti chilometri da via Massarenti. Devo solo attraversare tre Comuni per un totale di ventun chilometri di potenziali posti di blocco. Nonostante questo la tentazione resta alta.
– Beh, se tu hai attraversato la Lombardia per arrivare a Bologna… direi che io due orette di bici le posso fà!
– Considera che la mia frazione è sei chilometri più su, verso i colli… con l’andatura che hai, se fossi in te, partirei adesso…
– Non lo faccio mica per battere un record! e nemmeno per fare la biciclettata di primavera.
Per cosa lo facevo? Per stare con un amico dopo mesi che non lo vedevo? Per sentirmi un partigiano anti-quarantena? Forse. Sono abbastanza drogato di fuori rotta e attraversamenti altri. È soprattutto questa dipendenza, che mi trascino dai tempi degli scout, che mi invita, oggi, a testare i meccanismi di repressione soft (non ti ferma la consapevolezza che ti abbiamo iniettato lentamente con i titoloni dei media? La paranoia nel vedere camionette militari che trasportano bare? Allora ci penserà la pattuglia, la pantera, la coppietta di municipali…).
Unito a questo, sono spinto, trascinato dal presentimento da topo in pre-trappola: di chi intuisce, proiettando la curva delle restrizioni nel grafico della propria esistenza, che quelli potrebbero essere gli ultimi giorni di bonus, gli ultimi per giocarsela, diciamo.
È il 9 marzo. Il giorno dopo la sindaca di San Lazzaro vieterà l’uso delle bici seguita poco dopo da “Italia zona protetta”. E poi parchi chiusi, uscite solo in prossimità di casa, consentite solo attività consumistiche essenziali.
– Daje! Allora a tra poco –, stacco.
Guardo per l’ultima volta la mappa sul pc, come se stessi pensando di attraversare il confine greco-turco o quello serbo-ungherese. E invece no, è il confine Bologna-San Lazar, mai esistito prima di ora e creato dall’essere più piccolo dell’universo. Che strada fare? La via Emilia è la più rapida, ma allo stesso tempo la più rischiosa. Bella dritta, bella larga. Magari però gli sbirri ci passano così rapidamente che non si fermano per un ciclista, seppur in odor di illegalità. L’altra option sono gli stradelli guelfi, ma allungano estremamente, sbrodolando verso nord con numerosi zig zag, aumentando al contempo il rischio di esser sgamati. Dall’alto di Google (oops volevo dire openstreetmap), poi, puzzano tremendamente di posto di blocco. Terza option: la vecchia coinqui ecologista tedesca di cinque anni fa, Eva, andava a veterinaria a Ozzano con la ciclabile che parte qui, dal Fossolo, per un totale di un’ora e mezza all’andata e un’ora e mezza al ritorno. Ogni giorno. Vabbè lei era una proto Greta Tuborg, a me una volta basta e avanza!
Incredibile il rendersi conto della felicità di stare fuori. Il brivido del pre-proibito, unito al sole per la prima volta caldo e all’intricato intreccio di germogli in simultanea crescita lungo ogni siepe, fosso, canale, mi regala una gioia inattesa. Dando un occhio sempre prima di attraversare ogni incrocio con vie carrabili, arrivo sano e salvo al parco dei Cedri e, guidato dalla bella e verdeggiante ciclabile, tiro dritto senza incontrar rogne fino alla periferia, dove si apre la visuale su castel Tomba e la valle dell’Idice. Ancora tutto liscissimo fino ad una delle entrate del parco dei Gessi, davanti alla quale vedo una panda nera in sosta, piazzata proprio a lato del corrimano in legno del sentiero. All’istante sovviene un’epifania di giorni, settimane prima, quando in una certa situazione un compa mi aveva detto, indicandone una: “panda nera, puzza di digos!” mi cago sotto, mille pande nere al mondo, ok, ma oggi facciamo che taglio la ciclabile attraversando la rotonda carrabile e poi torno sulla ciclabile una volta passata la panda forse-digos… in fondo, l’entrata del parco è un punto strategico per attendere imperdonabili furbetti (e spero annoiarsi fino alla morte).
Attraverso un enorme cavalcavia alla cui destra vi è il paradiso, una lunghissima fila di pini a ombrello orti e una casa contadina allungata, giallino-screpolato; a sinistra l’inferno di scavatrici da cava di ghiaia, agonizzanti al sole, cocente solo a contatto con la superficie delle loro lamiere, in quel pomeriggio di marzo. Mi sento come un leprotto che corre in una zona di riproduzione di poiane: stradone gigante, nessuna ciclabile o siepona pronta a proteggermi. Dopo poco per fortuna la siepona arriva, mi ci tuffo dentro con istinto da animale preda.
Pochi minuti e annuso l’aria del primo quartiere residenziale di Ozzano, pratoni sagomati da vegetazione da parchetto tipo prunus violetti noccioli bagolari eccetera… molti passanti che girano, anche accoppiati ma già coscienziosamente distanziati e mascherati. Una mamma sul prato con la bambina le dice, mentre sfreccio accanto “è una margherita, amore, purtroppo non posso prenderla in mano, tienila tu”.
Ora devo evitare a tutti i costi di passare per il centro, per la via Emila. Ci dev’essere un proseguo di ciclabile. Guardo il cellulare, zero rete. Maps in tilt. Stanno già cercando di ostacolare chi esce dal proprio comune di residenza? Sanno già che sono fuori? O è solo Coopvoce che fa schifo come sempre? paranoie pullulano sotto pelle.
Proseguo per altri stradelli, attraverso un piccolo ruscello, piscio nel canneto semi distrutto da una macchina trincia rami e riprendo.
Entro tra viuzze sempre più residenziali, strette anche per pedoni, rese anguste da alte siepi dalle quali ogni tanto intravedo, appesi alle finestre ed estremamente ansiogeni, i vari “andrà tutto bene” e “#iorestoacasa”.
Trovo finalmente un’altra ciclabile che pare andare verso est, fuori Ozzano. La riconosco, è quella che otto anni or sono avevo fatto per andare a trovare un’amica veterinaria e che… purtroppo arriva in VIA EMILIA. Però in extremis altro gran siepone che mi protegge fino a Osteria Grande. Ma qui non c’è altra via… titubante, entro nell’antica strada romana. Troppa ansia, no, non posso continuare in via Emilia. Arwen che corre con nove dissennatori/nazghul alle calcagna. Mi giro in continuazione, tra poco c’è un’altra frazione, vedo già palette agitarsi e chiamarmi amorosamente a sé. Contea, Baggins. Matteo, Fossolo. Mi fermo a un piccolo incrocio, guardo il cellulare, inaspettatamente il GPS torna a funzionare. Allora nessuno ha scoperto dove sono. Intravedo viuzze verminose innervare quel color grigino maps che dovrebbe simboleggiare campi a perdita d’occhio qui alla mia destra, verso le colline. Mmm allora… se entro ora per sta strada, giro prima di Casalecchio dei Conti, dritto fino Liano, a Liano seguo la stradina… sì, arrivo dritto dritto a S. Martino! È fatta. Un bel taglio diagonale trai campi!
Avrei dovuto controllare le curve di livello. I campi diventano quasi subito in salita, piccoli colli che presto diventano colli per nulla piccoli. Con la mia Legnano di ferro è atroce. Scendo e spingo. Però non mi pento della scelta: percorro stradine contornate da grandi e vecchissime roverelle, chiese e casolari antichi, dai quali vedo spuntare, ogni tanto, facce esotiche, est europee, forse rumene, ucraine, rom. Queste colline sono le meno naturali che abbia mai incontrato, quasi tutte ricoperte da metallici impianti intensivi di vite, pesco e olivo. Tantissimi olivi. Chi l’avrebbe mia immaginato, qui in Emilia? Certo, sono olivi emilianizzati: olivi-peschi, olivi-peri, filari ancor più orribili di quelli della mia bassa bolognese. Se da un lato hanno perso tutta la loro poesia, degli ulivi così peri, mi consolo pensando che magari una volta i nostri peri dovevano esser come gli ulivi che vediamo quando andiamo per il Salento, o per la val d’Orcia. Globosamente secolari, antieconomicamente sparsi, paesaggisticamente liberi.
Il sole è basso, guardo l’ora, ci sto mettendo circa il doppio del tempo. Teo mi ha portato iazza. Salgo lento, per lo più a piedi. Mi fermo spesso a bere e pisciare. Finalmente l’ultima (secondo la mappa) curva in salita, imbocco una stradina bianca, costeggio una casa piena di attrezzi agricoli arrugginiti e cani che abbaiano incazzatissimi e… strapiombo, calanco. Maledetto Google maps! Il sentierino continua esattamente sulla cresta del calanco, largo sì e no venti centimetri. Prendo un’altra stradina che pare declinare dolcemente ma anche questa, dopo poco, scende giù ripidissima! Abbandono la bici. La incateno a una piccola quercia, nascosta, sperando che le spine dei biancospini attorno non la buchino. E poi giù, correndo, quasi scivolando, fino alla valletta già nel cono d’ombra del monte. Ombra violacea, di fango anossico, che puzza di ristagno. Nuoto nel sudore della felpa nera, sudore che inizia a raffreddarsi… e poi. Crepuscolo onirico, silenziosissimo, aria immobile. Mi ricorda solo un altro crepuscolo, visto in un parco naturale in Irlanda dieci anni prima. Silenzio arancione totale, enormi medicai aggrappati al calanco misti a boschetti xerofili appena nati; un gruppo di pioppi bianchi, altissimi, di fronte a me, chiamati a drenare un poco dell’umidità di quell’avvallatura argillosa. Scoiattoli, qualche capriolo, piccole gazze, Pocahontas non avrebbe saputo evocare di meglio. Scavallo l’ultima collina, onde evitare qualsiasi metro di strada statale. Scendo l’ultimo tratto, stanchissimo ma tranquillo, protetto dal buio della sera, ristorato dal giallo delle luci accovacciate nelle casupole di San Martino. Entro nel cancello di casa. Teo è intento ad innaffiare l’interno di una vecchia auto dalle gomme distrutte.
– Ti piace il mio nuovo semenzaio?
L’abbraccio è già scalfito dalla profilassi, dalla paura di un possibile contagio. Chi l’avrebbe mai detto che pure lui, il possente, il killer, l’anarchico, avrebbe ceduto così alle paranoie della televisione di Stato?
– Stiamo preparando l’orto di guerra. E qui ci sarà il pollaio, trenta polli per darmi tante ovette… e qui la zona palestra, qui gli alberi da frutto…
Finalmente ci ritroviamo, dopo mesi. Non immaginavamo che la quarantena, dal giorno dopo, ci avrebbe separato per altro interminabile tempo.
La storia di D1
L’ultima volta che ci siamo abbracciate stavamo preparando e attacchinando cartelloni per l’Otto Marzo, il coronavirus aveva mandato all’aria anche la nostra manifestazione serale per riprenderci le strade… oggi dopo più di un mese e quasi per caso decidiamo di beccarci per un saluto…
Alle 16:15 esco prima con lui, per la solita escursione urbana… quanti ci mancano le montagne lucane, riusciamo solo a intravederle dalla finestra. Da qualche settimana ci concediamo delle uscite pomeridiane, per goderci queste meravigliose giornate… da qualche giorno sconfiniamo anche i 200 metri, o sono 500? Non l’abbiamo mai capito. Fatto sta che non ci allontanavamo mai troppo dai dintorni di casa… ma il sole e la primavera ci hanno dato coraggio, sconfiniamo!
Un’emozione mista di piacere e strizza… ogni tanto comunque ci giriamo per controllare l’arrivo di qualche pattuglione indesiderato…
Oggi finiamo prima il giro, le altre sono già nel piazzale della stazione, mi aspettano… che emozione rivederle, che emozione trasgredire, ti fa sentire viva… ma allo stesso tempo è cosi strano… non riusciamo ad avvinarci poi tanto.
Poi inizia il disagio, ci allontaniamo dopo essere avvicinate da un tizio bisognoso quanto noi di una chiacchiera… D. il piccolo tenta di avvicinarsi… come fai a far capire a un bimbo di 2 anni che non è consentito avvicinarci? Che tutto l’affetto che ci dimostravamo solo qualche mese fa dobbiamo rimandarlo a data da destinarsi?
… e poi arrivano, il maledetto pattuglione, non sembra averci visto ma oramai si è rotto qualcosa, stiamo sulle spine, D. corre, rischiamo troppo, ci agitiamo. L’unica soluzione che abbiamo è infilarci una alla volta nel supermercato, compriamo un pacco di farina a testa, talmente rara di questi tempi che sembra valere come unico motivo necessario per un’uscita.
Tra gli scaffali siamo ribaltate in una realtà distopica… è un attimo che tutte e tre ci sentiamo delle Ancelle, ci mancano solo il vestito rosso e le alette bianche… siamo catapultate nel romanzo della Atwood… e non ci sembra poi così irreale…
Cassa, scontrino, ci salutiamo al volo… felici dell’incontro ma con lo stomaco chiuso e una rabbia che ti monta dentro, tutto questo “solo” per un incontro, per guardarci e dirci che andrà tutto bene solo se andrà bene per tutto e tutt*!
La storia di V
Dalle mie parti abiti al mare solo se apri la porta e metti i piedi in spiaggia, al massimo attraversando la strada. Da piccola abitavo quasi al mare perché facevo circa 100 metri e passavo sotto un ponte della ferrovia per arrivare in spiaggia. Ora cambiando comune ma non provincia prendo la macchina e nel giro di un paio di chilometri arrivo, quindi non sto proprio sul mare. Secondo uno dei tanti sketch di Ficarra e Picone sei sul mare se apri la finestra e hai il mare alle spalle (!) perché – non si può costruire in spiaggia? – no è pieno! Non c’è più spazio!
Devo essere allora una pericolosa sovversiva se già per la terza volta dall’inizio di questo delirio militare-sanitario prendo l’auto per portare il nano a giocare sulla spiaggia. Tre anni a maggio, ieri già mi aveva chiesto una passeggiata e complice un caldo che nelle ore centrali sfiora i trenta gradi, decidiamo di andare. Spiaggia deserta come non mai, neanche pescatori. Sul lungo mare due ragazze col cane al seguito e poi solo qualche isolata macchina a sfrecciare lungo la via. Si corre, ci si rotola, si tirano le pietre in acqua, si piantano paletti con le canne trovate in spiaggia e si cercano le “pietre preziose”, quei pezzi di vetro colorati corrosi dal mare e dal tempo che mi divertivo a collezionare una vita fa, quando bambina ero io. Stiamo un’oretta e sembra un’eternità. M. ne approfitta per fare qualche camminata, ché se non ci si muove appena possibile si resta bloccati davvero, chiusi in casa per settimane. Quando può infatti fa le sue evasioni solitarie, sempre necessarie anche in epoca pre-pandemica.
Starei tutti i giorni seduta in riva al mare, ad ascoltare le onde ripetersi mai uguali, a respirare quell’aria così inconfondibile che sa di sale. Il mare dà naturalmente un senso di evasione; anche per chi ci è nato è sempre un po’ vacanza, e per N. soprattutto è puro divertimento, uno spazio apparentemente infinito nel quale ora come mai può camminare e correre per lunghi minuti in piena libertà.
Ancora prima di scendere dall’auto N. aveva detto “è bello passeggiare, mi piace tanto tanto” e chissà quanto gli manca davvero la “normalità”. Dice che i bambini si adattano e che sono molto abitudinari, forse cercando alibi per la nostra incapacità di considerarli persone. Una cugina ha anche un bimbo che è chiuso in casa dall’inizio di questa storia e mi diceva giusto oggi che si deciderà presto a portarlo fuori in qualche modo, perché la situazione non è sostenibile. Spero di averla incoraggiata con il mio esempio più che con le parole, perché se non ricominciamo a riprenderci i nostri spazi da soli nessuno ce li restituirà tanto presto.
La storia di G e D2
Ho escogitato questo per incontrare D.: di prendere la bicicletta e nascondere lo zaino nella sporta della spesa e di risalire 500 m del viale della città di C.; di legarla a un palo la bicicletta, al limitare del bosco e di alzarci sul colle insieme, D. ed io.
Siamo sempre stati un po’ clandestini. D. ha solo da attraversare il viale; ci muoviamo nella stradina che devia e la bacio appena posso. Poco oltre attacca il sentiero, dietro l’orto dell’ultima casa: è improvvisa la salita al colle, la segna un solco di ruota frenata che è l’opposto di noi, che mentre la saliamo siamo più liberi.
Nello zaino ho il vino e un tocco di formaggio, D. nella tracolla nasconde il salmone salato e le gallette, finocchio e porro li raccoglierà. La traccia dal solco si collega al sentiero numerato proprio alla base delle antiche mura d’un castelletto: le aggiriamo, lo sguardo trapassa la vuota torre e sale ai monti vicini scatenando ricordi e futuri. Parliamo di camminare per giorni: non smetterei mai di camminare con D., o di tuffarci insieme nel mare che brilla oltre il piano. Proseguendo nella macchia d’olivastri si accendono le ali stese di un macaone, di poco manchiamo la crisalide. Sfarfallo dietro a D. e lei lo stesso, dandogli caccia fotografica; ma le sfugge e sarò io a stringerla forte. Gli stessi occhi del cielo appaiono nelle ali della poiana appena librata.
Beviamo, fumiamo e mangiamo e poi non facciamo l’amore come le tantissime volte, nei prati, ora finalmente liberi.
Poi giù con un salto nel solito sospeso: al consorzio compro un sacco di terriccio da caricare sulla bici, per giustificarmi e sprofondare.
La storia di S2
Al pomeriggio faccio quello che chiamo la ronda del carcerato. Misuro avanti e indietro una strada senza uscita, poche palazzine, le facciate a mattoncini rosa. Ogni tanto, se ho fortuna, da un appartamento escono le note di un pianoforte.
La via costeggia una piazza chiusa a nord est da una piccola chiesa dalle pareti giallo lombardo e a sud ovest da altri palazzi disposti a ferro di cavallo, con una serie di esercizi commerciali irrimediabilmente chiusi, non fosse per la farmacia, dove ogni tanto ci sono quattro o cinque persone in coda, rigorosamente distanziate. I giochi per i bambini se ne stanno lì, ammutoliti e inutilmente colorati. I pruni che adornano sono fioriti e già sfioriti. La piazza si chiama Piazza Madonna di Campagna. Chi non ha vissuto qui per più di 30 anni può trovare il toponimo bizzarro. Ma fino a quando avevo otto o nove anni, al posto della piazza c’era un campo di mais. e dall’altro lato della chiesa una roggia puzzolente e gran fabbrica di zanzare.
Si giocava a nascondino nei filari, tra le piante di mais ormai cresciute, le sere d’estate, fino a tardi, fino al buio, a rubare le pannocchie che poi si abbrustolivano in qualche modo e le sgranavamo a morsi.
Non ricordo bene come e quando, ma venimmo a sapere che avrebbero costruito delle case. Noi non volevamo le case, volevamo continuare a giocare nel mais. Così, mio cugino una sera ci disse il piano. Bisognava organizzare un colpo al museo di storia naturale e rubare una zanna di Mammuth. Scavare una buca, seppellirla nel campo, aspettare. Quando l’avrebbero trovata, avrebbero dovuto sospendere i lavori. Niente più case, forse sarebbero arrivati gli archeologi, ma noi avremmo potuto continuare a giocare.
I miei passi annoiati e sciatti mi riportano al marciapiede su cui sto camminando. Da un cancello escono una mamma e un bambino, su una minuscola bicicletta. Lui si spinge forte con i piedi e lancia piccoli urli di gioia. In un raro momento di ottimismo penso che il virus è la zanna di Mammuth, la zanna di Mammuth che ha fermato il cantiere. Qual è il terreno di gioco che vogliamo riprenderci?