Il binomio musica-montagna è un tema che ciclicamente ci ritroviamo ad affrontare in lista. Qualche tempo fa, sono state le polemiche tra Messner e Jovanotti relative al concerto che si dovrebbe tenere alla fine di agosto presso Plan de Corones a far tornare sotto i riflettori questo tema. Non ci interessa particolarmente entrare nel merito di quella specifica querelle, ma prenderne spunto in quanto declinazione della più generale mercificazione della montagna, con le domande che questo processo inevitabilmente pone, ma dovremmo più propriamente dire “con le domande che questo processo inevitabilmente mette a tacere.”
Tra i punti emersi dalla nostra conversazione, il fatto che ciò che accomuna tutti questi grandi eventi in quota, o comunque nella cornice di un ambiente naturale di pregio, è l’essere per l’appunto, nella cornice. A nessuno importa che il medesimo spettacolo sia fruibile senza differenza alcuna in qualsiasi altro luogo, nel fondovalle o in città, le montagne sono un piacevole sfondo, un tocco di colore, tutt’al più la scusa per una simpatica gita fuori porta.
La cosa paradossale è che tutto questo passi con buona pace di quasi tutti come una modalità di “promozione del territorio”. Curiosa forma di promozione del territorio quella in cui il territorio è praticamente irrilevante.
Aprile 2019
Mr Mill: in tema, mi segnalano il “dibattito” su un dj-set di Giorgio Moroder all’Alpe Tognola: prima diniego della valutazione ambientale, a cui è seguita una “contro-valutazione” degli albergatori/organizzatori con concessione del permesso da parte della giunta Fugatti del Trentino con obbligo di compensazioni ambientali (!)…
Ecco sul Trentino, ho trovato anche la delibera della Provincia autonoma di Trento, l’oggetto dice già tutto: «Concerto di Giorgio Moroder previsto per il giorno 7 aprile 2019, in località Alpe di Tognola. Riconoscimento della sussistenza di motivi di rilevante interesse pubblico di natura economica, nonostante conclusioni negative della valutazione d’incidenza effettuata ai sensi dell’art. 6 della Direttiva 92/43/CEE “Habitat”, e contestuale adozione delle misure di compensazione idonee a garantire la coerenza globale della rete “Natura 2000”, ai sensi del comma 3 dell’art. 39 della legge provinciale n. 11 del 23 maggio 2007 “Governo del territorio forestale e montano, dei corsi d’acqua e delle aree protette”».
Vecio Baordo: Questa delle compensazioni ambientali potrebbe essere il “Cetriolo Globale” (cit.) che vola a un metro da terra nei prossimi decenni per tutto quanto riguarderà le questioni di ambiente. Potrebbe arrivare a sostituire la valutazione d’impatto, o a trasformarla in un “preventivo” che l’ente pubblico di turno rilascerebbe per quantificare le compensazioni a fronte di un intervento. Potrebbe portare a sostituire qualsiasi divieto con autorizzazioni a pagamento. Se scuci abbastanza ghinee puoi pure andare in moto sui sentieri e fare eliski dove ti pare. Potrebbe essere un modo in più per unire la lotta ambientale con la lotta di classe. E perderle entrambe in un colpo solo.
Davide: La “legge Galasso”, che tutela beni paesaggistici e ambientali, è del 1985. Prima l’urbanistica e la paesaggistica erano normate da un decreto del 1942 che poneva vincoli molto blandi. Ora, in teoria, dovrebbe essere molto più complicato approvare certe brutture, anche perché il singolo Comune non ha il potere di decidere in autonomia, ci sono le commissioni paesaggistiche, il PPR, svariate firme d’avallo… il che vuol dire che le responsabilità – almeno sulle cose più recenti – sono molteplici.
Simonetta: Io leggo decine di commenti di gente che dice “Ma Plan de Corones è già antropizzato alla grande, ci sono le piste, ci sono gli impianti, ci fanno i campionati di sci, c’è il museo eccetera”. Per cui, deduco, se un posto è già sputtanato tanto vale andare avanti per quella strada, no?
WM1: È esattamente lo stesso discorso che fanno i SìTav per la Valsusa. Identico.
Abo: In lista s’era parlato per certo di eventi musicali (ricorderete il caso del Grignone) in quota e probabilmente degli impianti di risalita come discoteche a cielo aperto. Io proverei però a distinguere le due dinamiche, diversamente nocive sia chiaro eppure assolutamente coerenti, che ci si pongono di fronte. Da un lato viene incoraggiata da più parti una gestione “alberghiera” dei rifugi, che si qualificano al pubblico/clientela attraverso una fornitura più ampia ed esclusiva dei servizi (dalla sauna alla cucina gourmet, passando per il concerto), dall’altro c’è il tema dei grandi eventi in quota e del loro impatto da turismo invernale (consumo d’acqua, rifiuti, stress su ecosistema e comunità locale ecc ecc).
Se il rifugio da ricovero gestito diventa un’esperienza, uno spazio per eventi, anche la montagna che lo ospita da territorio può diventare location. Questa è una chiave interpretativa banale ma utile a leggere la pericolosità di questa direttrice di mercificazione dello spazio montano. Il meccanismo dell’evento è cruciale in questa dinamica: convoca immediatamente delle economie di scala (trovare il quartetto d’archi, scritturarlo per più date, gestire una rete di più rifugi, convocare un pubblico spendente che si aspetta ed è disponibile a pagare per..) ma dall’altra parte sdoganare anche con piccoli colpi l’eccezionale normalità della quota.
Davide: Spero di non ripetere cose già dette: concordo su quanto scritto ma non vorrei passasse il concetto che montagna e musica siano per forza un binomio da evitare. Dipende ovviamente da come si costruiscono le cose: ad esempio ogni anno ad agosto i Lou Dalfin fanno un concerto in zattera sul lago di Terrasole. Il pubblico usa sì per un tratto, se vuole, gli impianti di risalita (che è l’aspetto meno positivo della cosa), ma cammina comunque per arrivarci un’oretta in montagna, non paga biglietto del concerto, e ripulisce tutto prima di andarsene (c’è comunque un servizio pulizia per eventuali distratti). Non ci sono stand di vendita o spaccio bevande (ricordo solo un bibitaro stile stadio), né impianti luci (pure quello audio consiste solo in tre casse alimentate a batterie) Non è un maxi evento ma è cmq un’operazione non piccola che trovo, benché inscritta nel contesto degli impianti di risalita, tutto sommato non malvagia. E come questa ne esistono altre, anche se più di nicchia.
Letizia: Scusate il ritardo, mi aggrego alla discussione perché un po’ di tempo fa avevo parlato con Filo proprio dei concerti di Jovanotti e di come a Ladispoli fosse scoppiato il caso di Torre Flavia, un fazzoletto di terra paradisiaco, zona umida, di nidificazione per uccelli svernanti e sedentari e di passo per uccelli migratori. Fazzoletto di terra scelto, non so con quale criterio, come zona per uno dei maledetti concerti del Jova Beach Party, cui finalmente Jovanotti ha rinunciato ma non senza una forte mobilitazione dei cittadini e birdwatcher che hanno a cuore l’area (ci sono stata sabato e vi assicuro che grazie a loro vi si respira una vera e propria aria di sacralità). E della Lipu, non di certo del WWF nazionale che aveva messo a disposizione l’area, e si è comportata vergognosamente anche in questa occasione, minimizzando le proteste e dando rassicurazioni assolutamente insensate sull’impatto del concerto sulla zona protetta. Ovviamente sono d’accordo con i grossi problemi che creerebbero -e creano- eventi mondani del genere in montagna, Alpi o Appennini che siano, e avevo già connesso la proposta Torre Flavia con il caso Risorgimarche & sim. Una follia pericolosissima e un precedente che per fortuna non si è creato, perché se con la montagna ancora si può far leva sulla percezione che alcune persone hanno della natura “libera” e “selvaggia” (meh, purtroppo non sempre, abbiamo visto), la spiaggia è ormai un divertimentificio ad uso e consumo dell’essere umano, specie, che ve lo dico a fare, il litorale romano, e avevo dato l’oasi naturalistica già per morta e sepolta.
Laura: Leggendo questo articolo ho pensato a Pian Gelassa (Gravere) in Val di Susa, uno scempio avviato a metà anni sessanta, mostri di cemento e mattoni in mezzo ad una stupenda pineta, condomini mai finiti, pinete abbattute per piste da sci, palazzine disseminate tra i pini, un ecomostro ristorante seggiovia…. La natura però si è ribellata ed una valanga si è portata via gli impianti, purtroppo tardi, gli orrori di cemento invece sono ancora lì, un pugno negli occhi e nello stomaco quando arrivi lì dal bosco! Quello che vorrei sottolineare però rispetto a costruzioni, impianti sciistici, sfruttamenti, eventi musicali di massa in montagna, sono i permessi e le autorizzazioni che danno i comuni di riferimento per tali progetti, eventi. Invece di tutelare il proprio territorio pensano a fare cassa? Come vedono le loro montagne, che vincoli dovrebbero osservare? Sarebbe da scrivere e criticare aspramente il comune di riferimento di Plan de Corones che autorizza eventi del genere e da le proprie montagne in pasto agli imprenditori dello sci ed al turismo di massa. Solo loro possono vietare o autorizzare tale evento.
Mr Mill: La posizione di Mountain Wilderness.
Vecio Baordo: «Chi abita in montagna, chi vive di montagna, chi ama la montagna, non può non esser contrario alla sua riduzione a palcoscenico, scenario ludico, in genere al suo sfruttamento funzionale alla civiltà tecnologica cittadina.»
Spiace dirlo, ma se pensiamo che questo tipo di argomenti possa funzionare, abbiamo già perso. Abbiamo perso su “chi abita in montagna”. Abbiamo perso su “chi vive di montagna”.
E ammesso che abbia senso il concetto “chi ama la montagna”, includerebbe tutti quelli che dicono, anche in buona fede, di amare la montagna, ma probabilmente sono in maggioranza cittadini e sciatori e magari credono che Jovanotti sia ecologista. I restanti saranno la solita eterna nicchia alla quale ci si appella da sempre, sempre perdendo, in nome del buon senso e del buon cuore. Se poi ci mettiamo che quella nicchia ce la dobbiamo dividere pure con personaggi confusi che sono in Mountain Wilderness dalla prima ora ma citano indifferentemente Motti e Guenon, apposto siamo.
In occasione di altri eventi simili avevamo discusso l’estate scorsa. Anche qui, al di là dei singoli eventi, la discussione rimane attuale.
Agosto 2018
Mr Mill: Gualtiero segnala via Twitter, siamo sempre su quel pezzo… Rock in alta quota, i dubbi del CAI: «La montagna non è un pezzo di città».
Vecio Baeordo: Dopo di che mi viene da pensare, che io sono una fabbrica di dubbi (li metto anche un po’ provocatoriamente):
– se la gente sale a piedi, compresi i musicisti, allora vale?
– se invece di Ambra Angiolini c’ è Mario Brunello, allora vale?
– se invece di pop è musica colta (classica, jazz) allora vale?
– se si suona rigorosamente acustico, allora vale?
– un’orchestra di cento elementi saliti a piedi, vale?
– oppure: il problema è la quantità di pubblico?
– quindi: non sarà che uno dei motivi per cui ci piace la montagna è che ci si trova poca gente e (fino a un po’ di anni fa) solo di un certo tipo? (Infatti quando sono troppi, come sul Triglav, storciamo il naso…)
– ri-quindi: se fossimo andati in montagna settant’anni fa, quando i monti erano pieni di gente che ci viveva, non ci sarebbe piaciuto?
– e così via…
Mr Mill: Questa discussione l’abbiamo aperta da tempo, qualche anno fa ricordo parlammo anche della kermesse antesignana di tutte queste, I suoni delle Dolomiti. Io dico che ci sono dei limiti ambientali di cui bisognerebbe tener conto, certo, poi c’è tutta la questione relativa al marketing territoriale, la bestia nera che fa passare di tutto e di più con la storia del portar ricchezza ai territori, una storiella – anche questa – di cui abbiamo già discusso e che ci trovava d’accordo almeno su un punto: che è falsa, perché è tutto da dimostrare che certi eventi portino ricchezza, ma soprattutto quando la portano a fare cassa sono i soliti soggetti.
Quel che secondo me è giusto sottolineare – anche rispetto a I suoni delle Dolomiti che nominavo sopra, almeno quello delle origini – è che oramai in quota vengono proposti concerti a cui si può partecipare in città, pari pari, non si cerca nemmeno più di costruire proposte pensate (o “vendute”, meglio) per il contesto della montagna in cui si svolgono, ma solo per portare gente – a piedi o in seggiovia – a consumare uno spettacolo (con la speranza che consumino anche dell’altro).
Filo: Ai dubbi di Vecio: nel 2013 con una formazione che si chiamava POS (piccola orchestra dei sentieri), io e altri due scombinati, circumnavigammo il massiccio Orsiera-Rocciavrè a piedi. Un anello di sei giorni di cammino, con 5 tappe in 5 rifugi. In ogni rifugio suonammo con strumenti che ci eravamo portatx dietro negli zaini (glockenspiel, tamburello, ukulele, chitarra a 3/4). Era un anno un prima di Alpinismo Molotov e tante riflessioni non le avevo fatte ancora. Ma per me quello si può fare. E potendo, ripartirei stasera a farlo. E se qualcunx lo facesse, andrei a vedere una cosa così senza troppi patemi.
Con la stessa scioltezza sono andata a vedere Luca Giunti che a Pian Cervetto, davanti al Rifugio Amprimo, la notte di San Lorenzo, racconta il cielo notturno, le costellazioni e lo spazio-tempo siderale. Secondo me si possono fare certe cose in montagna e in rifugio. Certe.
Daniele: Esatto. Abbiamo concepito uno spettacolo (in due versioni, una più teatrale e una in reading) tratto da Il mondo dei vinti di Nuto Revelli espressamente in modo che si potesse fare in quota e nei rifugi: strumenti acustici, canti e racconti a voci nude, teatro fisico, per vederlo bisogna guadagnarselo :-p
Yamunin: E qui mi pare che torni il discorso se la montagna è un dentro o un fuori. Con qualche complessità in più, cioè: se è un “dentro”, in montagna si possono creare eventi che si possono replicare in città ma non è necessariamente vero (giusto?) il contrario.
A: Quel che vado a scrivere è banale, ma forse non per tutti coloro che organizzano eventi in montagna. Per me il primo e irrinunciabile punto per far spettacoli in montagna è uno, da cui discendono a cascata tutti gli altri: come si intende starci, nella montagna, quando si crea/fruisce, uno spettacolo.
Cioè la considerazione di ciò che ci sta attorno:
– qualcosa che abbia necessariamente un volume contenuto, tanto per iniziare, o che la conformazione del posto scelto aiuti a contenere il fastidio che inevitabilmente si arreca (una conca, ad esempio). Che le vibrazioni non debbano spaventare o mettere in fuga la fauna. Mi vengono in mente luoghi abitualmente abitati da certi animali, zone qui in valle pieni di tane di marmotte, ad esempio, zone di passaggio regolare di ungulati, zone storicamente di nidificazione…
Beh, questi li eviterei tutti tassativamente, partendo dalla constatazione che noi siamo ospiti e ha portato anzitutto rispetto.
– Qualcosa che sia trasportabile, se si esce dalle strade. I lunghi carrozzoni di jeep per portare strumentazione e materiale, fingiamo pure che quel determinato spettacolo stia bene in montagna, il come lo inficerebbe.
– Qualcosa che preveda una lettura e lo studio/scelta di uno specifico territorio, non intendo in senso scientifico: intendo dire che, qualsiasi sia l’evento, che ci interagisca col territorio. Che sia stato pensato per quel territorio. Altrimenti il luogo diventa una cornice banale. Il finto valore aggiunto a costo zero (per l’artista) e alto impatto per l’ambiente.
– Qualcosa che non porti, o che non consenta, orde di gente (numero limite studiato in base alla zona?). Perché l’impatto non sarebbe sostenibile. Immagino come quelle di risorgi Marche sono avvilenti, se questi artisti tenessero davvero alla resurrezione avrebbero pensato a ben altro. Vista dallo schermo pare il concertino per appagare l’ego degli artisti e fare lo spettacolo a sudore contenuto: “in montagna, che non me ne frega un cazzo, ma almeno non fa caldo come in città”.
– Qualcosa che racconti il luogo: perché proprio qui? Sulla base di quale criterio? Cosa ha da raccontare, si porta attorno?
Che ci interagisca: da noi è pieno di alpeggi, orti alpini, esperienze di montagna…. Tutta gente che vive in/di montagna in modo sano. Perché non vengono mai coinvolti?
Non per forza durante, anche prima o dopo. Insomma qualcosa che incuriosisca, invogli successivamente a tornare soli ed esplorare, faccia rivivere il posto, sennò il monte e i suoi abitanti son solo scenografia.
Chiudo, sono andato anche troppo lungo: se non ci sono le condizioni beh, allora l’evento in montagna, nella migliore delle ipotesi, è inutile.
Pietro: Mi sono messo in pari col dibattito su Risorgi Marche e mi è venuto in mente un parallelo, mi scuserete se inappropriato, riguardo i grandi eventi musicali: la Notte della taranta a Melpignano.
Da pugliese mi è sempre stata sulle palle la Notte della taranta che mi è apparsa sempre come il tentativo di costruire un grande evento cool e danaroso trasformando in festone un retroterra culturale popolare, quello del tarantismo, che invece è portatore di grande rilevanza storica e politica nel suo essere la manifestazione di disagi sociali (tra l’altro espressi soprattutto dalla parte femminile della popolazione) derivati da sfruttamento, povertà e in generale da condizioni di vita fortemente svantaggiate, tanto da causare manifestazione “patologiche” da esorcizzare catarticamente con riti musicali e coreutici. Una tradizione musicale – taglio con l’accetta – portatrice sì di gioia e festa (nell’elemento della “guarigione”) ma anche megafono di “denuncia” di disagi sociali e, di conseguenza, dall’alto valore conflittuale nei confronti delle cause di quegli stessi disagi. Elementi di complessità che nella logica del grande evento, che trasforma quella musica in moda, si perdono.
Nel caso della Notte della taranta non si è creato un evento con la finalità di risollevare un territorio immediatamente dopo un cataclisma, ma nel caso del sud si può dire che la considerazione generale della politica e della cultura mainstream sia quella per cui il Meridione sia sempre e perennemente sotto gli effetti di un cataclisma, dal quale sarebbe incapace di risollevarsi da solo, necessitando quindi tra le altre cose anche di grandi eventi cool calati dall’alto per risollevarne l’economia (specie attraverso il grande mantra del turismo che porta denaro, ignorando gli effetti devastanti del turismo commerciale di massa sui territori naturali) sfruttando (“rivalutando”) l’eredità culturale popolare, ignorando il fatto che un patrimonio culturale popolare rivalutato dall’alto sia una contraddizione in sé.
Qualcosa di diversissimo da quanto fatto da altri musicisti molto più attenti a studiare la complessità di un fenomeno prima di riferirvisi. Mi viene in mente al volo Alessio Lega, anarchico e salentino di nascita, che al tarantismo ha dedicato un paio di canzoni in cui senza trascurare la godevolezza estetica della musica non ha di sicuro trascurato le complessità storiche e politiche del fenomeno. Ma si potrebbe citare Bennato (quello giusto) e altri ancora.
Anche in questo caso tra l’altro il grande evento fagocita persino musicisti dal profilo non superficiale, come Ambrogio Sparagna, Mauro Pagani, Goran Bregović, confermando la complessità dell’operazione su tutti i versanti, tanto quella della fruizione (non demonizzerei mai tutti i ragazzi e le ragazze che in vent’anni sono andati, spesso inconsapevoli della storia del tarantismo, a ballare alla Notte della taranta) quanto quella della partecipazione artistica (non demonizzerei, specularmente, qualsiasi artista vi si sia esibito).
Ecco un paragone meridionalista e – quasi – balneare per contribuire alla discussione con un punto di vista speculare nei luoghi ma uguale nei modi.
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Intanto le polemiche che accompagnano il Jova Beach Party, il tour che il cantante farà quest’estate sulle spiagge italiane e che ha preso via proprio ieri a Lignano Sabbiadoro, si ripropongono anche in altri luoghi. Recentemente, la polemica si è spostata sulle spiagge in cui si terranno i concerti del suddetto tour, con denunce che evidenziano le minacce che il mega evento porterebbe alla nidificazione del Fratino, uccello che sta scomparendo dalle coste italiane. Eppure la macchina non si ferma – e il giorno dopo la prima, a pittare di green questo mega evento, accorrono anche i media italiani, etichettandolo come «Disneyrock ecologica». Ma potremmo dire che, fino a quando non cambieremo orizzonte o immaginario, nessuna macchina si fermerà, di fronte a praticamente nessun disastro.
Jova, dove passa lui non rimane nemmeno la sabbia. - Codice Rosso
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[…] Il Jova Beach Party non è solo una tournée: è parte di un frame devastante che viene riproposto da anni, rappresenta in modo plastico il capitale nella sua forma più perniciosa e camaleontica, e non ha toccato solo le spiagge ma è arrivato ben più in alto, esacerbando questioni di cui ci siamo sempre occupati. […]