Per tornare a occuparci delle migrazioni attraverso le Alpi, e in particolare di quella che è stata definita la “rotta valsusina”, abbiamo incontrato Claudio Cadei e Nicola Zambelli di SMK Video Factory e Luigi D’Alife, che avevamo già intervistato lo scorso anno sullo stesso tema. L’occasione è data dal loro nuovo progetto The Milky Way che ha come tema centrale proprio l’attraversamento da parte delle e dei migranti del confine italo-francese.
AM: Sulla piattaforma dove avete lanciato il crowdfounding per finanziare la realizzazione del progetto avete riportato una frase che parla di fatti del ‘46-‘48:
«Essi vengono nottetempo accompagnati sino al confine da una guida di Bardonecchia e poi si arrangiano a discendere. Naturalmente, dato l’inadeguato equipaggiamento, specie se incontrano cattivo tempo, spesse volte non riescono a proseguire e muoiono sull’alto versante francese. Due o tre al mese almeno lasciano la vita in questo modo.»
Luigi: Sì, è un rapporto dell’epoca.
AM: Quindi il documentario non parla solo del presente, ma ha una profondità storica…
Luigi: Sì, un po’ sì, non vuol essere un documentario storico ma ci sembrava importante capire prima di tutto il contesto territoriale in cui ci troviamo e anche il tipo di storia che ha quel territorio, in relazione a chi lo vive e a chi lo attraversa. Anche senza andare troppo indietro nel tempo, quella che l’anno scorso dai media mainstream era chiamata “la nuova rotta dell’emigrazione” in realtà di nuovo non ha assolutamente nulla, perché è una rotta da millenni utilizzata per spostarsi e, negli ultimi 200 anni, ha visto centinaia di migliaia di italiani provare ad andare clandestinamente in Francia.
Per tornare a tempi più vicini, dal dopoguerra in poi, in particolare tra il ‘46 e la fine degli anni Cinquanta, c’è stato un grande flusso di italiani che ha attraversato quei territori e che sostanzialmente si è trovato a vivere dinamiche che, anche se in fasi storiche diverse, sono molto simili a quelle che si vivono oggi. Quindi, sicuramente, uno sguardo su questo contesto era assolutamente necessario per raccontare quanto sta succedendo oggi.
La frase che citavi tu era in realtà parte di un rapporto redatto da un agente del ministero negli anni del dopoguerra, che era stato inviato in Valle Stretta per cercare il relitto di un aereo americano abbattuto. Ma sono diversi gli episodi relativi a quegli anni che documentano l’intensa attività migratoria. Ad esempio, il comune di Giaglione nel ‘47 chiese supporto alla prefettura di Torino perché sostanzialmente non c’era più posto nel cimitero per seppellire i cadaveri delle persone che non riuscirono a sopravvivere al passaggio.
AM: Molto in sintesi, un anno fa il percorso dei migranti era da Bardonecchia attraverso la Valle Stretta. Adesso come sappiamo si cerca invece di passare da Claviere, su un percorso più facile ma con un più alto rischio di essere intercettati dalla gendarmerie. L’atteggiamento dei locali è molto diverso tra Bardonecchia e Claviere? E guardando a quello che hai trovato nelle ricerche storiche, rispetto a quello che era l’atteggiamento dei locali 70 anni fa?
Luigi: Di base, secondo me, la differenza sostanziale tra Bardonecchia e Claviere è l’avere a che fare con un luogo in cui vive un numero più alto di persone, rispetto a un paesino di 200 abitanti dove gran parte delle persone… non dico che faccia finta di non vedere, perché è molto complicato far finta di non vedere, però guarda con indifferenza, anche se magari non tutti. A Bardonecchia sicuramente l’anno scorso, in particolare nel periodo delle feste di Natale, in cui ho avuto modo di essere presente parecchio, da parte non solo della popolazione e degli attivisti, ma anche dei turisti in vacanza, un minimo di coinvolgimento c’era, con qualcuno che magari passava a lasciare un cappotto o degli scarponi. Sicuramente la mancanza di un luogo di riferimento come era Chez Jesus a Claviere, assolutamente fondamentale per la posizione in cui si trovava, ha cambiato e complicato la vita di diverse centinaia di persone. Io sabato scorso (il 2 febbraio Ndr) ero su a Claviere, c’era un metro di neve, continuava a nevicare, c’era nebbia e non era proprio il momento migliore per passare… eppure c’erano comunque quattro ragazzi che, nonostante i consigli, hanno detto che avrebbero aspettato il buio per passare il confine. Uno di loro aveva i guanti in lattice, quelli da lavoro, e l’equipaggiamento va poi a fare la differenza sull’esito del tentativo di attraversamento. Siamo solo a febbraio e contiamo già un morto (a differenza dello scorso anno nello stesso periodo).
Claudio: Ricollegandomi alla domanda precedente, effettivamente le montagne sono luoghi in cui la gente abita, sono luoghi in cui la gente transita da secoli in diversi contesti storici, e chiaramente sono anche un luogo in cui si verificano dinamiche di turismo molto diverse tra loro, che forse hanno anche cambiato la montagna stessa, e questa è una cosa interessante che ci ha condizionato nello scegliere la direzione in cui orientare il documentario. Naturalmente la vocazione di un luogo fa capire anche molto in merito alla risposta delle persone che ci vivono nei confronti di questi fenomeni. Immaginate per esempio Bardonecchia, naturalmente ha una vita magari un po’ più attiva rispetto a Claviere, che è un paesino in cui tutto ruota attorno al turismo. Qui è abbastanza naturale che si faccia un po’ più fatica a vedere una risposta di attivazione della comunità, che finisce con l’essere quasi nascosta.
L’altra cosa che volevo dire è proprio sui rischi. Tu dicevi, riferendoti al passaggio da Clavière, “un percorso che ha meno rischi”, da un certo punto di vista è vero, però qualche giorno fa un ragazzo è morto di ipotermia al bordo della strada. Credo che questa sia un’immagine molto significativa, si può morire al bordo della strada semplicemente perché esiste un contesto che ti mette in pericolo, e ci si può mettere in pericolo per la paura di attraversare fuggendo nei boschi, aspettando ore al freddo per evitare la polizia frontaliera… E quindi la montagna ha di certo la sua geografia, le sue caratteristiche, ma anche una strada come quella fra Claviere, Monginevro e Briançon, con a fianco una pista di sci di fondo, quindi sostanzialmente pianeggiante, può diventare un luogo di morte proprio perché il pericolo deriva da tutta una serie di condizioni non collegate alla difficoltà fisica del percorso, ma che comunque mette i migranti nelle condizioni di non riuscire a gestire la propria traversata.
AM: Perché alla seconda o terza volta che provi a passare a volte rifiuti la strada facile per ridurre la probabilità di essere preso…
Claudio: Certo, è una sorta di gioco di strategia al quale le persone sono costrette e che le spinge anche a mettersi in pericolo di vita per avere minor rischio di essere respinte. E come diceva Luigi, anche tutti i consigli di ragionevolezza che uno può dare, ad esempio sul percorso, si scontrano con la forza del loro obiettivo, che è quello di passare senza essere presi.
Nicola: Poi, paradossalmente, accade anche che alcuni ragazzi riescano a passare semplicemente sfruttando i collegamenti che esistono, i pullman per i turisti e per gli sciatori. Se la giocano, e a volte arrivano a Briançon in tutta sicurezza, mentre altri, per evitare la possibilità di essere fermati sui pullman o sui treni, scelgono di passare lontano dalla strada, su percorsi più lunghi o più difficili, ma senza per questo eliminare il rischio di incontrare le pattuglie. Un mese fa, un giorno in cui eravamo a Briançon, alla mattina è arrivato un ragazzo. Era arrivato dopo essere stato nascosto tutta la notte sotto la neve perché i suoi compagni di viaggio erano stati presi dalla polizia, dalle pattuglie che andavano di notte, e lui era riuscito a nascondersi ed era rimasto imboscato tutta la notte, era arrivato quasi assiderato.
Luigi: Aggiungo solo una cosa, rispetto a quanto accadeva in passato. Secondo me le dinamiche sono sicuramente cambiate, ma non così tanto, perché quella convinzione radicata nella popolazione montanara che – come avviene anche in mare – in montagna nessuno si lascia solo sopravvive anche oggi.
Dalle mie ricerche storiche è emerso inoltre che una cosa che incideva molto sulla vita locale era la cosiddetta “economia di confine”: prima la dogana, poi nell’Ottocento la costruzione del tunnel, poi ancora la costruzione dell’autostrada, e senza dimenticare infine una parte della popolazione locale che operava come passeur. Tanti facevano i passeur a Bardonecchia.
Infatti non tutte queste dinamiche sono cambiate, secondo me alcune sono esattamente sovrapponibili. Quello che cambia sono le storie, che rimangono ben separate, e i contesti che le generano.
AM: Sappiamo che i migranti che cercano di passare non sono preparati dal punto di vista dell’attrezzatura e probabilmente nemmeno dal punto di vista delle condizioni fisiche, perché per loro anche procurarsi da mangiare può essere un problema, ma hanno idea di quale sia la difficoltà del percorso che tentano di fare?
Luigi: Poco e niente. Molti, quasi tutti, non hanno mai visto la neve. I quattro ragazzi che ho visto sabato avevano tutto sommato delle scarpe decenti, ma tutto il resto non era adeguato. Immagina una giornata in cui hai una temperatura costante a -2°C, le nuvole basse, la neve che cade, un metro di neve fresca che è già caduta: immagina di affrontare una simile condizione con i guanti di lattice… restare esposti al freddo in queste condizioni diventa rischioso. E lo diventa ancora di più se le persone, dovendo fare i conti anche con evidenti direzioni politiche relative al controllo delle frontiere e alla loro chiusura, decidono di aspettare il buio per passare. Magari cercano di passare sulla pista di sci di fondo, però o sbagliano, o salgono un po’ più in alto perché sentono i cani abbaiare, o le motoslitte, e si nascondono, e quante ore passano? Il rischio è molto alto ma lo è sempre stato anche in passato, perché di morti ce ne sono stati ancora più di oggi, a centinaia.
AM: Rispetto alla militarizzazione della zona, la situazione com’è? E i residenti, che sappiamo a Claviere non hanno molta empatia verso i migranti, provano invece qualche fastidio per la militarizzazione oppure no?
Luigi: Iniziamo col dire che il primo giorno di riprese la Gendarmerie ci ha fermati e identificati, così ci siamo tolti subito il dente.
Claudio: Dal punto di vista della presenza di polizia frontaliera, dal lato italiano c’è la presenza di qualche camionetta di polizia messa quasi a contrafforte, perché lo stato italiano nell’ultimo anno sta mostrando la sua presenza sulle frontiere, non a caso, anche se chiaramente è meno impattante sul percorso delle persone. La militarizzazione però è gestita in una maniera soft, soprattutto durante l’inverno, per non dare troppo nell’occhio ai turisti e ai residenti nella zona. Pattugliano il territorio ma mai in assetto particolarmente… come dire…
AM: Con le giacche da sci, come durante la manifestazione dell’anno scorso.
Claudio: Esatto. Quasi fossero una sorta di elemento coreografico del territorio, senza creare una discrasia. Poi, chiaramente, se li incontra una persona che cerca di passare il comportamento di questi “sciatori” smette del tutto di essere coreografico, nel senso che non si contano i casi di estorsione, di piccole violenze, anche alcuni limitati casi di pestaggi. Quindi la violenza c’è, ma è nascosta sotto un velo accettabile in un contesto turistico che deve mantenere quella sua facciata.
Nicola: Sulle piste da sci, ma direi anche per un abitante, questa presenza dei militari è del tutto indifferente, perché tanto, ormai, siamo abituati da così tanti anni alle camionette dell’esercito fuori dalle stazioni, che non colpisce più di tanto vederle sulle strade. Ma se invece adotti lo sguardo con cui eravamo presenti noi, allora questa cosa colpisce molto.
AM: Poi in Francia sono forse ancora più abituati di noi visti i pazzeschi controlli che hanno anche solo per entrare in un supermercato. Tornando invece al documentario, il tema lo sappiamo, come pensate di impostarlo?
Luigi: Diciamo che ci stiamo lavorando, ma di certo un elemento importante del documentario sarà rappresentato dall’animazione, ci sarà una parte di animazione tradizionale, disegnata a mano, e ci saranno momenti di ricostruzione, così come interviste semistrutturate. Abbiamo ritenuto di dover fare anche delle scelte etiche rispetto a quello che raccontiamo, ci siamo posti la questione di come raccontare questi tentativi di attraversare il confine, se provare ad entrare in contatto con i migranti e seguirli sul confine oppure se potevamo utilizzare altri elementi filmici per farlo.
Da qui anche l’idea di provare a ricostruire alcuni passaggi, partendo da una scelta che prima di tutto è etica, perché intende uscire da un certo tipo di narrazione stereotipata. Di questa “rotta valsusina”, infatti, se ne è parlato abbastanza, però la narrazione o è emergenziale, di stampo “salviniano”, oppure è di tipo “umanitario”, nei termini del racconto di questi “poveri ragazzi africani nella neve”, mentre attraversano il confine.
Claudio: Anche un po’ voyeuristica.
Luigi: Assolutamente sì. L’anno scorso, nel periodo tra Natale e inizio anno, a Bardonecchia, c’erano media di mezzo mondo, da quelli nazionali ad Al Jazeera, alla CNN, eccetera.
Claudio: Le hai riprese queste cose?
Luigi: No, queste cose non le ho riprese, però mi è capitato di intercettare dei ragazzi che stavano per salire sul Colle della Scala, era il 3 gennaio, c’era una quantità di neve assurda e un alto pericolo di valanghe e io già avevo provato a parlare ai ragazzi, a dire: “torniamo in stazione, vi accompagniamo perché non è cosa”. Loro hanno voluto, credo anche giustamente, valutare con i propri occhi, e mentre io provavo a convincerli a non attraversare quel giorno, c’erano altri giornalisti di trasmissioni di media mainstream che quasi mi sembrava che li fomentassero a proseguire, per dare poi vita a quel tipo di narrazione molto tossica, che non contestualizza.
Claudio: Il pericolo di queste cose credo siano le semplificazioni. Non abbiamo più bisogno di racconti semplificanti, nel senso di “C’è questa emergenza”, noi abbiamo bisogno di ricollegare alcune cose che succedono con altri aspetti, creando delle linee di connessione, di chiarire tutto il contesto. Di questo penso che la narrazione si debba fare carico.
AM: Un’ultima domanda sulla distribuzione. Voi state ancora girando e montando, avete aperto una pagina per il crowdfounding, in cui in particolare citate il “meccanismo del dono”. Vi chiederei di dire due parole in più su questo, e poi in generale come pensate di gestire la distribuzione.
Nicola: Tutti i lavori che abbiamo fatto sono sempre stati basati sul meccanismo dell’autoproduzione, della produzione popolare, e questo come SMK lo stiamo facendo da 10 anni realizzando diversi tipi di documentari, e a partire da questo modello abbiamo creato anche un portale per la distribuzione, Openddb.
Ci siamo incontrati con Luigi lungo mentre stava lavorando a Binxet, un documentario abbastanza famoso, che ha girato parecchio e che racconta la storia del confine tra Turchia e Siria, la zona del Kurdistan. Siamo entrati in contatto perché è entrato a far parte della rete di Openddb, e quando ha iniziato a parlarci di questo nuovo progetto abbiamo deciso di dargli una mano e di alimentare anche dal punto di vista della produzione questa rete nella quale siamo entrati sulla distribuzione. Il lavoro verrà totalmente autoprodotto, proprio per accorciare la filiera, per riuscire a realizzare questa storia nel momento in cui si sta svolgendo e con l’urgenza di raccontarla, per questo da alcuni giorni abbiamo aperto la pagina di produzioni dal basso dedicata al progetto e stiamo cominciando a organizzare degli eventi per il sostegno al film. Come professionisti siamo abbastanza abituati a metterci in gioco anche con le nostre risorse personali e poi attraverso i meccanismi di produzione popolare riuscire a rientrare delle spese, questo è il modo con cui abbiamo iniziato e continuiamo a farlo.
Il documentario verrà licenziato in Creative commons, quindi con una licenza aperta, con l’intento di estendere sempre più la rete del lavoro stesso, e verrà distribuito su Openddb. Questo approccio, negli anni, ci ha consentito di far sì che anche dei lavori totalmente autoprodotti potessero circolare, in Italia e non solo, cercando di alimentare una rete di diffusione popolare nella quale crediamo, perché sappiamo che il limite estremo del documentario, della narrazione documentario, è quella di avere un pubblico. Puoi anche fare dei lavori incredibili, ma dal punto di vista professionale, frequentando anche i market, i festival internazionali, sappiamo che anche lavori che raccontano in maniera sublime la realtà contemporanea poi si limitano al circuito festivaliero o a piccole proiezioni in alcuni cinema d’essai. Il nostro tentativo è quello di riuscire a coprire tutti gli aspetti del racconto, partire dalla realtà per ritornare alla realtà, cercando di trovare dei meccanismi nei quali il pubblico sia inserito, questo è assolutamente importante, riuscire a trovare il modo per raccontare le storie.
Claudio: Facendo anche un collegamento con la domanda precedente, come SMK l’idea di Luigi di produrre un film insieme, di lavorare a un film insieme, non soltanto ci ha fatto piacere per il fatto di avere un compagno di strada con cui avevamo già intuito una grande convergenza, ma ci ha dato anche il senso del lavoro che stiamo facendo con il nostro portale, sottolineando l’importanza di creare reti che aiutino a riflettere su come produrre assieme, come distribuire assieme creando una filiera che riesca a supplire sia alle esigenze pratiche, come la rapidità nell’attivarsi, fino a un discorso di programmazione, in una prospettiva condivisa di distribuzione. Abbiamo sentito l’esigenza di questa cosa e stiamo provando a dare una risposta con una rete di persone che sono sì realizzatori di documentari, ma anche persone che sono parte di reti con altre comunità, ne è testimonianza anche il fatto che noi siamo qua stasera a presentarlo al Gabrio. Questa grande rete di comunità rappresenta il primo meccanismo di attivazione e di diffusione che ormai sta abbracciando un livello nazionale buono e che inizia a rappresentarci una direzione piuttosto chiara per come distribuire le nostre opere.
Nicola: E questa cosa, aggiungo anche questo pezzo che secondo me è molto importante, questo meccanismo di produzione e di diffusione in realtà riguarda intimamente la storia che vogliamo raccontare. Ci siamo resi conto che nell’aprire e nel seguire questa strada siamo responsabilizzati di fronte a un pubblico, dobbiamo fornire delle risposte, dobbiamo accompagnare ed essere accompagnati dalle persone che stiamo cercando di coinvolgere, quindi il discorso che si faceva prima sul come raccontare questa storia, include anche il chiedersi a chi la stiamo rivolgendo. Non stiamo semplicemente ripercorrendo la strada che ha già fatto la televisione nel constatare quel che sta succedendo e semplicemente fare i voyeur, stiamo cercando anche di porci delle domande rispetto al contenuto stesso della storia che stiamo raccontando. Su questo non abbiamo ancora ovviamente la risposta perché siamo esattamente nel pieno dello svolgimento, però è molto interessante affrontare già il problema della distribuzione e della produzione già mentre stai realizzando il prodotto, perché ti devi porre anche molte domande sul significato di quello che stai facendo, e questo, come diceva Luigi prima, riguarda molto l’etica, sia del lavoro che della narrazione. Questo secondo me è la parte più affascinante del fare documentari in questo modo, perché è molto diverso dal fare una domanda, sottomettere una application a un fondo regionale o ministeriale, prendersi dei soldi e poi raccontare la propria storia e sperare che… È invece porsi fin dall’inizio il problema che quello che fai deve rispondere a dei bisogni, a delle esigenze, a delle curiosità, ed è molto importante.
Claudio: È un po’ il senso della parola indipendente che forse si è dimenticato.
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