Auto-intervista collettiva ad Alberto Peruffo come contatto dei NAP dopo la stesura di TTT, togliere-togliere-togliere.
Lungo la SP 246, che porta da Montecchio a Valdagno, verso le Piccole Dolomiti vicentine, compare questo cartellone ricolonizzato da autori poco-noti. Siamo nel cuore dei territori devastati del Veneto, tra la Superstrada Pedemontana Veneta e la Fabbrica Miteni di Trissino, celebre per l’inquinamento da Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche responsabili della più grande contaminazione dell’acqua potabile d’Europa, che ha messo a rischio la salute di 350.000 abitanti. Quell’acqua – un bacino grande come il lago di Garda – scende dalle montagne di Recoaro. Da questa foto Archivio CCC deriva la rielaborazione grafica TTT nell’articolo del Manifesto pubblicato su GognaBlog.
«Non fermatevi di fronte alla metafora rivoluzionaria del nostro linguaggio: la prole, siete voi; la falce, le spighe del bene comune, super partes; il martello, il suono armonioso dei nostri chiodi e del nostro cuore» (NAP)
Che cos’è questo manifesto e chi sono i NAP?
TTT è presa di posizione, un manifesto sui generis, certamente forte e molto fuori dal normale, dalle norme. Sia di comportamento, sia di linguaggio. Ci tirerà addosso un sacco di critiche. Ma abbiamo passato un limite e bisogna porre un argine. Siamo stanchi di gente che spitta a destra e a manca, senza conoscere la geografia e la storia dei luoghi, senza preparazione, senza percorso e senza fatica – anche cognitiva – sulle montagne che vanno ad usurpare. Solo perché hanno uno strumento devastatore in mano. Di cui non conoscono le conseguenze.
I NAP sono un gruppo di preparati giovani alpinisti fuori dalla norma, appoggiati da meno giovani e altrettanto – usiamo questa parola, perché legittima, nello specifico certamente – ribelli. Appaiono e scompaiono, anche a casa mia. Rispettano la natura delle pareti e spingono al massimo l’arrampicata libera, le loro singole possibilità declinate a quelle dei territori, l’originario free climbing che in montagna sarebbe dovuto diventare il più possibile clean climbing, per riprendere le vecchie definizioni californiane, spesso incomprese, fraintese o forse, solo semplicemente, trattenute. Ciò che leggerete è frutto di una solida scrittura collettiva che è stata voluta fortemente da loro.
E tu che c’entri e cosa significa questo nome?
Mi sono trovato in mezzo, senza volerlo, perché ho aperto vie che hanno ripetuto o di cui hanno sentito parlare, in particolare la Via Dei Montecchiani Ribelli – raccontata su AM – e Alpinismo Radicale. Vie indubbiamente di valore locale, ma dense di contenuti. O forse la via con il Caro Potente Mass sulla Pala di San Martino, usando 1 chiodo di protezione su 750 m. O perché vent’anni fa con i miei amici ferraresi istituimmo – sempre informalmente e provocatoriamente – la prima area no-spit delle Alpi Orientali, in Lagorai, per evocare le intuizioni pionieristiche di Ivan Guerini. I titoli, gli scritti di quelle vie, lo stesso mio vecchio progetto di rete – Intraisass – come altri miei scritti su GognaBlog o presenza in altri spazi culturali, tutto ciò ha aperto il loro immaginario. Mi hanno quindi contattato e abbiamo fatto delle riunioni, diciamo, segrete. Li ho ascoltati e dopo un periodo di riflessione collettiva abbiamo cercato di esprimere al meglio la “nostra” voce, che riflette pure i miei, i nostri tanti anni di alpinismo esplorativo in giro per il mondo. Pescando nella mia esperienza di agitatore culturale – diciamo così, per abbassare i toni e rispettare una definizione normata, visto quello che segue – ho suggerito alcune parole chiave e un nome immaginifico: NAP, Nucleo Alpinisti Proletari. Seguito da una ripetizione inequivocabile: togliere-togliere-togliere: TTT. Poi tutti insieme abbiamo partecipato attivamente alla scrittura collettiva dei documenti che esprimono questa presa di posizione.
In estrema sintesi, di cosa si tratta?
Estremissima? Fare sparire i trapani dalle montagne e sentirsi legittimati ad usare falce e martello – per richiamare l’immagine potente che pesca da un ramo della metafora NAP – quando vediamo spit nei luoghi dove non dovrebbero esserci. Articolando il discorso, abbiamo cercato di valorizzare al massimo l’alpinismo trad, per dire, alla Massarotto-Verri, e, anche se diverso dal nostro sentire, di comprendere la ricerca “sportiva” per quello di buono che ha portato nel “liberare” l’arrampicata dagli eccessi dei mezzi artificiali, chiodi a nastro compresi, negli anni delle perversioni dell’artificialismo spinto. Per fare dei nomi che hanno segnato la storia dell’’arrampicata sportiva, multipitch, sulle grandi pareti, abbiamo cercato di capire e di dare valore alla ricerca sul modello Larcher-Oviglia, dal basso, che cercava di passare dove il trad non poteva esistere, spingendo al massimo le difficoltà obbligatorie, e quindi la preparazione, in arrampicata libera. Chiaro: questo rappresenta e rappresentava una chiara rottura con i limiti dell’alpinismo che io chiamo radicale, rispettoso delle pareti, il clean climbing e il trad, ma che poteva – a quel tempo – fare capire l’importanza di questi limiti. Per portare nuova linfa all’alpinismo di ricerca, che non altera le pareti. Altra cosa, ovviamente, rispetto all’arrampicata sportiva. Invece, con l’evolversi della tecnologia, del trapano per tutti, siamo arrivati alla seconda ondata di perversione, dopo gli anni delle direttissime artificiali. Spit à gogo. Perciò dopo gli anni Settanta, le successive sperimentazioni degli anni 80/90, siamo giunti a un nuovo scarto.
Ma perché parli di perversione? Termine assai appiccicoso, quasi ci fosse una purezza. Cosa intendi?
Quando il verso dell’oltranza si rivolge contro noi stessi. Questo intendo. Nessuna purezza. Che non esiste. Si tratta di pratiche di libertà che portano a vicoli ciechi. A chiusure. A un volgersi dentro, magari rovinando tutto quello che c’è fuori. In altre parole, verticali, pur capendo eventuali trasgressioni e composizioni, diciamo di genere, tra trad e sportiva, nei tratti dove non si poteva chiodare, ora si spitta tutto, senza più fare ricerca e leggere le pareti. L’uso indiscriminato del trapano sta uccidendo l’alpinismo trad e pure l’arrampicata “libera”, nella sua accezione più bella e originaria, che non è certo quella sportiva. Così accade che sotto i colpi totalitari dell’arrampicata – appunto – “sportiva”, con spit ascellari, anche fuori dai campi di gioco che sono le falesie, si portano masse di gente a fare un’attività di per sé pericolosa, un tempo pratica libertaria di grande responsabilità e rischio personale, oggi divenuta ginnastica illusoria, una specie di fittizia e trattenuta libertà outdoor, all’aria aperta: una semplicistica ricreazione per adulti viziati dalla sicurezza ad ogni costo, dove il gesto, proprio per questa sicurezza, è diventato pure esso troppo performante e muscolare. E se qualcosa va storto, arriva il soccorso. Meglio, lo si pretende. Con quali conseguenze? La morte non solo dell’alpinismo come attività libertaria, ma il degrado degli stessi territori, ora non più terreni di libertà e di wilderness, ma di conquista: sia di individui troppo sicuri di essere qualcuno da dover lasciare un segno importante, tipo una serie di spit, irreperabili, che è invece una violazione della natura; sia del mercato legato alle montagne. In due parole, la montagna usurpata dal mercato e da beoti omologatori, la quintessenza del machoman occidentale postcapitalista, salvifico e securitario, dotato di Suv anche nel cervello, omologatore e performante, che qui diventa perforante.
E allora, cosa proponete di fare?
Semplice e complesso allo stesso tempo: TTT. Togliere, togliere, togliere. Ciò che usurpa va tolto. Altrimenti rischiamo di vedere rovinate le pareti e la storia delle stesse per sempre. Rischiamo che l’arrampicata sportiva fagogiti l’alpinismo, l’arrampicata di ricerca, di avventura, di conoscenza. Come? Basta tirare fuori il trapano e tutto viene risolto subito. Ti racconto un fatto. Il mio grande maestro d’alpinismo, compagno di Casarotto, Giacomo Albiero, a cui dedichiamo TTT, quando gli chiesi cosa avrei dovuto fare di fronte a uno spit che trovammo un giorno davanti a noi, su una via storica, mi disse, in tono dialettale, con vocali apertissime, senza esitazione: «Cava, cava, cava!!!» – che significa, togli-togli-togli! A parte i salti mortali nelle associazioni degli acronimi – il cava-cava-cava richiama pure il CCC di un progetto culturale per noi importante – Giacomo aveva ragione e io seguo il suo insegnamento. Scintille. Lo stesso fanno i NAP. Togliere-togliere-togliere. TTT.
Certo, che NAP, con quel proletario di mezzo, fa un po’ paura e sembra retrogrado?
Vero e falso. Vero se ti fermi a un immaginario usurato. Falso se usi quel nome per rilanciare un immaginario che da quell’usura è stato deviato, allontanato dal suo scopo originario, quello di dare il potere, la scienza, la libertà a tutti coloro che lottano per averla e difenderla, che non ce l’hanno per nascita o privilegio. E tutti coloro… sono una complessità non classificabile e riducibile a un popolo caprone, beota, securitario. Il proletario, la prole, combatte sempre per il proprio futuro. Nella sua irriducibile complessità. Se TTT è semplice al suono, gli estensori/firmatari non lo sono. Sia perché siamo un gruppo molteplice, multiforme, vario, sia perché con quel nome vogliamo esprimere la carica “sovversiva” rispetto alla spinta omologatrice tipica di ogni società servile, anche nel mondo della montagna. Per questo abbiamo voluto attingere a parole controverse. Per alcuni antipatiche o indigeste. Ma cariche, per l’appunto, di immaginario, pericoloso. Abbiamo messo come termine denominatore “proletari”, ma avremmo potuto mettere “radicali”, nel senso di rigorosi e attaccati, per così dire, alle radici: alla natura delle pareti e alla loro storia. Ai nostri corpi, individuali e collettivi. Alle nostre mani e alle nostre terre. Ma ci interessava soprattutto lasciare spazio alla prole, al futuro. C’è quindi una ragione laterale, obliqua, storica, e una centrale, riconducibile all’etimologia, che ci ha fatto scegliere questo inoppugnabile nome, per niente retrogrado, bensì importante e “portante”, che ha lo scopo preciso di porre un netto distacco da coloro che ci vorrebbero ammansire con le parole di comodo e adatte a tutti, i cosiddetti “educolratori del limine”, così li chiamo io, affascinati dal nostro agire e pensare, che dicono di stare con noi, ma poi nei fatti non lo fanno perché le nostre parole ricordano troppo l’utopia di un tempo. Oggi spenta. Utopia che passò anche per le nostre montagne. Noi abbiamo deciso di riaccenderla. Scegliendo questo nome ridaremo lustro e luce alla parola “proletario”, che diventerà ciò che era: uno dei lemmi più belli al mondo.
Potresti spiegarti meglio, partendo dalla ragione laterale di questa scelta. Sembra tutto molto interessante… e distante.
Il fatto laterale – quello della lotta per difendere i nostri diritti, anche come alpinisti – è per niente trascurabile, perché si connette al vetusto e abusato utilizzo politico della parola “proletario”, che va oltre l’etimologia, e che per noi è stato fondamentale nella scelta: noi siamo proletari e libertari per davvero. Fino al midollo, sicuramente gli estensori, poiché non vogliamo padroni e ricconi sulle montagne che fanno o fanno fare agli altri quello che loro desiderano, ad ogni costo. Compreso quello di rovinare per sempre le pareti, per quanto l’alpinismo sia solo una piccola parte e per certi aspetti minimamente determinante sull’impronta sociale e ambientale della nostra epoca. Ma non è così. Ogni nostro atto quando diventa condivisione e comunicazione – come lasciare un segno, un chiodo modificante o una scia di carburante – è un atto politico, che indica la civiltà, lo stile dello stare in società, in una comunità di persone, sia esso il semplice piantare uno spit o l’usare un elicottero o una moto per raggiungere il campo base o una cima, per rendere più facilmente accessibile e illusoriamente sicuro il proprio divertimento. Si deduce che un gesto fatto nel mezzo della nostra selva oscura, sia essa montagna, sia essa la città o i paesi dove viviamo, ha sempre un valore politico, nel senso primo della parola, anche se resta circoscritto a una comunità di semplici alpinisti o arrampicatori sportivi. Tutti possiamo scegliere e dobbiamo scegliere. Altrimenti vada come vada. Senza poi venire a lamentarsi per le conseguenze delle nostre non-scelte. Non ultimo, il clima sta cambiando, anche a causa delle cattive abitudini di chi frequenta la montagna facendola diventare un sobborgo della città, con le sue gerarchie e oligarchie. Il proletario, l’uomo che viene dal basso delle proprie esperienze e relazioni, di prossimità, non di privilegi o da posizioni a priori, remote, sceglie. Noi, con questo presa di posizione proletaria e libertaria, dal basso, scegliamo: non vogliamo che le montagne siano ridotte a delle appendici della città. Amiamo la loro complessità e irriducibilità, anche negli aspetti meno digeribili. La montagna è luogo di difficoltà e conflitti, di transizioni, non solo di poesia. Non vogliamo che la bellezza e la complessità della pratica alpinistica – ciò che una volta si chiamava romanticismo – sia ridotta a semplice, omologante, straziante prestazione sportiva, ad arrampicata sportiva iperprotetta anche dove quella protezione è un insulto alle capacità umana di affrontare la diversità, l’alterità, ciò che nasconde il difficile concetto di natura. Non so se mi spiego. Per questo lottiamo. Togliendo il superfluo. A cominciare da noi, dal nostro agire e dal nostro nome. Anche per chi voleva nomi più rasserenanti.
A questo punto il significato centrale di “proletario”, forse tanto centrale non è…
Diciamo che il fatto laterale, periferico, alimenta il centro, il significato originario, etimologico: la prole. Lo facciamo per i nostri figli e anche per i figli di coloro che si credono padroni del mondo perché hanno un po’ di denaro per comprare tutto: guide, montagne, sicurezza, media. O tempo libero illimitato da rendere tutto il mondo una palestra di arrampicata per fare party sponsorcentrici o feste devastatrici. Siamo perciò contro le guide e le associazioni alpinistiche, turistiche, di ogni ordine e grado che abusano della loro competenza e autorità: siamo contro tutti coloro che vendono le montagne per un pugno di lenticchie. Che poi lenticchie non sono, ma soldi profumati per i propri personali interessi, per quanto apparentemente legittimi. E se qualcuno ci dice – qualcuno ce l’ha detto – che siamo per niente rispettosi di coloro che piantano “chiodi a perforazione” a destra e a manca, senza riserve, noi diciamo che sono loro i primi ad averci mancato di rispetto. Modificando per sempre le montagne, smantellando la loro natura, togliendo spazio al futuro. E di fronte alla irreversibilità di certe azioni, non c’è altra soluzione. Togliere-togliere-togliere. Insomma, crediamo nella montagna by fair means, e tanto basta per meritarci tutti i nemici che ci meritiamo. O gli amici che verranno.
Tra questi, come siete messi con il CAI. La vostra sembra davvero una presa di posizione “rivoluzionaria”, rispetto agli standard vigenti?
Io credo lo sia. Nella mia durissima lotta contro l’inquinamento delle acque nelle mie valli – il caso nazionale sui PFAS – sulla quale sono e mantengo la prima linea, ho visto quasi nessuno del CAI partecipare alla manifestazioni o prendere posizione. Sottolineando questo, ho raccolto diverse critiche e qualche diffida. Pur avendo tanti amici e compagni nei CAI locali, che rispetto e che per certe cose vedo sensibili, ho trovato per lo più soci poco coraggiosi o troppo impegnati nel proprio giardino di divertimento – la montagna come luna park, come parco separato dal mondo reale – nonostante gli inequivocabili principi ambientalisti dell’associazione e certe chiare prese di posizione a livello nazionale. Guai invece esporsi localmente. Potrebbe far male alle relazioni di interesse locale. Che trovo meschine quando avvelenano i nostri figli. Così ho coniato questo discutibilissimo ma potentissimo slogan: «CAI? Figli dei fiori in montagna, figli del liquame in città». Espresso in qualche occasione. Come agli amici presenti al Teatro Olimpico di Vicenza nella serata di inaugurazione del Trento Film Festival per omaggiare Renato Casarotto. Non è vero? Dimostratemi il contrario nelle mobilitazioni necessarie quando bisogna combattere per le giuste cause, che vanno contro i grandi interessi monopolistici, che esistono dappertutto, in montagna come in città. Invece spesso molti presidenti delle sezioni locali o istruttori preformattati – “caiani”, come vengono chiamati nel giro del CAI stesso – sono paraculi – permettetemi la licenza specifica – dei sindaci del momento, al posto di essere una sana spina di critica ambientalista nei fianchi della città, del paese. TTT io credo possa rappresentare proprio per questa sua irriducibilità e informalità una presa di posizione davvero “sovvertitrice” dell’ordine costituito. Il resto lo vedremo. Il futuro è aperto, diceva Konrad Lorenz, per coloro che non siedono sulle poltrone del sapere e delle pratiche costituite.
Ossia?
Considerato il concetto di clima, oggi riemerso, TTT potrebbe generare per il mondo dell’alpinismo e dell’arrampicata una specie di climate change mentale, un CCC per riprendere il cava-cava-cava di Albiero, un Climbing Climate Change che va pure contro il cambiamento climatico di cui le stesse pratiche razziatrici di risorse sulle montagne sono responsabili. Il sogno di questo cambiamento per noi resta attivo. Nonostante i venti contrari, le critiche e la disillusione, il disincanto di fronte alla terre devastate in cui viviamo, la dismissione dalle pratiche di conoscenza e intelligenza accessibili a tutti. Per fare una citazione dotta, anche se non servirebbe, ricordo sempre agli amici cosa fa dire Euripide alla terribile Elettra: «Bisogna conoscerli a fondo i fatti prima di avversare, altrimenti perché avversare?».
In conclusione?
In conclusione, non cerchiamo una massa di proseliti, ma una riflessione di massa. Veicolata da pochi, buoni, compagni che aderiscono, anche solo simbolicamente, ai NAP. Per fare passare un messaggio duro quanto l’argine di un muro compatto, liscio, di roccia improteggibile, che ostacola il cammino. Vogliamo arginare un fenomeno: l’imborghesimento delle pareti e delle montagne. L’imborghesimento, l’addomesticamento, della nostra libertà. Vogliamo lasciare una porta aperta. Respirare futuro, ignoto, diversità. Noi continueremo a togliere-togliere-togliere senza rinunciare al rispetto e alla conoscenza delle persone e dei territori che abbiamo di fronte.
Ah, dimenticavo, per parafrasare Filo Sottile di Alpinismo Molotov, i NAP sono inclusivi, ma allergici alle supercazzole, sia nel loro significato di nonsense, di mutanti spannografici con trapano in mano, alpinisti una tantum, sia nel significato di cazzuola, coloro che gettano letame e cemento, sempre a spanne, nelle fessure rocciose della nostra libertà. Noi, in Veneto, di uomini coltivati a spanne, ne sappiamo qualcosa. Ma di questo e altro vi racconterò.
Buone montagne.
Domande/dialogo raccolto dai NAP [Nucleo Alpinisti Proletari] durante la stesura di TTT – 21 dicembre 2018
Particolare del cartellone Non torneranno i prati, sulla SP 246. Archivio CCC
Un importante Post Scriptum dopo l’intervista
di Alberto Peruffo
Alla presa di posizione dei NAP hanno già aderito diversi amici che hanno firmato, aderendo in modo simbolico, dando perciò sostegno alla causa e all’impegno del manifesto TTT. Oltre al sottoscritto, hanno aderito Pier Verri, Heinz Grill, Gian Maria Mandelli, Franz Heiss, Davide Valsecchi, altri nomi importanti… più di 50 alpinisti che presto renderemo pubblici su CCC. In anteprima assoluta il testo è stato consegnato e pubblicato nell’ultimo numero di Alpinismo Goriziano – con il titolo Uno spettro si aggira tra le Alpi – Settembre-Dicembre 2018, ora in circolo, la quale è la rivista più orientale delle Alpi. Abbiamo voluto partire di proposito dall’estremo oriente. Da dove sorge il sole. E il nuovo mattino? Molti ci chiedono o si chiedono che significato ha avuto il Nuovo Mattino qui da noi. Ce lo chiedono ora, a cinquant’anni dal ’68, a 35 anni dalla morte di Gian Piero Motti. Difficile dare una risposta. Personalmente, sono troppo in mezzo per darla, essendo pure agente di connessione con le nuove generazioni. Forse potrei suggerire un’uscita. Di continuità. Dopo il fallimento di certi valori.
Appartengo alla classe 1967. Vengo dalla scuola, dall’immaginario di Casarotto. Che scuola non è. Posso dire che il “mattino nuovo”, l’alba di un alpinismo più umano e visionario, rispetto ai valori originali e originari, primigeni, di libertà e rispetto della complessità, qua ad oriente ha avuto qualche grande interprete. Renato, credo, prima di tutti, tra i conosciuti. Certo, gli alpinisti d’oriente scrivevano poco e scalavano di più. Erano visionari senza scrittura, per parafrasare Gogna. Ma troppo poco collegati con il mondo reale. Qui da noi un Guido Rossa, non esisteva. E forse questo distacco, sia ad occidente, sparito Motti, nel suo umano fallimento, sia ad oriente, nella grande tragedia alpinistica di Casarotto, irraggiungibile, fece naufragare tutto. Arrivò la montagna nei suoi aspetti più consumistici e banali. Ma qualche raggio di quel mattino è rimasto. La speranza è che questa volta, quel mattino, oramai passato, esca dalla sua lunga eclissi, e diventi un meridiano. Di fuoco. Di visione. Di consapevolezza. La società di trenta o cinquant’anni fa non è quella di oggi, dove il potenziale tecnologico mette a rischio le fondamenta stesse del nostro vivere quotidiano. Non di una sola persona – fallita, o uccisa dal sistema o dal caso – ma di un sistema intero. «Già, un meridiano di fuoco dove a brillare nella notte delle pareti, provocate dall’eclissi del Nuovo Mattino, saranno le scintille dei nostri martelli sul metallo degli spit, degli usurpatori» – potrebbero concludere i NAP nella loro metafora immaginifica, che non è solo una metafora, ma l’indizio di una scelta radicale di vita dove l’amore per la complessità, la diversità, l’alterità che la natura ci offre, sia superiore all’omologazione e alla domesticità che le illusioni potenziate dalle tecnologie dell’uomo contemporaneo hanno messo davanti a tutto. Davanti alla bellezza e alla fragilità dell’umano stesso. Rendendolo un idiota. Simile a se stesso. In vetta ad un 8000. Sulla cima della propria presunzione. Guardandosi i piedi, o l’orologio, o lo schermo di un dispositivo per dirlo al mondo. Dimenticandosi di alzare lo sguardo verso l’orizzonte. Dove alto splende il sole. Stop.
Togliere, togliere, togliere.
Manifesto TTT del Nucleo Alpinisti Proletari (NAP) -
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