Filo: Siamo corpo. Il mondo ci si rivela attraverso i sensi. Passiamo una mano su un sasso e percepiamo diversità di rilievo nell’ordine del decimo di millimetro; ci sediamo sul prato e riceviamo immediatamente informazioni su temperatura, umidità, conformazione del suolo, qualità e quantità del rivestimento vegetale. Se poggiamo le chiappe su un cardo il mondo ci parla a tu per tu, anche senza essere botanici; stesso discorso quando le narici vengono stordite dalla ginestra.
Non abbiamo l’olfatto del cane, la vista del falco, l’udito del gatto, ma i nostri sensi sono strumenti piuttosto precisi, e contribuiscono in maniera determinante alla costruzione della nostra realtà, anche quando si fanno ingannare. Desideri, fantasie, proiezioni ed emozioni colorano, danno forma, mutano in continuazione i nostri corpi. Ci ingobbiscono, ci prostrano, ci fanno camminare a un metro da terra, andare a testa alta.
È sui nostri corpi che il tempo prende appunti, li cosparge di cicatrici, fratture, segni, righe, rughe, pieghe, nei. I nostri corpi occupano spazio e sono misura dei nostri percorsi. L’unicità di ogni individuo è scritta, si manifesta nella sua corporeità.
È nelle occasioni in cui si torna a questi dati minimi di concretezza, credo, che i ragionamenti, i discorsi, le azioni acquisiscono un senso. Ma il mondo in cui viviamo, il tempo spietato del tardo capitalismo, ci aliena dai nostri corpi e li ostacola: tende fili taglienti, linee, muri, confini. Confini che ci vengono spacciati come naturali. I passaggi si fanno angusti: o si accetta di pietrificarsi in pose da contorsionista, robe mai viste nemmeno nella più rocambolesca partita a Twister, o ci si ferisce su quei fili, su quei confini. Molti perdono tout court la vita.
Simone: L’avvicinamento a Diverso il suo rilievo 2018 è stato per noi “locali” molto lungo, ricordo ancora con un misto di gioia e ansia l’annuncio dello scorso anno proveniente dal Vis Rabbia: “Ehi, abbiamo deliberato in maniera plebiscitaria che la seconda festa di Alpinismo Molotov si terrà sui Sibillini”.
Nel luglio del 2017 eravamo in piena fase preparatoria del Terre in Moto Festival a Fiastra, il cratere era ancora un cratere, immaginare Diverso il suo rilievo era la cosa più meravigliosamente folle che potevamo aspettarci. Gli ultimi mesi di preparazione, l’individuazione della location e la preparazione logistica, sono stati preceduti dalla sparatoria fascista a Macerata, dalla seguente straordinaria manifestazione del 10 febbraio e da tutto ciò che a cascata ne è seguito. Il cratere inoltre è ancora un cratere, in cui nel frattempo è ricresciuta l’erba sopra le macerie (metaforicamente ma non solo). La stessa festa si è tenuta in concomitanza con l’insediamento del nuovo governo e Diverso il suo rilievo è stata una tre giorni in cui si è respirato molto, una lunga boccata d’ossigeno prima di immergersi in quello che sarebbe venuto di lì a poco e di cui tutti eravamo purtroppo consapevoli.
Mr Mill: È passato poco più di un mese da Diverso il suo rilievo, solamente ora mi decido a riversare in lettere quanto ho accumulato in quei tre giorni – un po’ come il topino Federico dell’omonima storia illustrata di Leo Lionni, mi immagino – e che ho deciso di lasciare decantare prima di provare a rendere sotto forma di racconto scritto. Non so ancora se questa decisioni sia la migliore, so però che scrivere a caldo della festa di Alpinismo Molotov mi sarebbe risultato impossibile: troppo cariche le giornate, emozionalmente intense; molti incontri, emozionalmente coinvolgenti.
La temporalità che si impone durante Diverso il suo rilievo d’altra parte è inconsueta: non si capisce se il tempo è dilatato oppure compresso rispetto a quello che scandisce la quotidianità, al tran tran dei giorni ordinari, certo subisce una curvatura che ce lo rende straniante. Se poi ai tre giorni di vera e propria festa si aggiungono i mesi di preparazione, in un crescendo di attesa, credo sia facile immaginare lo stordimento che accompagna i giorni a seguire. Questo piano temporale che ha come punto focale la festa, per me ha corrisposto a un trasloco di casa, che ha ulteriormente caricato di lavoro la mia CPU celebrale. Scriverne, oggi, significa anche cercare di tracciare un perimetro, almeno temporaneo, di questo spazio.
Simonetta: L’Italia è piccola, ma attraversala in auto, e ti sembra enorme. Del resto, che senso ha parlare di nazione? Stiamo andando alla festa cosmica di Alpinismo Molotov e anche questa volta il viaggio non lo promettiamo breve. Sono in auto con Filo, Sara e la piccola Miriam, che resta beatamente quasi indifferente a caldo, code, cambi di percorso per un viaggio che alla fine ci chiederà più di dieci ore. Ma che le vale tutte. Arriviamo finalmente all’altipiano di Macereto nel tardo pomeriggio, con quella luce netta che staglia le montagne come nei disegni dei bambini. A Pieve Torina vediamo sfilare i segni del terremoto, le abitazioni abbandonate e i container, alcuni edifici che sembrano intatti e altri semi distrutti.
Gemma: Viaggio lungo stancante coda coda, Ancona è lontana e i due giorni di vacanza sembrano un imbroglio, non arriveremo mai, poi esci dall’autostrada prendi le istruzioni che ha dato Simone e pensi ormai è vicino! Iniziano a chiamare per sapere dove siamo finiti, ma siamo tutti in ritardo.
Inizia il verde, tutto attorno una natura più morbida di quella a cui sono ormai abituata, colline e un tramonto mozzafiato, poi però all’improvviso arriva “il silenzio”. Ci troviamo davanti un paese vuoto, case lesionate e nessuno in giro, e così anche il successivo e poi arrivi ad una distesa di baracche e poi è tutto una casa lesionata con annessa baracca, sono container ma io le chiamo baracche perché è quello che sono, e sai che quello che stai vedendo è il terremoto. Quel blocco allo stomaco che mi viene è terremoto, lo conosco bene, le conosco bene le baracche mi ricordano freddo, puzza, miseria, pidocchi, quando perdi casa tua perdi la tua dignità. Ancora mi ricordo mia nonna paralizzata che era costretta a dormire in una tendopoli, però quelli dei miei ricordi sono gli anni ’80 dell’Irpinia di Zamberletti, Nusco, Ciriaco De Mita, Paolo Cirino Pomicino, la ricostruzione mai terminata e la povertà che è entrata nelle nostre case e non è mai più uscita, ma ora dovrebbe essere diverso sono passati 40 anni non può essere ancora così. E invece è così. Non siamo a ridosso delle prime scosse, siamo ormai ad anni dal terremoto e loro sono ancora lì nelle baracche con il bar nelle baracche con il villaggio delle baracche, e sai che a casa tua non tornerai mai più e la rassegnazione diventa realtà. E io mi incazzo mi incazzo per una Italia di merda dove si fa solo il contrario di tutto quello che andrebbe fatto per la salvaguardia del territorio e dove se provi ad opporti sei additato come criminale.
Ok stop.
Rob G.: Partiti tardi, a mezzogiorno, il primo tratto volato via liscio fino a Modena poi, poco prima di Bologna, un tabellone che annuncia una percorrenza di 128’ per Rimini. E che accidenti a lui sbaglia per difetto, alla fine saranno due ore solo per percorrere i 30 km da Bologna a Imola, un po’ più allenato ce la facevo a piedi. Già prevedevamo di non arrivare presto, così siamo proprio oltre. Sono le sette passate e siamo dalle parti di Ancona, mando un messaggio a Andrea, poco dopo lui mi risponde “Tranquilli, qui la cucina è aperta fino alle dieci, ma anche se arrivate dopo qualcosa da mangiare lo trovate”. Maciniamo gli ultimi chilometri, attraversiamo il non più abitato di Pieve Torina, sfiliamo di fianco alle casette e ai container ammassati a monte di quello che era il paese. Troviamo ancora modo di sbagliare strada e allungare il tragitto, poi finalmente siamo sulla salita che porta Macereto, accompagnati da un tramonto rosso carico sulla nostra sinistra. Scolliniamo quasi al buio, ma il colpo d’occhio è impressionante lo stesso, sia per il paesaggio che per le tantissime tende vicino all’azienda agricola, unico edificio in vista. Neanche la stanchezza riesce a offuscare la bellezza di questa vista.
Gemma: Scendo dalla macchina siamo arrivati! siamo in un paradiso terrestre. Siamo in quello spazio/tempo della vita dove pensi sia tutto possibile e dove anche un bimbo di 4 anni riuscirà a fare una passeggiata di 12 km tutto con i suoi piedi e senza perdere il sorriso (si va bene nell’ultimo pezzo era un po’ provato), dove per tutta la camminata sarò sempre accompagnata da qualcun@ che si avvicina, incoraggia, si prende del tempo per far cantare le canzoni a mio figlio Emiliano e per rincorrerlo nelle discese, e dalla pazienza infinita di Simone che non perde mai il sorriso quando il piccolo lo rincorre e lo tampina con mille domande.
Mr Mill: Il luogo che ci ospita, il paesaggio in cui è incastonato, è bellissimo. Io non conosco i Sibillini, conosco pochissimo anche gli Appennini, e quando mi ritrovo lì, sull’altipiano di Macereto, in una giornata tersa e dopo un lungo viaggio, i miei occhi si muovono veloci, scrutando un paesaggio montano fatto di pendii erbosi, linee di cresta, strade sterrate che disegnano tracciati, animali e manufatti umani. Quel che mi colpisce è l’equilibrio nella disposizione di questi singoli elementi. Eccolo qui, il paesaggio come prodotto dell’interazione tra natura e cultura si mostra senza che il peso di una delle due polarità sovrasti l’altra.
Due giorni prima, mentre raccolgo dalla casa che stiamo lasciando le ultime cose, mi capita tra le mani una vecchia guida del Touring club, anno 1929, la sfoglio veloce fino a quando non trovo Visso e leggo:
VISSO (a Macerata km. 65.5), alt. 607; ab. 812-2611; P3 T5
Telef.; Auto per Fluminata (Ussita); per Castelsantángelo; per Piedipaterno – Ferentillo – Terni (Ferr.) km. 69; per Pieve Torina – Camerino (Ferr.) km. 31 – Fabriano; per Macerata.
A seguire le «Località di villeggiatura», qui il mio dito si ferma a indicare agli occhi «Macereto, alt. 1004; ab. 7».
Durante il viaggio che ci ha portato qui, in queste «zone interne» che sono da un paio di anni regolarmente scosse dai movimenti tellurici che risalgono dalla profondità della Terra, abbiamo attraversato paesi di cui visibilissimi sono i danni subiti. Avvicinandoci alla meta abbiamo incontrato anche alcuni agglomerati di “casette Sae”. Penso allora ai numeri riportati sulla vecchia guida del Touring Club, mi chiedo quale sia stata la pendenza – che sia una pendenza negativa lo do per scontato – della linea demografica a partire dal 1929 a oggi, mi chiedo se e quanto sarà influenzate da questi anni di continue scosse telluriche.
Dopo tre giorni passati all’Azienda agricola di Marco Scolastici, con una forte partecipazione e collaborazione di “local” che da quei paesi hanno deciso di non andarsene, penso che alla fine i numeri contino, ma che a fare la differenza è la qualità e, in questo caso, l’ostinazione di non abbandonare quei luoghi è solo ed esclusivamente una qualità positiva.
Simonetta: E proprio di terremoto parliamo nel primo degli incontri. Le macerie, le case distrutte o abbandonate sono solo quello che si vede. Quello che non si vede è l’assurda gestione di un evento che di per sé sconvolge la vita di chi ne è investito e che tutto richiederebbe tranne che vengano scoraggiate le iniziative spontanee e autogestite, a favore di decisioni centralizzate che prescindono dalle specificità dei luoghi e dalle identità delle comunità. Igor Londero ci riporta con il suo intervento a un altro terremoto e a un altro tempo: Friuli, 1976. Se l’evento sismico fu altrettanto devastante, le popolazione locale di allora ebbe più margine d’azione, più tempo e più spazio per ritrovarsi ad agire e decidere per il proprio futuro.
Filo: Arriviamo all’azienda agricola Scolastici non proprio freschissime, in particolare Sara e Simonetta che si sono alternate tutto il giorno alla guida. Prima di scaricare le nostre cose lascio al gazebo di Alpinismo Molotov le maglie e l’altro materiale che abbiamo trasportato in auto. Due-tre giri concitati, mentre comincio a salutare Franco, Andrea e Moira. Poi Sara porta la macchina nei pressi dell’area campeggio. Io resto lì ancora qualche minuto lì e arrivano le pecore. Prima di vederle, prima di udire belati e campanacci, le annuncia, ed è quasi un’onda tangibile, l’odore.
È una situazione tutta diversa da quella dell’anno scorso. Ad Avigliana eravamo ospiti di uno spazio sociale, in un ex dinamitificio, all’ombra delle Alpi, ma a poche centinaia di metri da una zona industriale. Qui siamo “in mezzo al nulla”, in un’azienda agricola attiva, in una delle località colpite dal sisma che impropriamente ha preso il nome di Terremoto Centro Italia. Qui siamo fra gente che resiste e continua a vivere nel e del proprio territorio, nonostante le difficoltà derivanti dal sisma e dalla gestione autoritaria e deficiente dello Stato.
È proprio questo l’argomento di apertura della festa, i terremoti. Dalle parole di Igor Londero, Michele Serafini e Simone Vecchioni viene fuori forte questa tensione fra l’economia della crisi, che apre spazi e affari per speculatori e squali vari e che ha la conseguenza di privare completamente le popolazioni del proprio diritto di autodeterminazione e i tentativi invece di autorganizzarsi, preservare la comunità e il tessuto sociale, affrontare collettivamente lo shock, fare della crisi un’occasione di crescita sociale.
Igor racconta del terremoto del 1976 in Friuli. Parla di comitati spontanei, di mense comuni; del tentativo di dividere le popolazioni colpite in buoni e cattivi e di bollare come azioni di gente che viene da fuori tutte le proteste e le iniziative che tendono all’autogestione. Wu Ming 1 è seduto vicino a me e commentiamo diverse volte: “questa l’abbiamo già sentita”. In fin dei conti, lo Stato non brilla per fantasia, applica sempre le solite strategie ogni volta che qualcuno abbandona il principio di delega e comincia a discutere, a confrontarsi per scegliere cosa fare del proprio tempo, del proprio corpo e dello spazio in cui vive agisce.
Simone: L’arrivo del venerdì è alla spicciolata, chi arriva dal profondo nord ha affrontato dieci ore di viaggio e le prime pacche sulle spalle sono più ristoratrici che di benvenuto. Si sistemano i banchetti, si consegnano le ricompense del crowdfunding e ci si incontra finalmente con chi si è parlato, magari per mesi, solo a distanza. Nel frattempo per Marco Scolastici e per i ristoratori di Visso, che si occuperanno in maniera superba della nostra fame e della nostra sete per i tre giorni del festival, si concludono gli ultimi preparativi. Iniziamo Diverso il suo rilievo forse nell’unica maniera in cui avremmo potuto farlo: parlando di terremoti. Lo facciamo senza fermarci alla terra ballerina sotto ai nostri piedi ma seguendo la faglia che nello spazio tempo ci porta nel Friuli (ti giuro Igor che imparerò l’accento corretto) e in Nepal, tra le lotte dei terremotati e le dinamiche neoliberiste che si ripetono uguali a sé stesse nel corso dei decenni di fronte alla distruzione. L’incontro finisce come finiscono le partite di calcetto tra bambini nei campi di periferia: quando il tramonto ci saluta e non c’è più la luce del sole. Mi alzo pensando che avremmo potuto dire molte più cose, tutte quelle che anche personalmente ho accumulato in questi 20 mesi, poi arriva Wu Ming 2 e mi dice che la parete del Bove alle mie spalle al tramonto ha dato spettacolo con dei colori mai visti. E penso che ancora una volta la montagna ha parlato per noi.
Mr Mill: La prima serata non lascia respiro. Chi arrivava da nord ha accumulato ritardi sui piani di viaggio lungo le autostrade che discendono la penisola, giunti sul posto ci mettiamo all’opera: sistema il banchetto, prepara le ricompense del crowdfunding, accogli e offri indicazioni. Anche il programma subisce un ritardo, ma a conti fatti non è un ritardo fuori dall’ordinario per una festa autogestita. Il dibattito sui terremoti, al plurale, si svolge sul prato, dopo il saluto della Wu Ming Foundation per voce di Wu Ming 1. Il fondale che si presenta a chi vi assiste è composto da una corona di montagne, sulla sinistra la vista del Monte Vettore e la sua parete rocciosa, e un cielo che via via vira i propri colori alla luce dell’imbrunire.
Mi trovo casualmente sullo sterrato che dalla strada conduce all’interno dell’azienda agricolo, quando a piedi arrivano Slavina e Flaccidia per la messa in scena di Ode alle zampe di capra. Mi avvicino e mi presento, poi con loro andiamo verso la stalla che per quei giorni non è una stalla, lì dove andrà in scena la performance (e dove si condivideranno i pasti). Iniziano a prepararsi, io torno al banchetto, Simone che è la nostra colonna sul posto è subissato di domande e richieste per sistemare tutto quel che c’è da preparare. Riesce in tutto questo a mostrarmi, indicandomeli con la mano e commentandoli in presa diretta, i percorsi delle “escursioni a passo oratorio” che sono in programma sabato e domenica.
Nel frattempo la stalla che non è una stalla si è riempita di gente, io faccio un breve intervento “logistico” al microfono, poi tutta la scena va a Slavina, la penombra della stalla che non è una stalla si illumina dei colori proiettati delle illustrazioni realizzate da Flaccidia. Io esco, mannaggia a me mi perdo tutto lo spettacolo, lascio il banchetto e rientro solo al richiamo del fragoroso applauso finale. La decostruzione e ricomposizione della leggenda della Sibilla è un successo, questo è chiaro anche senza aver assistito alla performance e mi dico che questo è quel che conta.
Filo: Slavina è vestita solo di corda, pietre e luce colorata. Gli zoccoli di legno scricchiolano su un ponticello di sassi. Legge la sua Ode alle zampe di capre e il mio occhio interiore si apre su una lettura di due decenni fa: le fate di Pretare di Slavina si muovono allo stesso modo in cui ho immaginato saltasse di balza in balza Gurù, la ragazza capra de La pietra lunare, il primo romanzo di Tommaso Landolfi.
Slavina è ironica e ammiccante e allo stesso tempo perfettamente aderente alla sua corporeità. Racconta la leggenda e ne prende le distanze, contemporaneamente. È un lavoro di setaccio, le incrostazioni patriarcali vengono messe in evidenza. La narrazione viene cosparsa di solvente e l’odiosa patina del folklore, quel modo che i vincitori hanno di raccontare le storie dei vinti, finalmente si scioglie. Di sfondo ci sono le silhouette dipinte a colore denso da Flaccidia. Corpi che qualcuno direbbe in pose equivoche e che invece sono inequivocabili. E in quella piccola variazione rimane traccia del conflitto fra il desiderio dei corpi e la sua sistematica repressione a fini di dominio. E chi a tale dominio si ribella viene perseguitato, emarginato. L’ode di Slavina racconta di almeno due luoghi usi ad accogliere emarginati e perseguitati: la montagna e la notte.
Quando lo spettacolo finisce parte un boato di approvazione. Mi alzo e sento Wu Ming 1 che dice: «Alle feste del CAI non si vedono robe così». Lode a Slavina e Flaccidia dunque, che ci hanno permesso di violare un altro confine.
Rob G.: Dieci e qualcosa di sera, sono vicino al banchetto, parlo con Andrea e Simone e cerco di dissuadere mio figlio dal sollevare pietre pesanti quanto lui, quando dalla stalla-teatro alle mie spalle arriva un boato. Slavina ha appena finito lo spettacolo, ovvio l’applauso, ma questa è un’ovazione. Guardo gli altri, stupiti quanto me, poi il sorriso di Simone si allarga ancora. Fanculo gli intoppi iniziali, la festa è partita, e viaggia benissimo.
Mr Mill: La Sibilla è una presenza discreta ma costante durante i tre giorni, sarà che questa è casa sua. Il monologo di Slavina, ma anche il racconto che ne fa Mariano durante le escursioni a passo oratorio in cui – con Davide G. e Filo – viene messo all’opera Il codice dell’oro, un libro nato bifronte e che, strada facendo, si è fatto multifronte. Mariano – che per l’occasione ha realizzato anche un’agile pubblicazione, Il paradiso della regina Sibilla. Un manuale per la costruzione dell’Incanto – nei giorni successivi alla festa, scriverà nella mailing-list di Alpinismo Molotov:
«Dal mio personale punto di vista, avendo speso un po’ di tempo per trovare una storia locale che si prestasse all’escursione narrativa, sono stato piacevolmente colpito dal fatto che Slavina sia partita dalla stessa storia (quella della Sibilla) e ne abbia evidenziato prospettive molto diverse e del tutto complementari alle mie: se attraverso Guerin Meschino lei ha messo in luce la forzata demonizzazione della figura della Sibilla da parte della Chiesa e del Capitale, attraverso Antoine de la Salle io ho isolato la possibile costruzione di un incanto emotivamente coinvolgente e al contempo consapevole della sua natura artificiale.»
Alla lettura di queste righe mi ricordo di un libro che ho nella libreria, scritto da una donna che aveva con le terre marchigiane e con la Sibilla un rapporto importante: Joyce Lussu. Appena posso lo cerco nella libreria, lo trovo con facilità nonostante a casa siamo nella lunga coda del trasloco. Si tratta della raccolta degli interventi al convegno dell’Università popolare di Valcamonica-Sebino del 24-25 aprile 1993: Sante medichesse e streghe nell’arco alpino. L’intervento di Joyce Lussu si intitola Sibille e streghe ed è incentrato sullo stretto rapporto tra Comunanze e Sibille, in un passaggio è scritto:
Molti intellettuali tra i più noti, dal Trecento al Seicento, dal cavaliere de La Salle a Agrippa Von Nettesheim, da Benvenuto Cellini a Enea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la sibilla, passando per Norcia, in Umbria, o per Montemonaco, nelle Marche. Lì chiedevano un mulo e una guida per avventurarsi sulle montagne e quello che trovarono non era una vecchia stravagante che leggeva la mano davanti a una grotta, bensì comunità di contadini, pastori, artigiani, tessitrici, guaritrici e via discorrendo che vivevano seguendo regole diverse da quelle che si erano imposte nelle società e negli stati che conosciamo in occidente; comunità che divennero rifugio di coloro che non erano d’accordo con il potere: eretici, libertari, templari sopravvissuti alle stragi di Filippo il Bello, càtari, anabattisti o semplicemente intellettuali che non accettavano l’egemonia teocratica-militare degli stati in formazione. (Pag. 261-262)
Ecco l’ennesima conferma, mi dico: la fottuta risonanza ci ha portato in un posto e calato in un contesto perfetto per la festa di Alpinismo Molotov. Le sibille sono, per forza di cose, dalla nostra.
Filo: Qualche giorno prima della festa un’amica, una compagna, mi manda la foto della t-shirt che indossa. C’è scritto: Mi cuerpo, mi primer territorio. È uno slogan femminista molto diffuso in America Latina. Giro immediatamente la foto a Mr Mill perché quello che stiamo facendo con Alpinismo Molotov, soprattutto quando organizziamo camminate collettive, narrate, aperte al confronto, conviviali è proprio proporre una delle tante possibili saldature fra corpi e territorio.
E pensarle, proporle, organizzarle queste cose, anche quest’anno che ho dovuto tenere un profilo più basso, dà un gusto speciale. È già un pezzetto, per quanto piccolo, del mondo che vorremmo.
Mr Mill: Sono circa l’una e trenta della notte tra venerdì e sabato. In cielo si è alzata una luna a cui manca pochissimo per essere piena. Io e Andrea ciondoliamo in giro, in attesa della crew di Italian Limes che, seppur partita nella prima serata da Bologna, è ancora in strada. C’è silenzio, oramai non si sentono più nemmeno i rumori delle cerniere delle tende, che si aprono e si chiudono via via che la gente se ne va a dormire. Con Andrea scambiamo le prime valutazioni sull’avvio della festa: tutto bene, i momenti più deliranti dovrebbero essere passati, domani la festa entrerà nel vivo. Quando vediamo avvicinarsi nel buio i fari di un auto gli andiamo incontro, sono loro – Marco, Elisa e Andrea –, ci presentiamo e poi li accompagniamo alla tenda in cui alloggeranno. Sono molto contento di conoscerli, il loro progetto mi ha esaltato da quando ne sono venuto a conoscenza, con Marco ci siamo sentiti al telefono per l’intervista pubblicata poi sul blog. Anche loro sono felici di essere alla festa, Diverso il suo rilievo mette tutt* a proprio agio penso.
L’indomani nella stalla che non è una stalla la presentazione del progetto Italian Limes offrirà un punto di vista inconsueto sulla questione del cambiamento climatico, intersecandola con un altro tema molto importante per il lavoro del nostro collettivo: i confini. I confini che ci sono in odio, dispositivo di controllo che è una costruzione sociale e politica, anche se centocinquanta e passa anni di retorica sui «sacri confini» e i «confini naturali» hanno reso l’ovvio non scontato.
Dopo di loro Wu Ming 1 racconta il suo progetto in divenire Blues per le Terre Nuove, che io seguo mentre gusto un’ottima pasta con asparagi e pomodorini.
Filo: È sabato mattina, il sole è sorto da poco. Esco dalla tenda, è tutta imperlata dell’umidità notturna. Mi prendo il tempo di contemplare il panorama con calma. Ieri, dopo 10 ore di viaggio e con il desiderio di salutare compagni e compagne di Alpinismo Molotov, non me lo ero goduto appieno. Il paesaggio per me è inedito e surreale. Siamo su questo altipiano e tutto intorno siamo circondati da alture e montagne. È come essere al centro di una cesta. Il rosso dell’alba cede il passo a un azzurro che riverbera fin sulla pelle. Sarà una giornata tersa. Poi lo sguardo torna alla forma delle creste e delle punte: le percepisco tutte morbide e verdi anche quando sono tagliate di netto, come la parete del Monte Bove.
Mi capiterà diverse volte durante la tre giorni di confrontarmi con altrx che come me vengono dal Piemonte e di cercare di ricondurre questi territori a quelli a noi più vicini: è come il Monferrato, ma con le montagne al posto delle colline, ma no, è come… e giù con un’altra cazzata. E poi rendersi conto che il movimento tettonico, quello tellurico, l’azione degli agenti atmosferici e l’operato dei viventi hanno nel tempo plasmato in questo spazio questo corpus unico e irripetibile e che forse è più interessante descriverlo per le sue caratteristiche specifiche, le sue storie che con dei paragoni.
Mr Mill: Le “escursioni a passo oratorio” sono tutte partecipate, anzi, più è impegnativo l’itinerario più persone si mettono in marcia. Nella fase di preparazione abbiamo dovuto più volte ripensare alle escursioni da proporre: prima per ricavare del tempo per presentazioni – Il codice dell’oro e Partigiani d’oltremare – che ci stanno a cuore e che rischiavano di non trovare spazio nel programma, se non nel tempo dedicato al cammino. Poi per l’imprevisto di una strada chiusa che renderebbe gli spostamenti in auto particolarmente difficoltosi. A posteriori va detto che la quadratura del cerchio per una volta è riuscita: le presentazioni in corso d’escursioni non solo sono state apprezzate, ma si sono rivelate un escamotage utile a evitare che i gruppi in cammino si allungassero fino a disperdere i partecipanti; partire dalle tende e rientrare direttamente al campo base della festa, evitando così il ricorso alle automobili, è stato funzionale dal punto di vista organizzativo.
Simonetta: “Avevamo una pasticceria”, mi dice la mattina di sabato a colazione la donna che ha preparato i dolci: “Adesso facciamo un po’ di catering… Ma ci risolleveremo”, dice, “Sicuro” le sorrido e le rispondo: “sono squisite queste torte”. E mi allontano, perché come sempre in questi casi mi sembra che qualsiasi cosa possa aggiungere sia inutile.
Rob G.: Le colazioni sono state il pasto migliore in questi tre giorni. Sontuose. Sette-otto tipi di dolci diversi, yogurt, frutta, succhi, ovviamente caffè e latte. La coda è lunga, ma sembra che tutti abbiano un risveglio lento come il mio, quindi quell’avanzare lento e ciondolante è perfetto per risvegliarsi un po’ alla volta. Sul lato in fondo al locale una serie di panchine ricoperta dai sacchetti del pranzo, devo andare a ritirare i nostri. Addento una crostata alla ricotta (secondo me il pezzo migliore, e credo di averli assaggiati tutti), poi è ora di mettersi in moto.
Simonetta: Poi usciamo e ci accoglie una giornata luminosa e limpida, l’inizio dell’estate è gioioso e prepotente qui. La nostra meta è la Croce di Monterotondo. Siamo tanti e a camminare insieme a noi c’è una storia, una storia che rischiava di finire dimenticata e che solo recentemente è stata portata alla luce. Wu Ming 2 e Matteo Petracci ci raccontano dei partigiani d’Oltremare, di una brigata che, proprio su queste montagne, combatté i fascisti, una brigata estremamente eterogenea in cui spicca la presenza degli uomini africani forzatamente portati in Italia per la Prima Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Una brigata senza confini, di uomini allontanati dalla loro terra che decisero di abbracciare la causa della libertà e che per essa non esitarono a combattere e morire.
Rob G.: Sabato mattina scelgo la passeggiata lunga, fino alla croce di Monterotondo. Siamo più o meno a due terzi della salita quando usciamo da un bosco di conifere che non fosse per una frana a forma di P sarebbe un quadrato perfetto, emblema di quanto anche principi corretti come il rimboschimento per prevenire delle valanghe possano essere applicati male. Appena fuori dal bosco mi sposto dal sentiero e lascio sfilare il gruppo per vedere se Ruben in fondo ha bisogno di una mano.
Aspetto parecchio, saremo almeno un centinaio, ancora di più dell’anno scorso ai quattro denti, verso la fine del gruppo due persone lasciano il sentiero e si accomodano all’ombra. Vado a parlargli per capire se ci sono dei problemi, mi dicono che non continueranno perché per loro fa troppo caldo per affrontare quella salita scoperta e che si riposeranno un attimo e torneranno giù, ma non c’è nessuna apprensione, né nelle parole né nel tono
Ora che siamo abbondantemente fuori degli alberi dall’alto la vista è impressionante. Tante e tante persone che risalgono il pendio, ognuna ritagliandosi la sua traiettoria su questi immensi pratoni, fino a ricongiungersi sull’anticima, e da lì a seguire la cresta fino alla croce. Poco alla volta ci raggruppiamo, gli ultimi arrivano decisamente provati, ma non credo rimpiangano lo sforzo. Ci sediamo a mangiare e ascoltiamo la seconda parte del racconto che Wu Ming 2 e Matteo Petracci ci fanno della storia di partigiani etiopi, somali ed eritrei che hanno combattuto nel maceratese durante la resistenza, ottenendo in cambio in molti casi l’oblio, come Carlo Abbamagal, di cui si era persa anche la localizzazione della tomba, o persecuzioni, come Abbagirù Abbanagi, accusato di omicidio a scopo di furto per essersi tenuto il cappotto (e forse qualche soldo) di una spia fascista che aveva ucciso durante la resistenza, e assolto solo dopo aver passato due anni in carcere. Questo sotto la Repubblica Italiana, non quella di Salò.
Poco sopra al limite degli alberi il sentiero attraversa a più riprese una strada sterrata che sale a tornanti. In questo tratto durante la discesa incontriamo un gruppo di ciclisti che al primo incrociarsi, forse incuriositi da questo gruppone, si fermano anche a parlare con alcuni di noi.
Al secondo attraversamento invece rischiamo l’incidente, un sasso mal calpestato rotola giù dal sentiero poco sopra la strada e la attraversa sfiorando la ruota un ciclista che sembra non aver sentito il grido di avvertimento, partito peraltro un po’ tardi. Qualche volta dalla rilassatezza alla distrazione il passo è diventa pericolosamente breve. Tutto bene per fortuna, ma per il ciclista e per il suo compagno che lo seguiva un bello spavento dev’esserci stato.
Filo: Davide, Mariano e io siamo le voci narranti di due delle escursioni. Raccontiamo genesi e sviluppi dell’operazione Codice dell’Oro (Tabor, 2018). In entrambe le uscite, nel mio intervento finale, insisto sul valore delle storie di apparizioni fantastiche e personaggi irregolari che sorgono nei territori che attraversiamo in questo piano di realtà. Ogni volta che un luogo produce una storia di questo genere non è più solo quel luogo, lì si apre uno stargate, un portale dimensionale e il luogo diviene allo stesso tempo unico e molteplice: diviene anche un altro luogo. I nostri territori vanno raccontati e riraccontati in continuazione. Hanno bisogno di questa apertura, di questa molteplicità, per sfuggire alla narrazione dominante che li paralizza di volta in volta in località a vocazione turistica, periferie degradate, zone depresse. Il capitale racconta sempre la stessa storia: c’è un posto che è una merda e poi arriva l’uomo del destino che ha l’intuizione geniale e il posto in questione diventa fichissimo, la gente felice e contenta di lavorare per il genio e i treni di botto arrivano in orario. È nostro compito aprire i territori a immaginari plurimi e complessi. La poesia e il fantastico sono strumenti estremamente efficienti in questo senso, se bene usati, e il lavoro sulla Sibilla di Mariano lo mette bene in luce. Ogni luogo è una porta. Teniamole aperte.
Rob G.: Seconda fermata della passeggiata di domenica, Mariano ci porta sotto il monte Sibilla accompagnati da Antoine deLa Salle. Ascoltiamo tutti affascinati, anche i bambini, che degli altri interventi si disinteressavano del tutto, si lasciano affascinare da questa avventura alla Indiana Jones, anche se di Indiana Jones ancora non credo abbiano mai sentito parlare. Di sicuro non ne ha mai sentito parlare Emiliano, che però alla fine vuole assolutamente portarsi a casa un libretto con sopra quella mappa che ha visto girare tra gli ascoltatori.
Alla festa dell’anno scorso Luca Giunti aveva scientemente deciso di farci ri-aprire un tratto di sentiero nel bosco per raggiungere la cava di pietra, quest’anno la cosa non era organizzata, ma ugualmente ci siamo ritrovati ad aprirci un passaggio zigzagando tra gli alberi, anche se stavolta senza bisogno di usare falcetti. Sembra quasi che questa debba diventare una peculiarità di diverso rilievo, d’altronde, come cantano i Mercanti di liquore:
Se impari la strada a memoria, non troverai certo granché,
se invece smarrisci la rotta, il mondo è lì tutto per te
Simonetta: È un tema che ritorna quello dei confini, in questo tempo buio di paure e di chiusure. Dalla croce del monte Rotondo vediamo l’impressionante parete del Monte Bove e la catena dei Sibillini. Quando si arriva in cima è inevitabile posare lo sguardo sulle quinte di altre montagne che si aprono. Perché l’andar per monti è un gioco infinito, dove una montagna non è che una cerniera o una porta per accedere, o anche solo immaginare, un’altra montagna. E che i confini non esistono davvero ce lo spiegano i ragazzi di Italian Limes, attraverso la loro ricerca sul confine mobile alpino. I confini sul filo delle Alpi sono infatti tracciati per convenzione dalla linea spartiacque dei ghiacciai. Ma, a causa del cambiamento climatico che ne determina lo scioglimento progressivo, essi si spostano continuamente. È la natura stessa, in qualche modo, a ribellarsi all’idea di confine facendone emergere l’essenza del tutto fittizia.
E il cambiamento climatico è protagonista anche del reading di Wu Ming 1, Blues per le Terre Nuove, dove un futuro nemmeno troppo lontano promette e minaccia di ridisegnare geografie sommergendo territori. Eppure continuiamo a vivere così, sull’orlo di una costante rimozione, pensando che l’ambiente che ci circonda sia qualcosa che si possa in qualche modo trascurare o consumare, a seconda della convenienza del momento. Sembra impossibile trovare un’alternativa a questo modello, non a caso «è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo.»
Ma se le cose stanno così, tessere una narrazione alternativa al post catastrofismo diventa una forma di lotta e di impegno, non solo nella bassa ferrarese, a cui il progetto di Wu Ming 1 è dedicato, ma ovunque un territorio veda minacciata la propria identità.
Simone: “Mamma sveglia, avevi detto che avresti preso una birra”. La mamma stava riposando dopo l’escursione del sabato, un lungo anello di 15 chilometri attraverso un tratto del Grande Anello dei Sibillini che ci ha portato a Cupi e al Santuario di Macereto accompagnati dalle parole di Davide, Filo e Mariano su Roc Maol e Mompantero / Il codice dell’oro.
A ricordare della birra è Emiliano, parte insieme a Miriam del collettivo dei piccoli di Alpinismo Molotov. Se gli chiedi quanti anni ha li conta sulle dita della mano, ma i 15 chilometri dell’escursione li ha percorsi aggiungendo l’IVA tante sono le volte che ha fatto la spola avanti e indietro nel lungo serpentone che ha percorso il tracciato.
Nel pomeriggio di quel sabato 2 giugno, dopo la lunga camminata, dopo aver ricordato alla mamma della birra, dopo un gelato, Emiliano sedeva tra le prime file durante l’incontro “Il clima è cambiato”. Mentre Wu Ming 1 parlava degli effetti del cambiamento climatico e del Mare Adriatico che penetrerà per chilometri nella Bassa Padana, Emiliano cerca la mia attenzione e commenta scuotendo la testa: “Da noi a Torino l’acqua non arriva, siamo troppo lontani e vicini alle montagne”. Oltre ad un immediato sorriso spontaneo non ho potuto non pensare al Conte Mascetti che in Amici miei, durante l’alluvione di Firenze, sentenzia “Qui siamo su un dosso, l’acqua ‘un può arrivare”.
Filo: Quando quelli di Italian Limes cominciano a mostrare le foto del ghiacciaio del Similaun nella mia testa appare una scritta luminosa intermittente: qui non c’è silenzio. Non ho mai camminato su un ghiacciaio, ma dalle letture (grazie Reclus!) e dalle immagini viste nel corso degli anni ho capito che i ghiacci non sono silenziosi e, soprattutto d’estate, friggono e si spaccano. Sono in movimento. I ghiacciai in effetti sono lenti fiumi solidi. Il riscaldamento globale ne sta mutando velocità, sempre in aumento, e stato, da solido a liquido. E se i ghiacci si spostano e scompaiono, muta forma e posizione la linea displuviale lungo la quale è tracciata la frontiera sulle Alpi. Gli Stati ne prendono atto e riscrivono in continuazione il nuovo posizionamento del confine e in quest’ottica i sacri confini non hanno più nulla di sacro e tuttavia sono ancora fonte di morte e disperazione e dolore per corpi con un determinato colore di pelle o che non abbiano a corredo carte che ne autorizzino il movimento. Il collettivo che si occupa qui a Claviere del rifugio autogestito Chez Jesus si chiama Break the borders, sapere che i confini sono già fisicamente alla deriva non fa che invitare a forzarli, prenderli a spallate.
Quella di Wu Ming 1 sul basso ferrarese è una narrazione fiume, anzi una narrazione delta. Tentacolare, in continua evoluzione, con cambiamenti di corso, smottamenti, bonifiche. Da una parte i lenti e faticosi mutamenti di uno spazio – un continente inaspettato – sottratto alle acque, lo sforzo quotidiano per tenere la terra più su delle acque, dall’altro la prospettiva del termine. Il riscaldamento globale scioglie i ghiacci, il livello del mare si alza. Se salisse di un solo metro la linea di costa arretrerebbe di 30 chilometri. Uno scenario a cui forse non assisteremo, ma al quale difficilmente sfuggiranno i nostri figli, le nostre figlie.
Vista in quest’ottica l’agenda delle priorità politiche è tutta diversa da quella messa in atto dai governi che abbiamo visto succedersi negli ultimi decenni. Riscaldamento globale, inquinamento, messa in sicurezza dei territori a rischio idrogeologico: tre temi a caso fra quelli che dovrebbero essere in cima alle preoccupazioni di tutti. È ovvio che tutto ciò implica un cambio di paradigma economico e politico. Nessuna forma di capitalismo, nemmeno con il suo più fotogenico dei sorrisi, può davvero affrontare e risolvere questioni di questo genere.
Simone: Diverso il suo rilievo 2018 si è tenuto a 1.000 metri di quota sui Sibillini e se questi tre giorni di festa galattica ci hanno detto qualcosa è che non possiamo commettere l’errore di pensare che sulle alture, materiali o immateriali che siano, l’acqua (o i liquami) non possano arrivare. La montagna, non solo quella che ci ha ospitato e a cui governi vecchi e nuovi stanno cercando di togliere vita e dignità, è continuamente sotto attacco da parte di speculatori di qualsiasi tipo. Persino la Sibilla raccontata da Mariano non riuscì da sola ad impedire che la montagna su cui sorge la sua grotta venisse stuprata da una strada senza senso che ne sfregia un versante da circa 50 anni.
La festa di Alpinismo Molotov ci dice però anche che ciascuno dal proprio “diverso rilievo” ha un punto di vista privilegiato, può osservare quello che accade a valle, controllare l’ondata di piena, verificarne la consistenza reale e frenare gli allarmismi, costruire argini dove e quando servono evitando approssimazioni e false soluzioni.
Filo: Diverso il suo rilievo 2018 si conferma una festa di corpi. Non solo per l’alta convivialità, le pacche, gli abbracci, le strette di mano, i baci, il ballo serale, ma soprattutto per quell’accordo mutevole che si crea quando si va in montagna insieme. Coppie, terzetti, quadriglie e gruppi si creano, i passi si sincronizzano e anche le parole, i pensieri. Si condivide lo spazio del sentiero, il tempo della camminata, ci si racconta, ci si ascolta, ci si conosce, ci si confronta. Ma ci si scambia qualcosa di più che le chiacchiere davanti a un tavolo: il respiro, il sudore, l’odore, è qualcosa di sensuale. E poi ci si scioglie e ci si sintonizza con altrx, su altri passi. È un baratto prezioso. Un’esperienza che assume un valore politico. La prima volta che ci ho fatto caso è stato coi No Tav durante un avvicinamento in Clarea.
Simonetta: La sera sull’altipiano la temperatura cala tantissimo, adoro ascoltare sdraiata nella tenda il canto dei grilli, sentire la terra sotto la schiena, la terra che in questi giorni non trema, fiorisce, accoglie, dispensa incontri, regala profumi. E la sensazione di essere parte di qualcosa, di un sentire comune, di valori condivisi. Di qualcosa di nuovo per la mia vita, di un regalo che promette bene. Grazie.
Rob G.: Fine. Saluti, un po’ sparsi perché qualcuno sta ancora camminando, un po’ affrettati perché i chilometri sono tanti e l’arrivo difficoltoso fa presagire un ritorno a casa altrettanto scomodo, ma comunque soddisfatti perché, come diceva al microfono ieri sera Simone, “Siamo contenti di aver dimostrato che anche in questi posti così colpiti dal terremoto si possono ancora fare cose belle”.
Mr Mill: Ripartire e abbandonare il campo base non cosa immediata, anche se il motore dell’auto è già in moto. Il giro dei saluti non finisce mai, infatti alla fine lascio il nostro campo base senza essere riuscito a chiudere il giro di saluti. La testa è piena, ma non è pesante. Si susseguono immagini, anzi si rincorrono immagini, ché come in questo racconto della festa è difficilissimo raccontare tutto. E molto infatti rimane fuori, anche se, come nel caso del racconto di Matteo Petracci sui “partigiani d’Oltremare”, l’emozione vissuta è stata forte. O forse è proprio per questo che in questo racconto non tutto può trovare posto.
L’anno venturo sarà di nuovo Diverso il suo rilievo, lo sappiamo senza dircelo, ma per non sbagliare ce lo diciamo pure, così che il viaggio di rientro alla quotidianità non sia accompagnato solamente dal ricordo di quei tre giorni, ma possa aprirsi a quello che potrà essere la prossima festa. L’augurio è che sia, come lo sono state le prime due edizioni, un momento di simultanea raccolta e semina.
Michele M.: La mia esperienza più bella della festa è stata, ed è, successiva: portare la maglia con il logo in giro per le nostre montagne e alle manifestazioni.
Una continua richiesta di informazioni su cosa significa Alpinismo Molotov e un sacco di complimenti entusiasti sul nome e sul logo.
E dulcis in fundo alla manifestazione internazionale di Ventimiglia un ragazzo di Grenoble mi ferma e mi dice in uno stentato italiano: “Tu sei No Tav. Alpinismo Molotov è No Tav!”.
Filo: Quando è il momento di partire Miriam mi dice che no, che lei vuole restare. Il posto è bello, ha costruito un’ottima intesa con Emiliano e soprattutto abbiamo interrotto la nevrotica routine quotidiana. La festa, quando è festa davvero e non ennesima incarnazione della corsa al profitto, curva il tempo, lo libera dalle forme obbligate in cui siamo abituati a viverlo. Ci restituisce una forma di vita più libera e dignitosa. I bambini lo capiscono bene ed è un’indicazione preziosa per qualsiasi progetto politico abbiamo in mente.
Ringraziamo il Collettivo fotografi del CSA Sisma (Davide Spaccasassi, Michele Massetani e Simone Romiti) e Alberto “Abo” Di Monte per le fotografie presenti nel post.