Ci sono passi che muovono parole e chiedono di essere raccontati e parole che muovono passi, che spingono chi le legge o le ascolta in cerca di orme e sentieri. I tre autori del Codice dell’Oro (Mariano tomatis, Davide Gastaldo e Filo Sottile) ci chiedono esplicitamente di usare Roc Maol e Mompantero, il libro di storia locale e folklore pubblicato da Matilde Dell’Oro Hermil nell’ultimo decennio dell’Ottocento, come una mappa del tesoro, un atlante dei luoghi magnetizzati della Val Cenischia, l’indirizzario delle presenze magiche del Rocciamelone. Si tratta di un invito a scoprire e riscoprire un angolo della val Susa e a guardarla attraverso la lente, spesso deformante, ma in qualche caso rilevatrice, dei racconti di Matilde Dell’Oro Hermil.
La nobildonna segusina, a giudicare dai suoi scritti, condivide con noi due attitudini: quella a narrare il territorio e quella del passo oratorio. Quando ci racconta la sua ascesa al Rocciamelone il suo sguardo è mobile, attento, rivolto alle persone che vivono la montagna, e non tutto concentrato sullo sforzo, la fatica, la chimera della vetta. L’arrivo in cima anzi è del tutto omesso.
Il tono è assai distante da quello trionfalistico, patetico e superomistico che usa suo fratello Ernesto, uno dei fondatori del CAI di Susa, nel suo récit dell’ascesa alla Rocca D’Ambin. Matilde non ingaggia lotte con l’Alpe, è una narratrice.
Per cantare il Rocciamelone e Mompantero adotta una strategia singolare, ci segnala tutti i siti di interesse magico, tutti quei luoghi che come stargate o portali dimensionali sembrano aprire il territorio a qualcosa che sfugge ai sensi.
Uno dei segni eccedenti che colpisce di più l’immaginazione è la Rocca del Diavolo. Si tratta di una conformazione rocciosa che riprodurrebbe le fattezze del diavolo o del dio Pan o di Mercurio.
Una roccia è potenzialmente eterna, capace di travalicare senza difficoltà il tempo di vita degli esseri umani. Leggendo è facile chiedersi se quella roccia abbia resistito a frane e altri accidenti, se sia ancora lì, se qualcuno sappia ancora come ci si arrivi e se esista ancora un sentiero. Davide, l’unico autoctono dei tre autori del Codice dell’oro, si è messo in caccia di indicazioni e poi in marcia, sulle tracce di un dio – anch’esso curiosamente uno e trino – che parrebbe abitare le pendici del Rocciamelone. Quello che segue è il racconto del suo cammino.
Lo pubblichiamo perché quella di cercare i genii loci è, primo, un’esortazione alla molteplicità, a far deflagrare le narrazioni univoche, appiattenti dei luoghi e, secondo, a esplorare a piedi i territori e tornare a raccontarli.
di Davide Gastaldo
In Roc Maol e Mompantero Matilde Dell’Oro Hermil scrive:
La Rocca del Diavolo […] è una vera figura, un vero monumento dell’antichità scolpito là su quella roccia in luogo inaccessibile.
Dal punto più possibilmente vicino pare a occhio nudo di grandezza naturale d’un uomo in atteggiamento di chi si presenta a persuadere colle mani al petto, il ginocchio avanzato; un cappotto più scuro, e in testa due raggi, o corni, o ali.
Non si capisce come si abbia potuto lavorare in quel luogo inaccesso; forse venne distrutto in seguito il punto di ravvicinamento onde isolarlo e preservarlo dagli sfregi distruttori. […] È forse Mercurio o Ermete; forse uno scongiuro in protezione della valle; forse la chiusura e il segno d’una miniera sfruttata o ancora ricca pei nipoti che comprenderanno.[…] In un giorno dello scorso agosto volli ritornare munita d’un buon cannocchiale ad osservare quella enigmatica figura […] è Pane, il gran Pane peloso, ridente, in atto di suonare, col piede caprino e corna e coda. […] Lo strano si è che ridiscesi nel vallone e riguardata di sotto in su e più a destra la figura varia di aspetto; e si trasforma in un Mercurio come a prima vista già era parso a occhio nudo. Eccetto il piè caprino che non si poté mascherare, le linee e i ciuffi e i bracci del Pane diventano le alette, il berretto, il vestire del Mercurio in atto di correre. L’artefice fu ingegnoso nel lavoro e il maestro opportunista nel concetto; la natura e l’industria, la pastorizia e il commercio sono ugualmente consacrati.
In un primo momento, leggendo della Rocca del Diavolo, avevo creduto a un’invenzione, una leggenda o una boutade delle molte raccontate da Matilde nel suo scompigliato e sognante libro; il fatto però che nelle righe dedicate alla Rocca l’Hermil scriva di esserci stata, ed abbozzi per grandi linee addirittura il tragitto per arrivarci mi ha insospettito, così ho tentato di indagare un po’, chiedendo a pantren [gli abitanti di Mompantero, Ndr] storici… e questa Rocca del Diavolo a diversi di loro faceva suonare un campanello… sì, ne avevano sentito parlare, forse era nel vallone della Ganduglia, forse era il nome del precipitevolissimo crepaccio sotto al Trucco, era certamente il masso dietro al santuario della Madonna Delle Nevi, a Pietrastretta… su un sito ufologico/new wave ho trovato una foto con didascalia «la roccia del diavolo di Mompantero» ma l’immagine era la medesima altrove attribuita a una scultura sudamericana, e la verzura che si intravedeva attorno non era particolarmente alpina. Mi sono così messo a studiare le scarne indicazioni di Matilde, ma oltre che incomplete parevano riferirsi ad un sentiero che oggi non è più segnato e allora sono tornato ai veci locali, sino a riuscire a farmi indicare un quasi ottuagenario – cacciatore – che ricorda che un dieci anni fa avevano pulito un sentiero (a fini venatori) ed a un certo punto di esso si trova un cocuzzolo da cui è visibile la Rocca: «‘l pì bon pont për vardela, se nen l’unic».
La neve è ormai tornata a quota alta e decido che è ora di far partire questa caccia al tesoro; dalle indicazioni del pantren ho evinto però che il percorso non sarà agevole e per sicurezza (oltre che per ravvivare la passeggiata) arruolo nella spedizione Franco, che ha apprezzato il nostro libro e vanta anche – in questo sempre più intrigante dialogo tra favola e realtà che accompagna tutta l’operazione del Codice Dell’Oro – dei legami con la maestra amica e “cicerona” dell’Hermil.
Speranzoso e impaziente infilo nello zaino una macchina fotografica, un paio di scarponi (chi frequenta Alpinismo Molotov forse sa che per me è una cosa strana, sono uso ad andare in montagna con calzature tra le meno adatte) e una fiaschetta di barbera barricato, nel caso ci fosse da festeggiare qualcosa.
Il tragitto a piedi da valle richiederebbe un totale di sei-sette ore di camminata e, pur essendo noi un disoccupato e un pensionato, non abbiamo al momento tutto quel tempo a disposizione, così decidiamo di avvicinarci il più possibile alla zona in auto.
Saliamo in macchina e, lasciataci alle spalle Urbiano e poi il ponte del Seghino, torno per l’ennesima volta nell’area del recente incendio e subito una preoccupazione fa capolino: la zona della rocca sarà stata risparmiata? Sarà percorribile? Le indicazioni del cacciatore saranno ancora valide?
Time (soon) will tell.
Di tornante in tornante si alternano timidi tentativi di rinascita del verde ad ampie chiazze di nero carbone; muretti a secco faticano a stare su e le piante bruciate e/o cadute non si contano, anche sulla carreggiata sterrata. Sui pini ancora in piedi svettano candidi centinaia di nidi di seta: qui impera la processionaria.
Credo sia suggestione ma nelle narici percepisco sentor di fumo…
Saranno solo un 7/8 chilometri ma la piccola stradina, male in arnese e ripida, esige i suoi tempi di percorrenza, e ci mettiamo circa 25 minuti ad arrivare alla curva da cui spero parta il tratturo. Lasciamo la macchina, zaini in spalla e si va.
Il sentiero non esiste più, c’è solo cenere, su un declivio aspro e colmo di cadaveri di conifere, ancora in piedi ma chiaramente morte, che sporcano di nera fuliggine tutto ciò che le tocca.
Ogni ciottolo sfiorato rotola per decine di metri su una discesa brulla e viscida, tuttavia le indicazioni avute ci permettono, tra uno scivolone e parecchie bestemmie, di trovare il cocuzzolo da cui sarebbe visibile l’artefatto.
A questo punto il passo rallenta, che sai non ci sarà nulla, e in qualche modo sarà una delusione – pur essendo conscio di partecipare ad un gioco di favole, finché non provi che una cosa non esiste quella é, in potenza, reale – non vedrai niente, per quanto tu sia abbastanza sicuro che il posto é quello.
Invece.
Dall’altra parte del vallone, in basso, al centro di una grossa parete incorniciata nel bosco, qualcosa c’è: una pietra che pare a occhio sui 3 metri d’altezza, è lontano ma, a volerle vedere, ha braccia strette al petto, testa, corna e un piede caprino.
Apro la fiaschetta, brindiamo, guardiamo e riguardiamo quella pietra… una strana conformazione naturale? Una statua scolpita dagli alieni? Il semplice esito della fantasia di Matilde?
Sicuramente è quello che Filo chiama un incantesimo di richiamo, ché alla fine siam qua, malfermi tra cenere e pietre, a schivar nidi di processionaria sul bordo di un crepaccio in un bosco dimenticato da tutti gli dei, a contemplarla.