Durante la nostra festa, Diverso il suo rilievo 2018, nella giornata di venerdì 1 giugno è in programma un monologo inedito di Slavina (inizialmente previsto per sabato 2, è stato spostato a venerdì per ragioni organizzative), attivista postporno originaria di Pretare, paese ai piedi del monte Vettore. Preparato in collaborazione con Flaccidia, il monologo s’intitola Ode alle zampe di capra. Una rilettura pornofemminista della leggenda delle fate di Pretare (poi vedete voi se lasciare o meno il porno).
In attesa di poter assistere alla performance, abbiamo rivolto alcune domande a Slavina, cercando di indagare il suo rapporto e quello del suo lavoro con la montagna.
Buona lettura.
AM: Nei tuoi lavori non ci sono collegamenti evidenti con la montagna. Come mai hai scelto la festa di alpinismo molotov per presentare il nuovo spettacolo che stai scrivendo? Cosa puoi anticiparcene?
Slavina: Sono cresciuta in mezzo ai Sibillini. Uno dei miei nonni era originario di Pretare, una frazione di Arquata del Tronto (comune devastato dal terremoto del 2016) e ho passato lì tutte le estati dei primi anni della mia vita. La sagoma del monte Vettore come appariva da quel versante la potrei disegnare a memoria.
Io durante l’anno abitavo in un quartiere della periferia di Roma, ero una bambina di città e per me la montagna ha sempre significato non solo il contatto con la natura ma soprattutto la libertà di movimento. Essendo l’ambiente dei Sibillini il primo spazio in cui nella vita mi sono sentita libera ci tornavo sempre volentieri.
Poi 13 anni fa sono emigrata a Barcellona e pur tornando spesso in Italia il legame con quello che per me era un luogo vivo di memorie si è decisamente allentato. Poi il sisma ha distrutto la casa di famiglia e la relazione si è spezzata in maniera molto violenta. Mi era rimasta solo una ferita…
Allora quando ho saputo che la festa di Alpinismo Molotov si sarebbe tenuta sui Sibillini ho pensato che sarebbe stato bello tornare “a casa” potendo condividere con delle creature simili una storia che volevo raccontare da tanto tempo.
Perché il monologo che presenterò alla festa non è parte di nessuno spettacolo, almeno non ancora, ma è un esperimento di storytelling illustrato che sto preparando in collaborazione con Flaccidia [qui il suo blog], artista grafica originaria di Macerata con cui avevo voglia di lavorare da anni. Ed è bello e non casuale forse che dopo esserci cercate nel mondo riusciamo a ritrovarci alle radici, per raccontare una storia di donne libere delle/sulle montagne.
AM: Prima di questo spettacolo la montagna ha già avuto qualche influenza o collegamento col tuo lavoro?
Slavina: A livello puro e duro di produzione la montagna è stata ambientazione di alcuni miei racconti, non molto di più. L’influenza più forte la ritrovo in certe metodologie del mio agire. La montagna, oltre che spazio di libertà, è stato il primo contesto in cui ho percepito lo spazio pubblico come cordiale e solidale: da bambina mi colpiva sempre questo fatto che in montagna ci si saluta sempre, che la fatica dell’ascesa è sempre condivisa, che chi sta davanti nella cordata deve necessariamente rispettare il passo di chi cammina più lentamente. Credo che fare esperienza di questa pratica di sostegno mutuo istintivo, conoscere questo codice atavico così vicino alla natura ma anche alla mia idea di politica sia stato determinante nella mia elaborazione della pratica laboratoriale come creazione di luogo di intimità condivisa e di apprendimento partecipativo.
Da alcuni anni lavoro ad un progetto di ricerca e performance (ci chiamiamo Zarra Bonheur) insieme a Rachele Borghi, che è geografa femminista. Questa collaborazione mi ha insegnato a leggere le questioni attraverso il prisma spaziale e a considerare non solo il corpo nello spazio ma anche il corpo come spazio – e se John Donne sostiene che «Nessun uomo è un’isola» posso affermare senza dubbio che ogni persona è una montagna, nata da un movimento tellurico, dal profilo più o meno aspro, accogliente o inaccessibile.
AM: Noi parliamo di montagne, del colonialismo di cui sono oggetto, delle devastazioni e delle loro resistenze, del fatto che storicamente sono state cerniera fra i territori e che a un certo punto i confini gli si sono impressi addosso come cicatrici. Il tuo campo di studio principale ci pare sia il corpo. Vedi delle analogie fra quanto accade oggi ai territori e quanto accade ai corpi?
Slavina: Non è necessario conoscere l’ecologia politica per rendersi conto che le violenze che subiscono i territori ricadono direttamente o indirettamente sui corpi che li abitano. Dovrebbe essere ormai questione di senso comune (basterebbe ricordare la lunga storia dei disastri d’Italia o farsi un giro nel reparto di Oncologia di un ospedale), eppure i movimenti in difesa dei territori spesso faticano ad avere un respiro non localistico (in questo senso mi sembra esemplare la lotta della Valsusa, che essendosi imposta sulla scena nazionale ha pagato un prezzo molto alto in termini di repressione).
Per quanto riguarda invece la violenza e l’espropriazione del corpo, dei saperi sul corpo, della possibilità di autodeterminazione, mi sembra che sia ancora percepita su un piano fortemente personale e con più difficoltà viene recepita come fatto politico e vissuta su un piano collettivo. Se le politiche del corpo sono entrate dentro l’agenda dei movimenti è stato soltanto grazie allo sforzo immane dei femminismi, mentre la difesa dei territori, senza bisogno di ulteriori specificazioni, è una necessità che è più facilmente riconosciuta e vissuta come collettiva.
È più scontato considerare il territorio a priori un bene comune, mentre i corpi non hanno tutti lo stesso valore…
La violenza al territorio è violenza al corpo del mondo – sarà per questo che nelle lotte in difesa dei territori rispetto ad altri ambiti politici la presenza e il protagonismo delle donne è maggiore.
Mi sembra che l’urgenza che accomuna corpi e territori sia l’autonomia intesa come possibilità di decidere per sé le proprie leggi – anche in un senso molto pragmatico, legato all’appropriazione di tecnologie, al recupero di saperi pre-capitalisti e alla sperimentazione biopolitica.
AM: Parlare di “corpo” pare limitante, perché tende a non mettere in discussione lo status quo in quanto spesso si sottintende corpo maschio e bianco (e ce lo ha insegnato il femminismo); vedi analogie tra “corpo” e “confine” raccontati senza ulteriori specificazioni?
Slavina: Più che un’analogia c’è un incrocio tra corpo e confine: il confine rinvia alla materialità del corpo e viceversa. I marcatori spaziali del confine, siano naturali o artificiali, sono ineludibili per il corpo, mentre il corpo è il confine del sé ed è immerso in un campo politico che lo segna e lo contiene.
Corpo e confine non riesco a considerarli come concetti astratti perché sono troppo legati alla violenza istituzionale e politica. Per questo all’incrocio tra corpo e confine c’è anche la questione delle alleanze: non è possibile lottare per l’autodeterminazione dei corpi senza lottare contro i confini dello stato-nazione.
Non è un caso che nella postpornografia siano al centro della scena proprio i corpi che sconfinano: corpi abietti, corpi fuori norma, corpi razzializzati, corpi degeneri… e la chiave della mia ricerca artistica e politica è uno degli assi portanti della proposta postpornografica: la condivisione dell’intimità, intesa come sfondamento dolce ma inarrestabile dei confini dell’eteronorma.