Filo: È lunedì e mezzogiorno è passato. Il furgone è già stipato delle vettovaglie e delle attrezzature di Fornelli in lotta, m’è rimasto giusto un angolino per infilarci la tenda e infatti sono qui a smontarla.
I volontari del festival smembrano gazebo, fanno pulizia, chiacchierano, ridono.
Scambio due chiacchiere con un compagno della valle che perlustra l’area campeggio alla ricerca di immondizia. Sono rimaste poche tende ormai, sparpagliate. C’è quell’aria irreale di certe domeniche mattina d’agosto in città. Gli ultimi ospiti ancora in circolazione sembrano camminare su cuscinetti d’aria. Silenziosi, ma presenti, ben evidenti, come pesche mature su un albero. E io pure mi sento così, sospeso.
Finché non si leva il grido: «Pierooo! Pierooo!»
Ed è lì che sento il click nella testa.
Sara, Miriam ed io siamo arrivati sabato e da allora sentiamo echeggiare, «Pierooo!», questo richiamo. Rimbalza da una parte all’altra dell’area campeggio, di giorno, di notte, in coro (maschile, femminile, misto) o da solista.
Tre giorni e due notti, ho avuto il tempo di fantasticarci su.
Ora, impegnato nel gioco di smontare la tenda senza mai uscire dall’ombra del frassino, nella testa si è fatto un click.
Ieri pomeriggio mentre i Bhutan Clan accompagnavano Wu Ming 1, alle prese con la lettura di cinque brani da un Un viaggio che non promettiamo breve, non ci avevo fatto caso. Ora – click – mi viene in mente il pezzo su Giacu, il folletto che si aggira fra i castagni della Clarea, il compagno che ha l’abitudine di perdersi nei boschi.
Il «Giacuuu!» ululato da Roberto con il suo accento della bassa, il «Giacuuu!» che più volte mi è capitato di sentire durante certe passeggiate qui nei dintorni e questo «Pierooo!» si fanno un tutt’uno. Giacu e Piero probabilmente sono nati nello stesso modo.
Davide G.: Martedì 1 agosto, mattina. Susa. Con un amico finisco a bere un caffè nel bar “bene” sulla via principale, la proprietaria mi saluta e subito: “devi ringraziare tutti quelli che erano al festival, io ho potuto farlo solo con qualcuno, ché si era di fretta… venivano, ordinavano, pagavano e si portavano le cose ai tavoli per non congestionare il servizio, alla ragazza è caduto un vassoio, non ha fatto in tempo a chinarsi che già le avevano raccolto tutto, tutti gentili, pazienti e cordiali”.
Subito, aldilà di un sorrisetto interiore (anche impegnandomi, come potrei ringraziarli tutti?) ci do poco peso, è il solito stupore borghese di chi si aspettava black bloc a sfasciar vetrine e invece si ritrova gente dai modi civili, mi dico.
Poi però ci rifletto, penso alla mia compagna che al prefestival a Susa ballando in arena s’inciampa su un passacavi, cade a terra, e in un amen si ritrova quattro persone a rialzarla; penso a me, in bici con un fagotto in spalla, costretto in salita a passo d’uomo sotto al sole nella congestionata passeggiata al Seghino, e almeno dieci persone – perlopiù sconosciuti – che si offrono di portarmi lo zaino. Penso alla pazienza di migliaia di persone in composte code chilometriche per mangiare o bere al festival, a quelli che vedendo un concerto postprandiale con poca audience sono andati a far pubblico anche se non gli piaceva il genere, che “spiace suonino per nessuno”, a quelli che si fermavano a chiacchierare coi volontari della viabilità – che “poveracci, tutto il giorno sotto il sole e non si godono nulla del festival, facciamogli almeno un po’ di compagnia”.
Ecco, queste briciole, e ce ne sarebbero tante altre da indicare, sono piccoli segni di un modo diverso di stare insieme, di intendere la comunità, forse una delle cose più preziose del festival, una delle cose più preziose del movimento No Tav.
Filo: Mi sono fatto questa idea: sarà stato giovedì sera, venerdì mattina al massimo, una ragazza – potrebbe anche essere un ragazzo, ma la mia immaginazione dice no – probabilmente un po’ alticcia cerca di richiamare l’attenzione di tale Piero (probabilmente anche lui non esattamente sobrio). Piero dorme o non sente o si è allontanato, in ogni caso non risponde. E lei con tutto il volume che le consente il suo apparato fonatorio e con quel raschio d’alcol in testa alla voce comincia a gridare «Pierooo!». La cosa dev’essere durata un po’. Lui si ostina a non rispondere e lei, sempre lamentosa uguale, seguita a chiamarlo. Poi la rottura: qualcuno a dieci, a venti, a trenta metri da lì le fa eco, come a dire «Piero, cazzo, rispondile». La tipa, secondo me, è rimasta zitta una decina di secondi e poi ha ripreso, imperterrita: «Pierooo!»
Ma a quel punto non era più lo stesso, quello che fin lì era stato un fastidio si è tramutato in gioco. Ed è cominciata la bagarre, da ogni parte si è levato il grido. E non si è più fermato. Un tormentone.
Sabato, siamo a Venaus da un quarto d’ora soltanto, Miriam prima sbotta: «Ma basta con ‘sto Piero!» e poi mi chiede «Ma perché chiamano tutti Piero?»
Più tardi poi, nel pomeriggio, mentre rettifico la posizione della tenda che ha rischiato di andare a mollo durante l’acquazzone ci faccio proprio caso: un gruppo di ragazzi in circolo batte il tempo e lo intona: «Pierooo», non è detto a caso, c’è una sua curva musicale precisa, non passano dieci secondi che da altri due punti del campeggio giungono le risposte: «Pierooo».
È un gioco. E ormai per chi ha dormito qui in questi quattro giorni sarà un ricordo di quelli duri a morire. Se fra tre mesi due che sono stati al festival si incontrano, basterà che si sussurrino con la giusta intonazione «Pierooo» per tornare qui. È una porta dimensionale.
Giacu sarà nato più o meno allo stesso modo, un accidente che diventa un gioco, che poi diventa dispositivo di attacco al cantiere e contemporaneamente richiamo magico, ma che sempre rimane un presidio di convivialità e relazione.
Mariano: […] Impossibile resistere al richiamo di quattro giorni (27-30 luglio 2017) tra tappeti d’erba e ruscelli di birra, dove il Movimento No TAV ha organizzato il Festival Alta Felicità. La scelta della località non è casuale: la parola “Venaus” ha il dolce suono della vittoria, essendo il luogo in cui sarebbe dovuto sorgere il primo cantiere per il raddoppio della linea ad Alta Velocità Torino-Lione. Nel dicembre 2005 la resistenza del Movimento fu tale da costringere il Governo ad annullare il primo progetto e ripiegare altrove: era la prova che quell’opera insensata poteva essere fermata.
Tra appassionati dibattiti, escursioni, concerti, reading, bevute e cene vegane (ma solo per evitare le code agli arrosticini) isolo un singolo, minuscolo episodio, che si è ripetuto con una certa regolarità per tutta la durata del Festival; un dettaglio che ha a che fare con il “prestigio” – ma non nel senso dato alla parola dai prestigiatori. Durante i pasti, consumati sotto un gigantesco tendone, parte ogni tanto un fragoroso applauso. Una volta è rivolto a una cuoca; un’altra a un signore che si occupa di sgombrare i tavoli; in altre occasioni alla ragazza che pulisce i vassoi o al bambino che aiuta il nonno a raccogliere le ordinazioni.
[…] Durante il Festival Alta Felicità, quegli applausi sono la prova che il popolo No TAV non si limita a opporsi a un treno: il Movimento sta trasformando la Valsusa in un laboratorio dove sperimentare forme di società radicalmente alternative.
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Da: filo sottile
Date: 20 agosto 2017 17:23
Oggetto: Re: [Alpinismo Molotov] Prime impressioni e ringraziamenti
A: Lista Alpinismo Molotov
Car* tutt*,
scrivo per dire due cose.
Una: ci ricordiamo di scrivere i pezzi per il recit del Seghino/AF?
Due: per onestà intellettuale dico a voi una cosa, che sennò non riesco proprio a cominciare a scrivere il mio contributo. So perfettamente quali siano gli intenti di Alta Felicità e che si tratta di un’iniziativa importante, ma devo confessare che non mi ci sento completamente a mio agio. Troppo grande, troppa gente, troppo cara per il movimento, troppi eventi e troppo affastellati. Sebbene la si sia gestita egregiamente non riesco a sentirla come una festa ecologica.
Continuo a chiedermi quanti di queste ragazze e ragazzi che sono venuti ad Alta Felicità si porteranno a casa qualcosa di questa lotta. Mi sentirei un po’ meglio se avessi la certezza – e non è possibile avercela – che anche solo l’uno per cento di quelli che sono venuti da lontano vorranno puntare i piedi e provare a organizzarsi sui loro territori per sbarrare il passo all’orco del capitale.
Va bene. l’ho detto. Ora posso scrivere.
Bacy
Filo
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Da: inpuntadisella
Date: 23 agosto 2017 16:47
Oggetto: Re: [Alpinismo Molotov] Prime impressioni e ringraziamenti
A: Lista Alpinismo Molotov
Filo,
credo che la vostra preoccupazione sia legittima ma che uno sguardo “esterno” possa esservi utile. La mia impressione è che il festival sia stato ed è un momento molto importante per varie ragioni, provo a buttare giù qualche pensiero sparso:
– innanzitutto è una straordinaria prova di forza del movimento ed in particolar modo della valle stessa rispetto all’entità. Quel “c’eravamo, ci siamo, ci saremo” si materializza anche attraverso manifestazioni “enormi” come Alta Felicità.
– l’evento va contestualizzato nel periodo politico e culturale che stiamo vivendo, il fatto che il festival organizzato in queste modalità raggiunga questo livello di sostenibilità (da vari punti di vista) non è affatto scontato e rappresenta di per se un punto di riferimento ed una speranza.
– sul fatto che la festa sia ecologica… il ragionamento sarebbe molto lungo. Eventi di questa portata hanno in tal senso dei limiti caretteristici ma credo ancora una volta che Alta Felicità sia la dimostrazione che si possono organizzare festival con impatti molto ma molto minori rispetto a quello che avviene in altri contesti (e non parlo del “meno peggio”).
– ad essere molto partecipati non sono solo i concerti ma anche i dibattiti, le presentazioni, le camminate al cantiere ed il resto. Segno che una buona parte di chi partecipa non lo fa solamente per fare serata. Non credo si corra il rischio di far diventare alta felicità una sorta di concertone del primo maggio del nord Italia, perché la differenza è alla base.
– fermi restando i punti precedenti anche io quest’anno ho notato un po’ di “avventori occasionali” che probabilmente non si saranno portati via niente, ma credo sia endemico [inevitabile averne una certa percentuale?] rispetto alla mole di persone e che, in ogni caso e banalmente, meglio che siano stati li piuttosto che in un qualsiasi bar di Torino.
– darsi un limite? Certo è un ragionamento che va affrontato, soprattutto da chi materialmente lavora all’organizzazione in loco, ma senza dimenticare che quanto si è fatto fino ad ora è una cosa f a n t a s t i c a e che essere riusciti a mettere in piedi una cosa del genere è un merito e non un problema (o peggio una colpa)!
Concludo con un piccolo aneddoto (avrete capito che queste cose mi piacciono parecchio :) ). In uno dei momenti di pioggia ci siamo ritrovati sotto al gazebo di fronte allo stand del caffè con Loredana Bellone e la sua professoressa di inglese (che ad occhio avrà intorno agli 85 anni). Parlando del festival e di quanto fosse bello, l’anziana professoressa, mentre fuori sotto la pioggia passavano persone bagnate fradice e con il fango fino alle ginocchia, se ne esce con “questo festival è fondamentale per educare i giovani”. Come fai a non fidarti? :)
Entusiasticamente vostro :)
S.
RobertoG: Sabato mattina, Condove, bivio per Mocchie, ho parcheggiato appena oltre la rotonda e io mia moglie e mio figlio che arriviamo da Torino aspettiamo Walter, che guida il convoglio in arrivo da Venaus, per aggregarci alla camminata sul sentiero partigiano che percorre i luoghi dell’eccidio di Vaccherezza, compiuto da fascisti e nazisti il 20 aprile 1945: sedici partigiani uccisi, a guerra ormai persa, per pura, inutile ferocia. Pochi minuti e vedo arrivare una piccola colonna di cinque-sei macchine e penso “sono loro”, ho ragione, ma quel che non mi aspetto è che a quelle macchine ne seguano cinque volte tante. Saliamo verso la fine della strada asfaltata, un serpente lunghissimo che attira sguardi e sorrisi increduli ad ogni attraversamento di borgata.
Un paio d’ore dopo abbiamo raggiunto il punto più alto della nostra camminata, Walter ora ci guida nel vallone di un piccolo rio, in una sosta precedente ci ha già raccontato la storia di quel giorno, e più avanti nella giornata ci mostrerà il sacrario dei caduti e ci porterà fin dentro una delle grotte che i partigiani usavano come nascondiglio. Scendiamo pochi alla volta perché il sentiero è stretto e lo spazio poco, un paio di metri scoscesi tra una roccia alta una decina di metri e il rio, e arriviamo alla croce che commemora un partigiano, ucciso mentre stava per infilarsi in una piccola grotta, dove forse sarebbe riuscito a scamparla. “Quando dal paese sono saliti per raccogliere i morti il suo corpo è stato uno dei primi ad essere ritrovato” ci dice Walter “perché si sapeva dov’era. Quando l’hanno ucciso su padre era là” (indica la cresta del vallone dal lato opposto) “e ha…” “Ha visto tutto”, penso volesse dire, ma la frase non riesce a finirla. Per lui e per gli altri che hanno ripulito e segnalato questi sentieri qui il sangue versato brucia ancora.
Qualche ora dopo siamo di nuovo alle macchine, prima di avviarci verso Venaus si intona Bella ciao, io sono di fianco a mio figlio Emiliano, tre anni, che a vedere così tanti adulti cantare insieme socchiude la bocca incuriosito. Mi inginocchio vicino a lui perché penso di doverlo convincere a non disturbare quel momento con uno degli urli con cui ha allegramente accompagnato la camminata di tutti, racconti compresi, ma non ce n’è alcun bisogno. Poco alla volta la sua bocca dalla curiosità si apre alla meraviglia, e lui resta in silenzio ad ascoltare strofa dopo strofa; solo agli ultimi ritornelli accompagna il “Bella ciao, ciao, ciao”, ma senza urlare, con rispetto, verrebbe da dire. I bambini li sottovalutiamo spesso, ma a volte sottovalutiamo anche la forza delle cose che facciamo, anche (soprattutto) di quelle apparentemente piccole.
Mariano: Domenica 30 giugno io e Wu Ming 1 guidiamo una camminata-racconto alle pendici del Rocciamelone verso la frazione Seghino di Mompantero. Insieme a più di trecento persone, ripercorriamo – nello spazio e nella memoria – la prima battaglia tra il Movimento No TAV e le forze dell’ordine per la conquista di una località-simbolo della resistenza.
Incaricato di portare un contributo magico-illusionistico all’escursione, nei giorni precedenti vado a caccia di storie insolite legate alla regione. Mi pongo obiettivi molteplici: far dialogare passato e presente in modo obliquo; proporre uno spiazzante miscuglio di misteri locali, lotta politica, illusionismo e alpinismo; détournare l’immaginario paranormal-esoterico senza alcuno scrupolo filologico; alimentare la creatività delle forme di lotta attraverso riflessioni su domande consapevolmente ridicole (“Quale ruolo ha giocato finora il sovrannaturale nella lotta No TAV?”).
Gemma: È già passata una settimana, verso questa ora eravamo al seghino! (Una fatica immensa il piccolo ha corso tutta la salita e io non posso fare sempre fare tutta la fatica al papà!! )
Wu Ming 1 aveva fatto la sua toccante lettura, era emozionato anche lui, quando aveva iniziato a parlare quasi non l’avevo riconosciuto, al termine il cantare Bella ciao è come un dovere, è il nostro ribadire che ci siamo che ci saremo sempre, e che siamo figli dei partigiani di allora! Oggi Emiliano ci guarda più sorridente, ha capito che c’è qualcosa di magico in quel canto che rapisce tutti gli adulti che li unisce e gli fa inumidire gli occhi! Ora anche lui canticchia e alla fine con il suo sorriso furbetto scandisce più volte ORA E SEMPRE RESISTENZA! La sensazione un po’ mi spaventa: come metterà lui in pratica la RESISTENZA!
Il giorno dopo a casa io e il Roberto spieghiamo bene cosa è quel canto lui vuole sapere tutto su quella Bella ciao. Alla fine la cantiamo tutti assieme seduti al tavolo della cucina! Ancora una volta sono spaventata ma forse è solo l’effetto dell’Alta felicità!
Mariano: La passeggiata tocca tre luoghi-chiave della storia dell’assedio al ponte del Seghino; durante ciascuna sosta racconto una “vicenda magica” legata alla tradizione locale. Al culmine dell’escursione Wu Ming 1 rievoca l’epica della battaglia campale del 2005 leggendo un brano dal suo non-fiction-novel Un viaggio che non promettiamo breve (2016). Siamo tantissimi, molti più del previsto. Perché tutti possano sentire, Maurizio Piccione porta sulle spalle un pesante amplificatore; grazie a lui, i quattro racconti riecheggiano potenti su quegli affollati sentieri.
Filo: Nel brano che racconta della Libera Repubblica della Maddalena, Wu Ming 1 ha incastonato una mia testimonianza. In un passaggio dico: «Venivano su da Rivalta i ragazzi delle case popolari, ragazzi che conosco perché sono cresciuto nello stesso quartiere, gente che non avevo mai visto a nessuna manifestazione e che lì c’erano».
Appena tornati dall’escursione al Seghino, poco prima che inizi il reading, sento una voce che mi chiama. Mi giro e (direttamente da Rivalta!) c’è Dindo.
Allora mi tocca rettificare. Anche Alta Felicità, come la Libera Repubblica della Maddalena, forse perché sa proporre una particolare combinazione di radicalità e convivialità, riesce ad attrarre persone che non ti aspetteresti di vedere qui.
Inpuntadisella: Al termine della camminata al Seghino, nel tratto di strada poco sopra al ponte, dopo le letture di Wu Ming 1 e i vari interventi, parecchi volti erano solcati da lacrime. Questa volta non era colpa del gas CS. Stavo risalendo dopo essere sceso a fotografare la scritta realizzata nel 2015 per ricordare l’anniversario della Battaglia del Seghino, la scritta recita «Ora e sempre resistenza». Poco dopo aver raggiunto le centinaia di persone che avevano affollato la strada che da Mompantero si snoda verso il Rocciamelone parte un coro:
Ora e sempre re-si-stenza
Ora e sempre re-si-stenza
Ora e sempre re-si-stenza
Ora e sempre re-si-stenza
Ora e sempre re-si-stenza
Normalmente in questi casi il numero di persone che scandisce le parole si affievolisce sempre di più finché non cala un silenzio imbarazzato. Questa volta tutti si sono fermati pressoché all’unisono, tranne una signora su una sedia a rotelle al mio fianco che dopo l’ultimo “Ora e sempre re-si-stenza” ha urlato: “ORA!”.
Quel “ora” a me è sembrata la sintesi del momento, non una mera commemorazione ma una cosa che stava accadendo lì e “ora”.
Kamen: Vorrei esprimere un grande ringraziamento a Wu Ming 1 e ai vari autori della WM Foundation per la giornata di domenica al Seghino, per avere messo nero su bianco, amplificato a voce e condiviso i ricordi e le sensazioni legate a quella giornata.
Vedere quei tornanti non occupati dalle camionette, ma ripopolati da un corteo festoso e rilassato, e allo stesso tempo attento, curioso, concentrato sulle memorie che animano quel luogo, rispettoso della dimensione montana… è stato davvero una fonte preziosa di energia, riflessione e forza collettiva che schiacciano la sopraffazione e la paura. Perché sì, il 31 ottobre 2005 ci fu anche molta paura, soprattutto quando iniziò a calare il sole. Infatti i truffatori della mediazione politica, di cui si conoscono bene nomi e cognomi, riuscirono a lucrare solo al tramonto, non prima.
Quel giorno ero sul ponte e il ricordo più forte che continuo a conservare è quello del tornante e del rettilineo sottostanti, intasati da quella fila impressionante di camionette blu chiaro e blu scuro che avrete visto in decine di foto dell’epoca. Quella colonna era chiusa da una ruspa, termine che nel nostro immaginario divenne lugubre già da allora, prima ancora delle manovre di Sanna a Venaus, delle razzie della Maddalena o dei deliri salviniani di anni più recenti.
Quella fila manifestava un senso di sopruso, di intrusione davvero difficile da esprimere, e che fu persino superata da gesti di immane meschinità da parte delle forze dell’ordine, come il taglio del guardrail sui due lati del ponte, lasciandolo pericolosamente senza protezione (poi, per ulteriore sfregio ambientale e simbolico, lo gettarono nel ruscello di sotto) e il loro sgraziatissimo tentativo di salire i sentieri con i loro ingombranti scudi.
Per me il senso del movimento sta proprio nell’impietoso confronto tra la colonna cupa del 31 ottobre e lo sciame del 30 luglio, con il suo vociare sparpagliato che osserva il suo intorno poi si riordina sul lato per far passare le auto dei residenti. Tra i poliziotti invasori che scivolavano sul sentiero e il ragazzo non del posto che, subito dopo la lettura di Roberto, ci chiede sottovoce, sommesso ma ispirato e determinato: “Scusate, come si arriva su questo monte Rocciamelone?”
Grazie davvero, e ai prossimi sentieri da percorrere. A sara dura!
—-
Le parti del récit di Mariano sono tratte dal suo post La Valsusa paura non ne ha. In viaggio con Mesmer (Torino-Veanaus, km 55) pubblicato su Blog of wonders.
Il contributo di Kamen è un commento al post Il giorno dopo, ringraziamenti ad #AltaFelicità. Viva la lotta #notav! pubblicato su Giap da Wu Ming 1.
La fotografia in apertura è di Luca Giunti, tutte le altre sono di Vecio Baeordo.
Free
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Questa è stata la mia seconda volta in Valle, e addirittura più della prima ha lasciato un segno profondo. Siamo arrivate giovedì in serata, appena in tempo per montare le tende, perché da Firenze non è esattamente una passeggiata con quella macchina strapiena di zaini e tutto il resto. Il prati ci appaiono già pieni, anche se il grosso della gente comparirà solo il giorno dopo (in cui le tende sono sbucate praticamente come funghi: l’attimo prima non c’erano e quello dopo non sapevi più come fare a uscire dall’area campeggio).
La prima avvisaglia sono riuscita a coglierla solo la mattina successiva, quando i nostri vicini con un fornellino a gas mettono su il caffè e ce lo offrono. Una di noi corre in tenda a prendere i biscotti dalle nostre provviste e alla seconda macchinetta ci mettiamo a chiacchierare, sdraiati sull’erba, nel caldo di fine luglio.
Fa molto caldo anche quando, due giorni dopo, io e una compagna ci aggreghiamo all’escursione delle undici per il cantiere. Durante le salite, però, ci fermiamo spesso per aspettare chi sale con un passo più lento, e penso di aver capito in quel momento l’importanza materiale che si attribuisce al credo “Si parte e si torna tutti insieme”. Era la prima volta che visitavo le aree interessate dal Mostro. Ricordo perfettamente l’impatto che ha avuto quando, dopo ore di cammino nel verde calmo dei boschi, all’improvviso facciamo una curva e compare un cavalcavia di cemento armato. Ricordo anche lo schifo che mi ha fatto, la repulsione istintiva verso quello scempio. Ci spiegano in cosa consiste il nuovo progetto e nel mentre i militari che ci guardano con i binocoli. Ci sbracciamo, urlando per farci notare meglio. A differenza loro, noi non ci nascondiamo dietro a del filo spinato: quello è il nostro territorio. Sì, perché ormai anche se abito a 500km di distanza dalla Clarea, sento che quella Valle appartiene anche a me; la voglio proteggere da quello che le vorrebbero fare.
Al campeggio siamo accolte da un “Giacuuuuuu” lungo e penetrante che mi fa scappare un sorriso. Ripenso all’urlo che in quei giorni riecheggiava dall’area delle tende fino all’arena: “Pieroooooooooo”.
Ma è stato solo quando sabato sera abbiamo smontato armi e bagagli in fretta e furia, che ho cominciato a capire. Ci sono voluti diversi giorni per assimilare tutto perché, come ha detto Wu Ming, siamo tornati “ubriachi”; ebbri di una sensazione bella, bellissima, che adesso potrei riassumere in “libertà”. Era un senso di libertà quello che provavi quando ti svegliavi, uscivi dalla tenda e ti fermavi a osservare il panorama circostante. Era libertà quella che si respirava al presidio, seduti intorno ai tavoli, dove sono nate chiacchierate e discussioni (come quella sulla lotta non violenta dopo il dibattito con i baschi). Era libertà quella che assaporavi passando sotto le reti del cantiere cantando “Urla forte la Valsusa…”. Era senso di libertà quello che sentivo quando qualche sconosciut* mi diceva “vai pure, il caricabatterie te lo presto io”: libertà di fidarti del prossimo senza essere vista come una sprovveduta. E ancora quando tutta l’arena scandiva “Siamo-tutti-anti-fascisti!”; quando, una sera, la terza penso, un uomo agli stand è riuscito a compiere il miracolo di farmi qualcosa di caldo. Erano le dieci e mezzo, e la mattina alle otto quel signore era di nuovo lì.
Sui prati di Venaus per la prima volta ho avuto una prova concreta che quel mondo diverso che tanto vorremmo non è solo teoria, ma si può tramutare anche in pratica. Quei quattro giorni di risate, di “Pieeeeroooo” urlati a squarcia gola, di condivisione, di vita vissuta gomito a gomito con gente prima di allora sconosciuta, mi hanno rigenerata. In Toscana ci siamo tornate alle cinque del mattino, a casa il giorno dopo alle undici. Eppure la stanchezza non c’era. Ero carica, e sento che anche adesso, due mesi dopo, il solo pensiero mi fa salire ancora di più la voglia di mettermi in gioco, di lottare affinché ciò ho vissuto sui prati della Valle di Susa, possa essere ovunque.