Canti che attraversano confini, storie che si trasmettono oltre le barriere nazionali arricchendosi di sfumature, particolari, melodie e ritmi. Canti che diventano opere collettive, patrimonio comune a cui tutti possono attingere e contribuire. Canti trasmessi di generazione in generazione, che incuranti dello spazio e del tempo risuonano nelle valli e tra gli alpeggi, per scendere alle terre basse, a ricordare e raccontare un mondo apparentemente lontano. Il duo PassAmontagne – composto da Lorenzo Valera e Valentina Volonté – racconta il mondo della altezze attraverso il canto popolare. Si definiscono “contrabbandieri di suoni, melodie e parole” – come già avevamo riportato nel breve post di presentazione pubblicato il 27 aprile scorso – e nel mondo da loro cantato, le frontiere si trasformano in punti di contatto e collegamento fra le persone, dalle Alpi ai Pirenei, dalle Ande, ai monti della Kabila. Li abbiamo incontrati e intervistati prima del concerto che terranno a “Diverso è il suo rilievo”, sabato 3 giugno alle ore 21,00.
AM: Che cosa significa raccontare il mondo della montagna attraverso il canto popolare?
Lorenzo: Il canto è prima di tutto il nostro approccio per raccontare la cultura popolare. Abbiamo iniziato a Milano, diversi anni fa, con l’Associazione Voci di Mezzo e proprio nel canto popolare abbiamo scoperto una chiave molto interessante per raccontare un intero mondo che raramente trova spazio nei libri di storia. L’idea di rivolgerci alla montagna ci è venuta poi per un concerto a tema che dovevamo preparare, e da lì in poi ci è rimasta la curiosità di esplorare le montagne del mondo e di conoscere attraverso il canto popolare le loro diverse culture. Il canto è un documento, come lo sono gli attrezzi che venivano usati per lavorare, o i documenti scritti di un’epoca e ha un suo modo specifico di raccontare che ci piace molto. E poi, oltre a essere una chiave di accesso alle culture, il canto è un momento di piacere e di divertimento, perché non ci limitiamo ad ascoltare e ricercare: amiamo cantare proprio!
AM: Come si svolge il vostro lavoro di recupero e di ricerca dei testi?
Valentina: Il modo più immediato per recuperare un canto sono senz’altro le segnalazioni di amici, conoscenti, o l’apprendimento diretto attraverso cantate collettive. In alternativa, facciamo un vero e proprio lavoro di ricerca in archivio. Oggi, per fortuna, molti archivi sono digitalizzati oppure disponibili in pubblicazioni con CD allegati e partendo dalla registrazione originaria, o comunque dalla versione più vicina a quest’ultima, cerchiamo di proporre un arrangiamento che sia il più vicino possibile alla modalità esecutiva del tempo. La cosa più difficile è trovare dei canti che non siano ancora stati raccolti, è quasi impossibile trovare qualcosa di completamente nuovo, ma per noi è sempre interessante sentire che cosa le persone hanno da dire rispetto a un determinato canto, anche se non si tratta di un canto “inedito”. La maggior parte dei canti che proponiamo, comunque, vengono trovati nell’ambito di ricerche musicologiche e antropologiche effettuate negli anni Sessanta e Settanta.
AM: L’Italia ha una grande tradizione di canto popolare, ma sembra che nessuno abbia più voglia di cantare, quanto meno nella dimensione pubblica. Quando si è smesso di cantare secondo voi? E che cosa succede nel resto l’Europa?
Lorenzo: Quello dell’Italia canterina è, in effetti, uno stereotipo ancora molto diffuso. Per esempio in Francia, dove vivo ora, capita spesso che dopo un concerto la gente ci dica: “Sì ma da voi è più facile, da voi si canta sempre”, e io mi rendo conto che c’è una percezione ancora condivisa, ma che si riferisce probabilmente a una realtà di almeno 30 o 40 anni fa. In realtà, quello che mi capita di vedere tenendo stage sia in Italia che in Francia è che ci sia molta più curiosità in Francia rispetto al mondo del canto.
Riguardo a quando si è smesso di cantare, Alan Lomax, l’etnomusicologo americano che ha viaggiato in tutta Europa e in particolare in Italia negli anni 50, già a quel tempo aveva profeticamente detto che la fine del canto in Italia era rappresentata dal festival di Sanremo: paradossalmente vedeva la fine del canto proprio nel festival della canzone italiana. Alan Lomax aveva molto da dire su come l’Italia stava rapidamente dimenticando, senza far nulla per preservarlo, un patrimonio culturale che ai tempi era ancora molto vivo, senza che però ci fosse alcun investimento per salvarlo. Lomax fu costretto a lasciare gli Stati Uniti a causa della caccia alle streghe anticomunista scatenata dal maccartismo, ma lì aveva avuto risorse a disposizione per le sue ricerche volte a valorizzare tutto il patrimonio del blues, e si stupiva che una ricchezza di tradizioni tale come quella italiana fosse quasi del tutto trascurata. Quindi forse potremmo dire che dal dopoguerra, dall’avvento dell’industria discografica si è smesso di cantare, anche perché sono cambiate le funzioni del canto. La produzione del canto di tradizione orale aveva altre funzioni e altri obiettivi rispetto alla produzione cantautorale di oggi. Detto questo, non è proprio vero che non si canti più. Una piacevole scoperta è stata negli ultimi dieci o quindici anni il lavoro fatto dalle Voci di Mezzo a Milano e anche da tanti altri cori: molta gente che ha voglia di cavalcare quest’onda del canto popolare, di cantare in coro, è qualcosa che vedo nelle nostre nicchie ma è un fenomeno interessante.
Valentina: Forse oggi il canto non è più un fenomeno di “popolo” ed è qualcosa che varia sicuramente a seconda delle diverse aree d’Italia: nei contesti urbani è sicuramente meno forte e meno presente, ma è anche vero che potrebbero essere proprio nei contesti urbani persone che vengono da altri Paesi a prendere “in consegna” la tradizione del canto, portando qui i loro canti. Per quanto riguarda il resto d’Europa, limitandomi a quello che conosco, posso dire che sui Pirenei, per esempio, la tradizione canora è molto viva, ed è un fenomeno trans-generazionale. È possibile che ci siano politiche diverse, mirate alla salvaguardia del canto già a partire dalle scuole, cosa che da noi non è stata più fatta e che richiama sempre meno investimenti.
Lorenzo: A tutto questo possiamo aggiungere che sicuramente il modello canoro che si afferma con i talent show, e che è molto competitivo, non aiuta in alcun modo la riscoperta della convivialità e della naturalezza del canto.
AM: Le montagne come “cerniera”, come punto di passaggio e di scambio anziché come ostacolo: avete voglia di approfondire questo punto con un esempio di canto capace di valicare i confini?
Lorenzo: Naturalmente ce ne sono molti, ma se dobbiamo citarne uno, quello è senz’altro “Se Chanto”, l’inno dell’Occitania, che è lei stessa un territorio che va oltre gli stati nazionali. Anche il testo di questo canto ha dei passaggi molto espliciti (Abbassatevi montagne/Alzatevi pianure /Affinché io possa vedere /Dove sono i miei amori) e rende bene l’idea del collegamento tra persone. Questo è un canto diventato simbolo, ma di per sé il canto popolare è un canto che viaggia e che si trasforma a secondo del luogo in cui arriva. Così accade che anche con tanti canti che possiamo rivendicare come della nostra tradizione, a un esame più attento si rivelino in realtà provenienti da molto lontano, frutto dell’attraversamento e del passaggio di molti luoghi. Basti pensare alle ballate o ai canti narrativi, che sono simbolo di passaggio e di scambio, con parole che cambiano sulla stessa musica e danno già l’idea di qualcosa che va oltre i confini.
AM: Quando si pensa al canto di montagna è facile identificarlo con il canto dei cori alpini. Invece esiste una tradizione più antica e più sobria, del tutto priva di retorica. Quali storie raccontano i canti popolari della montagna?
Lorenzo: Molto spesso il canto popolare di montagna viene associato ai cori alpini, mentre è bene sottolineare che quello dei cori alpini è solo un modello, che pure nel Novecento si è preso poi tutto lo spazio disponibile, anche perché purtroppo c’è stato poco altro a livello di riproposizione. Ma questa sorta di assenza è qualcosa che ha riguardato un po’ tutto il mondo della montagna, al quale solo negli ultimi decenni è stata riconosciuta una cultura specifica. Quello dei cori alpini che tutti conosciamo è un modello nel quale il canto viene completamente riarrangiato, e quasi sempre da arrangiatori che arrivano dalla musica colta. I risultati di queste operazioni sono spesso apprezzabili e senza dubbio vengono fatti con grande serietà dal punto di vista artistico e tecnico. II problema, però, è che si distanziano enormemente dal punto di partenza, tanto che spesso non è più possibile distinguere l’aria principale o il testo. Non sempre sono canti “militari”, anzi: i cori alpini hanno preso e ripensato tutto il repertorio dei canti di montagna. Semplicemente stiamo parlando di generi diversi ma soprattutto e anche qui di obiettivi diversi. Nel nostro caso, tendiamo a mettere al centro il canto e la cultura che a esso ruotava attorno. Naturalmente ci muoviamo nel campo del possibile, ma quando affrontiamo un canto e iniziamo ad arrangiarlo cerchiamo di capire tutto quello che gli stava attorno, e proviamo a immaginarci come poteva essere cantato in gruppo a più voci. In virtù di questo tipo di approccio, gli arrangiamenti che proponiamo sono molto lineari e semplici. Cerchiamo infatti di proporre sempre la cosa più vicina a quello che possiamo considerare l’originale e di rispettare il più possibile la prima registrazione. Con i cori alpini è diverso, perché l’arrangiatore deve innanzi tutto mostrare la propria arte. Naturalmente fare musica prima del Novecento aveva obiettivi molto diversi. C’era un’urgenza diversa rispetto al mettere in mostra la propria abilità, che era quella di parlare di alcune cose, di trasmettere indicazioni o sentimenti.
Valentina: Aggiungerei anche che i cori alpini sono pressoché esclusivamente maschili, è molto difficile trovare dei cori alpini misti e le donne sono praticamente escluse da questo tipo di canto, mentre le donne in montagna hanno sempre cantato.
A questo link è possibile ascoltare un documentario sul canto popolare in Val d’Ossola (VB).