di Filo Sottile
Avevamo una casa su un albero, un grande olmo
che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock.
Oggi in quel lotto c’è una società di traslochi,
e l’olmo è scomparso. Progresso.
Stephen King, Il corpo, in Stagioni diverse
1
Al centro dell’inquadratura ci sono tre prunus cerasifera atropurpurea. Sullo sfondo, prato e condomini di edilizia popolare. Le case marroni, le case di via Aldo Moro. Ci ho vissuto per diciotto anni.
Ieri sera ho finito di leggere Requiem per un albero (Spartaco, 2007) e stamattina sono tornato qui. Il libro ritrae un’assenza, il suggello di un’epoca, l’incombere di un nuovo corso. I tre prunus hanno chiuso l’infanzia di tanti bambini e ragazzi delle case marroni. Requiem per un albero me li ha ricordati, sono venuto a fotografarli. Qui, in questo prato, prima che arrivassero loro, si giocava. Soprattutto a calcio.
A Rivalta c’erano proprio dei tornei fra case. Le case rosse, le case bianche, le case gialle, le case dei ferrovieri, le case di via Labriola, le case di via Brodolini. Ogni agglomerato condominiale aveva il suo campo (quasi sempre rettangolare e, in due casi fortunati, con le porte) e a turno ospitava le compagini delle altre case. Una roba informale, completamente organizzata dai ragazzi. Questo era il nostro campo. Le porte non ce le avevamo, ma le panchine ai due estremi erano al posto giusto. Prima della partita, il portiere saltava a piedi giunti con le braccia in su. Dove arrivavano le punta delle dita c’era la traversa. Più o meno.
Poi un giorno, mi pare nel 1991, qualcuno – il comune, i condòmini? non l’ho mai saputo – ha piantato questi tre alberi. I prunus, non paghi di aver ingombrato il campo, di aver aperto la strada ad altre piante, hanno prestato il fianco alle sfingi urlanti che vivono in ogni condominio, bestie mitologiche che atterriscono i giovani emettendo il loro verso caratteristico: «Andate a giocare da un’altra parte!». Con il nostro Maracanà tramutato in giardino condominiale, l’epoca delle partite leggendarie era finita.
Io ho poi cambiato casa nel 2000, ma i miei nonni sono rimasti lì fino al 2012 e mi è capitato ancora abbastanza spesso di buttare uno sguardo al prato, ma non ho mai più visto nessuno giocarci.
Il prato, prima che arrivassero quelle piante, attivava un campo di forze che mesmerizzava decine di bambini e ragazzi e il cui influsso era avvertibile per tutto il quartiere. Ci sono voluti un bel po’ di anni prima che tornassi a vivere così visceralmente il luogo in cui vivo. Il caso dell’Alberòn di Tomo – primo motore di Requiem per un albero –, che è venuto giù e ha radunato gran parte della comunità a contemplarne la salma, è diverso, ma speculare.
2
Il punto è, più o meno, che ciò che è storico è un teatro che viene messo su contro un fondale, una scenografia. Poi succede che la scenografia si stacca dal suo posto, viene in proscenio e canta.
È un’intuizione dello storico Gigi Corazzol incastonata fra le pagine di Requiem per un albero. Sono i cambiamenti repentini gli artefici di tali chiamate in proscenio, funzionano come la “rottura dell’equilibrio iniziale” nelle fiabe.
Un gigantesco olmo, l’Alberòn appunto, minato dalla grafiosi e tirato giù di forza da un temporale, cade e, da complemento d’arredo del paesaggio di Tomo, si rivela per quello che realmente è: un ganglio del tessuto neurale della comunità. La storia del crescere di questa consapevolezza – l’Alberòn è stato attore sul palco di Tomo e non solo scenario – è narrata in Requiem per un albero. Un oggetto narrativo non identificato in cui l’autore, Matteo Melchiorre, in elegante equilibrio fra narrazione, inchiesta e riflessione storica, prova a connettere le memorie dei suoi concittadini e a tracciare ex post i confini del campo di forze attivato dall’Alberòn, valutarne la forza.
«Era il nostro Alberòn – dice una donna che ne veglia le spoglie – la nostra Mole antonelliana».
L’aspetto monumentale, lo mette bene in luce l’io narrante, è in second’ordine rispetto a quell’aggettivo possessivo in prima persona plurale: nostro.
Nel corso dell’indagine Melchiorre raduna memorie di pellegrinaggi, promesse di matrimonio, raduni rastamani avvenuti sotto le fronde dell’olmo. Ognuno dei testimoni ha un ricordo individuale, ma quel luogo, quell’albero, è patrimonio collettivo. La sua presenza contribuisce a distinguere gli abitanti di Tomo da quelli di Feltre e dagli altri paesi del circondario, a renderli unici.
Il Requiem di Melchiorre, benché non disdegni i toni del lirico, non è mai nostalgico o piagnone. Neppure in un rigo si duole della scomparsa delle belle cose di una volta, dei bei tempi andati. L’alone leggendario che avvolge l’albero viene analizzato fin dall’inizio con attenzione e rispetto. Melchiorre è più impegnato a capire che a giudicare. Il libro anzi in alcuni frangenti appare quasi lacunoso: laddove il narrare mette in colonna indizi e intuizioni, Melchiorre lascia che sia il lettore a tirare le somme.
3
Il paesaggio è il frutto di una mediazione politica e al contempo è il corpo in cui la comunità scrive la sua storia. Il paesaggio riflette le tensioni sociali, viene marchiato dalle vicissitudini e reca le cicatrici, le umiliazioni, le conquiste delle persone che lo vivono. L’Alberòn era testimone di una Tomo più antica e, allo stesso tempo, agiva da baluardo contro le villette e i capannoni della Tomo del futuro. Melchiorre chiede di confrontare l’umanità che si raduna ai piedi dell’olmo a quella che è inghiottita dal cemento e che ogni sera rincasa nelle nuove aree residenziali.
Requiem per un albero è un libro buono, che agisce discreto, ma potente. Un libro capace di muovere azioni, di far muovere il culo.
Mentre lo leggevo, e ancora dopo, non ho potuto fare a meno di pensare agli Alberòn di casa mia. Quali sono, invita implicitamente a chiedersi Melchiorre, i gangli neurali della vita sociale della mia comunità? Come posso salvaguardarne la funzione prima che scompaiano?
A Rivalta alcuni di questi gangli non ci sono più, ma c’è una parte di cittadinanza che ha aperto gli occhi e sta provando a far sì che i punti nevralgici del suo corpo, del suo paesaggio, rimangano patrimonio collettivo e non vengano asfaltati da chi legge il territorio solo in termini di processi estrattivi. Nel 2015 ci siamo comprati il bosco del Truc Bandiera e ora stiamo difendendo la Cappella di San Vittore dalle fauci del TAV. Sono due dei nostri Alberòn e li abbiamo chiamati in proscenio mentre sono ancora vivi.
filosottile
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Ringrazio Gino Gallo, studioso della storia di Rivalta, che ci invia una foto degli anni ’50. Un olmo (che non c’è più) e, dietro, la Cappella di San Vittore https://www.alpinismomolotov.org/wordpress/wp-content/uploads/2017/01/image.png