Durante il lungo, feroce periodo durante il quale ha scritto “Un Viaggio Che Non Promettiamo Breve”, Wu Ming 1 ha voluto coinvolgere in qualità di “lettore di prova” un’intera mailing list: quella che si raccoglie intorno a questo blog, nato dalle costole di un’altra sua opera solista, “Point Lenana”, e battezzato “ufficialmente” con la salita (e discesa) del Rocciamelone, raccontata nel récit #AlpinismoMolotov. No Picnic on Rocciamelone.
Probabilmente è la prima volta che una mailing list viene usata in questo modo, ma ci importa fino a un certo punto: si possono scalare vie sulle montagne anche senza preoccuparsi se qualcuno ci sia passato prima. È vero che non abbiamo trovato chiodature precedenti, ma non si può mai dire. L’importante è che sia stato bello, e lo è stato molto.
In occasione dell’uscita del libro abbiamo pensato di accatastare qui di seguito, un po’ alla rinfusa, alcuni passaggi di scambi elettropostali che, visti guardando indietro, ci sembrano più significativi, e alcuni commenti a lavoro finito di chi pensava di poter dire qualcosa su questo libro.
I nomi e le date non contano, quindi abbiamo deciso di non metterceli.
Siamo tutti complici, si parte e si torna insieme.
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“Questo glielo scrivo o evito?” Per settimane questo è stato il leitmotiv. Quasi ad ogni ricezione di una nuova sezione di “un viaggio che non promettiamo breve” si riaccendeva il ricordo di un episodio che aveva a che fare con quel capitolo. A volte era un episodio importante, e allora la risposta era facile, altre volte era qualcosa di non fondamentale, un episodio relativo ad un ‘ramo secco’ che non aveva portato nulla all’esito finale degli eventi, e allora la domanda si riproponeva “Glielo mando o lo risparmio?” Perché poi era chiaro che il rischio era quello, che con tutta la mole di materiale che già era condensato in quelle pagine ogni goccia fosse quella che l’alambicco lo faceva non traboccare ma esplodere.
Eppure alla fine l’aneddoto lo scrivevo, e lo inviavo, lasciando a Roberto l’onere di setacciare le tonnellate per ridurle ai grammi che poteva stivare nelle pagine, e lo facevo perché dalle anteprime che leggevo una cosa mi appariva indubitabile: che quella non era tanto la storia di una (ipotetica) linea ferroviaria, quanto quella delle persone che per venticinque anni hanno frenato “l’Entità”, e quindi anche dei tentativi a vuoto, perché qualunque sia l’esito finale in Valsusa il racconto del loro (del nostro) mettersi di traverso possa arrivare a chi intonerà i prossimi canti di guerra, possa sostenere la loro voce. Per questo mi sembrava fosse giusto accatastare tanti piccoli frammenti, per fornire al costruttore del libro abbastanza suoni per rendere la polifonia del movimento.
E adesso aspetto di avere in mano la versione finale per vedere come c’è riuscito.
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Il XX xxxxxx 2016 17:40, Xx Xxxx ha scritto:
Pur essendo ancora una versione grezza e tenuto conto delle indicazioni tra parentesi quadre, la lettura è piacevole: rende bene le diverse contraddizioni in seno al progetto, ogni tanto regala il piacere di veder portare a segno qualche scudisciata di irriverenza – mai fine a se stessa – e le testimonianze riportate sono, mi accodo a Maurizio, illuminanti.
Il paragrafo *Alla vecchia maniera*, ad esempio, è divertente e smonta in poche righe il discorso dei «giovinastri da “blocco nero”», con una chiusa estremamente efficace: «In Val di Susa, gli umarells non si limitavano a guardare i cantieri: li assaltavano.»
Ho riportato quest’ultima citazione anche perché mi permette di riportare l’effetto che l’uso esclusivo del tempo passato ha prodotto in me durante la lettura, sia in questa seconda parte che nella prima: un effetto straniante e di *nonsense*, ché alcuni episodi sono molto recenti, fino all’inciso «Che cantiere era, nel 2016, quello in Val Clarea?»; ecco, per me è come uno sguardo che arriva dal futuro e che racconta – a noi che leggiamo nel presente – l’ineludibile sorte di quest’opera che non sarà mai realizzata, punto, una semplice verità oramai indiscutibile. Ma che ha fatto danni enormi e che, rischiamo tutti, continuerà a farli.
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Il XX xxxxxx 2016 15:02, Xx Xxxx ha scritto:
Ho letto, mi piace molto, Roberto.
L’effetto che mi fa in certi punti la lettura è strano, ché nelle vite, nelle biografie e nei volti di chi vive nelle valli alpine vi leggo sovente tratti in comune. Senonché qui, leggendo dei pensionati ai presidi e delle madame, colgo la loro grande distanza e la potenza che un’istanza di lotta comune e una socialità costruita su relazioni mutualistiche di difesa della propria dignità ha offerto loro, salvandoli dalla condanna alle passioni tristi alla “quinta colonna”, dal livore alla “tg4”, dall’isolamento che fa guardare a tutti con sospetto. Questa cosa dei presidi mi risuona sulle stesse corde: la gioia del fare insieme, del mettersi in discussione, proprio quando la società (penso a *Non è un paese per vecchi*, di Lipperini) ti riduce a ingombro, ti spoglia di ogni identità, oppure ti riduce a far la macchietta (stile “uomini e donne”).
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Il XX xxxxxx 2016 23:22, Xxxxxx Xxxxxxxxx ha scritto:
Grande pezzo e bellissima la riflessione sull’abitare la rottura!
Interessante riflettere anche sul racconto degli abitanti della rottura (in questo preciso momento non penso nello specifico al movimento No Tav), i quali spesso attribuiscono a questo scarto un valore performativo profondo. E nel “peggiore” dei casi ricordano con nostalgia i tempi in cui erano riusciti a creare un’esperienza comunitaria che non ha eguali nelle proprie vite. Poi va be’ se la rottura la provi ad abitare e organizzare per 25 anni… forse è un altro discorso.
I pezzi di Roberto sui No Tav sono molto potenti perché danno voce agli abitanti della rottura e legano le voci in un coro. Quel coro che chi è lì sa che esiste, perché lo ascolta e lo vede tutti i giorni, ma chi non è lì lo riesce a comprendere meglio nella sua collettività e convivialità grazie a racconti come questo.
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Ho una presunzione: Wu Ming 1 non avrebbe potuto scrivere Un viaggio che non promettiamo breve, o almeno non avrebbe potuto scriverlo così come lo ha scritto, se nel 2009, coinvolto da Santachiara nel viaggio che prenderà il titolo di Point Lenana, non fosse entrato in contatto con il “bacillo dei sassi”. Questo bacillo, tra le altre cose, se ben incubato, può infatti determinare un implemento dello spettro visibile, alterazione che in questo caso indubbiamente si è data.
Venticinque anni di lotta raccolti nel bacino di una valle alpina, stratificati su conflitti di più antica data, setacciati a valle con il rispetto e un’onestà estrema per tutte e tutti coloro che hanno contribuito – chi con un granello, chi con un macigno – a farne quella che noi oggi conosciamo: l’epopea della Val di Susa No Tav. Per il loro agire collettivo, per le loro parole e i racconti che hanno affidato all’autore a tutta prova. E non avrebbe potuto essere diversamente, ché chi vive e ha vissuto per secoli la montagna e ne ha subito – in cambio di qualche pallina di vetro colorato – la colonizzazione, lo sfruttamento e l’impoverimento, le parole offerte le pesa, non le offre a chiunque, attenta a che quelle parole non gli vengano ritorte contro.
Personalmente, nel viaggio che è stato l’esperienza di “lettore di prova”, quel che più mi ha esaltato del testo sono le parti dedicate alla quotidianità della comunità resistente della Val di Susa, il suo esperire già qui e ora relazioni e socialità che rompono il dominio delle passioni tristi nella nostra società. È tantissimo. A Wu Ming 1 il merito di avercene offerto una narrazione che, spigolando il passato, mantiene lo sguardo aperto sul (o dal?) futuro.
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Presidio della Maddalena, 2011 (foto di Luca Perino)
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Il XX xxxxxx 2016 17:53, Xxxxxxx Xxxxxxxx ha scritto:
Arrivo tardi anch’io: l’intro mi sembra molto bella, c’è una tensione forte che soprattutto nelle prime pagine, tanto per rimanere in America Latina, mi ricorda l’intro a Operazione Massacro di Rodolfo Walsh; qualcuno suggeriva di iniziare con una storia, non so se ci sia bisogno (a gusto personale, ovviamente). Proprio se tu volessi dare un ritmo più martellante fin dall’inizio potresti spingere di più su quel “perché” che poi piano piano viene fuori. Da esterno al NoTav, mi sembra che sia tutto molto chiaro e che, anzi, si possano cogliere i fili di una storia che è molto più grande e che parla dell’Italia di oggi.
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Il giorno XX xxxxxx 2016 00:19, xxxxxxx | xxxx | xxxxxxx ha scritto:
In generale mi sembra molto fico. Mi è venuta in mente una roba del reggae.
Sicuramente ha un nome. Tutto nel reggae ha un nome. Io però il nome non lo so. L’ho vista fare a diversi gruppi, dai miei concittadini Downtown Rebels alla band di Buju Banton. Mi è sembrato di capire che sia una consuetudine del genere quella di iniziare il concerto con un medley che raccoglie i pezzi più forti che verranno suonati nel corso della serata.
[…]
Battute a parte, io “sento” che ci vorrebbe un inizio più raccontato, un aneddoto epifanico, anche breve, prima di questo prologo. Un fatto che metta in relazione la leggenda dei No Tav e il bardo. Insomma, quando (non o non solo perché) hai sentito il desiderio di scrivere questo libro.
I miei due cent
filo
Ps: a proposito del coordinamento. Ci sono stato dieci giorni fa, ma da quando è nata mia figlia (che fra poche ore compie 4 anni) non ci ero mai più andato. Nessuno ha sentito la mia mancanza. La mia presenza è rilevante solo per chi legge la mailing list del comitato nostro, perché a volte ho fatto il report di quanto detto. Non sono tagliato per parlare in un contesto del genere.
Quello che volevo dire è che sono uscito con la ferma intenzione di scrivere un report per te, per il tuo libro. Non tanto sui contenuti, ma sull’atmosfera, sullo svolgimento, i toni. Poi, un po’ che mi è mancato il tempo e un po’ che mi sentivo ridicolo a far dell’antropologia su una cosa che rivedo di persona dopo quattro anni, e l’ho lasciata lì. Ma sarebbe bello se ci fosse una testimonianza su quel momento.
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Il giorno XX xxxxxx 2016 14:50, Xxxxx Xxxxxxx ha scritto:
Iniziare con Garabombo per me è già una botta di adrenalina. Perché se tutte le lotte sono la stessa lotta, allora la Val di Susa è le Ande, il Chiapas, il Kurdistan, l’Occitania, la Vasconia e via elencando. Non so quanti andranno a cercarsi Manuel Scorza, specialmente tra i più giovani, ma in questi anni di No Tav i suoi libri, che da giovane ho sbranato, mi sono venuti in mente veramente tante volte. Ma pensavo di essere l’unico residuo di quando Scorza si sapeva chi fosse.
Sulla metafora di valle come nave, puoi valutare se aggiungere una breve motivazione geologica. Non tutte le valli sembrano navi. Il profilo a U, come un’arcadinoè, è quello delle valli glaciali. Quelle fluviali hanno profilo a V e probabilmente non potrebbero galleggiare ;-)
En passant mi ricordo che sulle coste della Bretagna le chiese di paese hanno molto spesso la volta con profilo a U rovesciata, proprio in quanto metafora esplicita della chiglia.
Non so se si capisce in che senso Maria di Nazareth sarebbe NoTav ;-)
(ho messo la faccina, ma la domanda non è ironica per me tutte le madonne sono simboli reazionari, e lo sono al quadrato se stanno in cima a una montagna: in che senso questa no?)
In generale mi pare che funzioni bene, il ritmo è un po’ “effetto slavina”, arriva come un’onda, non lascia respiro e probabilmente disorienta chi non è avvezzo all’argomento, ma probabilmente è proprio quello che occorre per l’introduzione.
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Veder nascere questo libro per me è stato soprattutto emozionante.
Perché l’argomento sembra il TAV ma in realtà è la Valsusa, la sua storia, i suoi abitanti, il suo modo di essere montagna, il suo rapporto con la pianura.
Perché se si vuole spiegare bene quel tipo di mostro è inevitabile tirare in ballo i crudi dati, ma qui perfino i numeri vengono irrorati da sangue linfa e correnti telluriche, e anche le parti “tecniche” che sulla carta avrebbero potuto risultare noiose, alla fine risultano animate, psicodinamiche, giustamente mostruose.
Perché questo stesso libro probabilmente è a sua volta un mostro, una piovra con un repertorio inesauribile di tentacoli, un’Entità che sta dalla nostra parte a fronteggiare l’altra Entità, quella dei Signori della Pianura che si credono in diritto di colonizzare il mondo.
Perché tra le altre cose è un racconto vivo e polifonico di come questi decenni di lotta abbiano reso la Valsusa un luogo e un evento unici e peculiari, e abbiano costretto anche i non volenti ad ascoltare il punto di vista non cittadino considerato ormai irrilevante e minoritario, e cambiato in frastuono, in “cacerolazo”, la voce solitamente flebile che si leva dai bordi dell’impero, quei posti dove peraltro vive la stragrande maggioranza dei sudditi.
Quei decenni e quella lotta hanno trasformato la valle in qualcosa che dovremmo considerare Bene Comune. Questo libro, prima di farlo capire, lo fa “sentire”.
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Striscione alla Maddalena, 2011 (foto di Luca Perino)
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Il giorno XX xxxxxx 2016 18:52, Xxxxxxx ha scritto:
Alla presentazione di ieri a Merano ho parlato anche della lotta NoTav, ho parlato della militarizzazione della valle e – visto che eravamo all’interno di una serata organizzata dall’anpi di Bolzano – dell’essere partigiani dei valsusini e dei notav. Della continuità che vedo fra la lotta al nazifascismo e la lotta all’Ur-fascismo dell’apparato Sitav. Ora l’intervento del presidente della sezione anpi è stato allucinante, ha condannato in blocco la “violenza” degli attivisti notav ed era per me evidente che non aveva idea della situazione che c’è in Valle da anni. Ho, ovviamente, precisato alcune cose per quanto m’è stato possibile ma credo sia giusto parlare della repressione, come suggerisce Simone. È una cosa di cui non si tiene conto, che non si sa.
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Il XX xxxxxx 2016 17:13, Xx Xxxx ha scritto:
Aggiungo un’altra cosa, a riguardo della parte che dedichi, Roberto, ai «nomi separatori», ai tentativi di dividere e contrapporre «buoni» e «cattivi», parte che ho letto poco dopo aver ascoltato l’intervista a Cecco Bellosi nell’ultima puntata di Picchi di frequenza che mi ha fatto tornare alla mente un passaggio del suo (di Bellosi) Con i piedi nell’acqua – libro consigliatissimo a tutt*, che so tu hai letto e apprezzato.
Ho ripreso in mano il libro e ho ripescato il passaggio, credo che si capisca da sé perché ho collegato le due cose, non ti servirà magari a nulla, ma eccolo:
Colonno era diventata una piccola e inespugnabile fortezza. Arroccata tra il lago e la montagna, disseminata di labirinti e isolata dalle Camogge, contava su un capo riconosciuto da tutti e aveva scritto nel codice genetico il principio comune dell’omertà.
Omertà: 1) la solidarietà diretta a celare l’identità dell’autore di un reato e in genere a escludere l’intervento della legge dal campo delle controversie private; 2) riserbo assoluto, determinato da solidarietà morale e insieme da timore di vendetta. Così il Devoto-Oli.
Ancora più specifico nella suddivisione è il Rizzoli-Larousse: 1) regola della malavita organizzata e consuetudine culturale dei luoghi da essa dominati, che obbligano al silenzio sull’autore di un delitto e sulle circostanze di esso; 2) solidarietà interessata tra membri di uno stesso gruppo o ceto sociale.
L’omertà si sporca quando è suddita della paura e del potere, legale o illegale: in Italia, spesso, i due termini si sono intrecciati. L’omertà può essere invece, come dicono i dizionari, solidarietà di popolo; in questo caso ha un volto pulito. Ed è dura a morire perché non ha bisogno di sentirsi liberata dalla paura. (pag. 96)
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Il giorno XX xxxxxx 2016 22:34, xxxxxxx x. x. ha scritto:
Ciao a tutt,
ho finito di leggere adesso e ho ancora il groppo in gola per Nathan e Raul. Quindi funziona :)
I refusi e il resto è stato già segnalato a me resta solo da dire che il ritmo tiene dall’inizio alla fine, ci sono rallentamenti e accelerazioni narrative che rendono l’idea del ritmo della lotta. Nei miei appunti ho scritto “ritmo infernale e chiarezza di narrazione”.
In più punti ho intravisto il murale di Blu sull’XM24, il contrapporsi di forze, l’ombra di Mordor…
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Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1 è un tunnel geognostico nella storia e nella geografia della val Susa. È una galleria di cristallo che parte dal Monte Musinè, arriva in Europa e ritorna, parte dal movimento No Tav, arriva a Fra Dolcino e Margherita per poi tornare nei secoli di lotta XX e XXI dell’era neoliberista.
Un viaggio che non promettiamo breve è un tunnel geognostico che non invade, non deturpa, non umilia, ma informa, accompagna, chiarifica. A differenza del gemello malefico indesiderato, questo tunnel è cauto e rispettoso.
Un viaggio che non promettiamo breve è un tunnel geognostico che rifrange le voci e i volti del movimento No Tav, voci e volti di tutti i colori e di tutti i toni, eccezionalmente immortalati in copertina da Zerocalcare, a differenza del gemello malefico che sembra avere una sola voce ed un solo pensiero.
Un viaggio che non promettiamo breve, come il Cyrano di Guccini, ha atteso tutti coloro “con il naso storto, signori imbellettati” e, intingendo la propria penna nel loro orgoglio, li ha toccati e squalificati.
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Il giorno XX xxxxxx 2016 22:29, Xxxxxxxx Xxxxxxx ha scritto:
La mia “lettura” è stata anomala perché affidata a un sintetizzatore vocale: ho “ascoltato” il capitolo in auto durante un lungo viaggio.
Beh, funzionerebbe già come radio-dramma senza alcun ritocco: mancavano soltanto le note su “Bella ciao” e l’accento giusto sul Seghino (che non faceva rima col celerino perché il mio sintetizzatore lo confondeva con il congiuntivo del verbo “segare”). Le scene “si vedono”, la carogna monta nei punti giusti e il brivido mi è preso all’arrivo dei fantasmi dei mercanti in sciopero a Condove. Il tutto funziona stupendamente bene: ho vissuto ciascuna pagina con un continuo senso di necessità; è come se, finalmente, una miriade di storie trovassero la giusta collocazione in un Disegno più grande. L’impressione è di leggere qualcosa che è già un Classico – pur essendo ancora in fieri. Molto strano. Molto bello.
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La battaglia del Seghino” (foto di Luca Perino)
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Il giorno XX xxxxxx 2016 22:29, Xxxxx Xxxxxxx ha scritto:
> Il xx/xx/2016 18:26, Xxxxxxx Xxxxxxxx ha scritto:
> grande. L’impressione è di leggere qualcosa che è già un Classico – pur
> essendo ancora in fieri. Molto strano. Molto bello.
esatto, non trovavo le parole ma quello è l’effetto (ora l’ho capito) di raccontare al passato anche certi fatti e certi “dati” che persistono nel presente. Anzi probabilmente una parte dell’afflato epico arriva proprio da lì: esagerando, è come se avessi spostato il Seghino ai tempi della guerra di Troia. E funziona!
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Il giorno X xxxxxx 2016 17:04, xxxxxxx |xxxx| xxxxxxx ha scritto:
>Il xx/xx/2016 18:26, xxxxxxx |xxxx| xxxxxxx ha scritto:
> letto
> fico
> gran ritmo
> secondo me nel passaggio della ripresa di Venaus ci potrebbe stare qualche
> piccola sequenza
> vista dagli occhi di un/a manifestante.
motivo le cose che ho scritto. Quella di avere degli sguardi interni all’orda/onda è una mia esigenza. Io quel giorno c’ero, ma sono arrivato a giochi fatti e dalla strada asfaltata. Mi piacerebbe “sentire” la sensazione della discesa a rotta di collo o a passo di zannetta o a passo montanaro. L’urgenza di arrivare lì e riprendersi quel posto.
>Nelle sere precedenti lo sgombero di Venaus (a terra c’era fango e neve e faceva
>un freddo becco) la gente dava anche la legna agli sbirri, c’era uno – non mi
>ricordo chi fosse – che a ogni donazione gli spiegava che se ne dovevano
>andare. Dall’altra parte restavano in silenzio, ma la legna non esitavano a
>prenderla.
Oggi ho capito perché ho condiviso questo aneddoto. Me l’hanno ricordato le parole di Roberto e la memoria – ma che e lo dico a fare? – funziona a storie. Quell’episodio della legna a me dice qualcosa sulla radicalità della lotta No Tav che, anche quando si è aperta a un gesto di umanità nei confronti di uno degli avatar del nemico, continua a dire: non vi vogliamo.
Il gesto dei poliziotti che si tolgono il casco davanti ai forconi, in valle non lo vedremo mai (se non come improbabile obiezione di coscienza personale). Ciò che i No Tav chiedono è esattamente l’opposto di ciò che i mandanti degli sbirri desiderano. Altro che pacificazione.
Spero di non aver ulteriormente confuso le carte.
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Liberazione di Venaus” (foto di Luca Perino)
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Il giorno XX xxxxxx 2016 11:25, xxxxxxx x.x. ha scritto:
Letto adesso, per me gira bene.
Si “sente” il crescere dell’entità e del cantiere, si sentono le azioni del movimento in risposta alle azioni del potere, i rallentamenti e le accelerazioni. il ritmo tiene.
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Un viaggio che non promettiamo breve è libro che aspetto di poter rileggere per intero, aspetto di poter tenere in mano il tomo e di potermi tuffare fra pagine di carta. Il corpo del libro racchiude il corpo del movimento notav, le sue lotte, i nomi delle persone che fanno il movimento, contiene i suoi venticinque splendidi anni. L’ho letto a pezzi, insieme ai compagni di Alpinismo Molotov, e voglio rileggerlo per poter mettere in prospettiva i fatti e gustare i salti narrativi, le analisi, i toni ora poetici, ora epici, senza dover aspettare.
So che eravamo tutte e tutti – di volta in volta – in attesa del prossimo pezzo, per vedere come poter contribuire, se era il caso di farlo. So che sentivamo – ogni volta – l’urgenza di collaborare a un progetto in cui ci siamo sentiti coinvolti, in un modo o nell’altro. Complici e solidali fin da subito, anche chi come me ha conosciuto la lotta NoTav pochi anni fa, lungo un viaggio che dura da venticinque anni. Io non c’ero ma avrei voluto esserci.
Perciò mi dichiaro complice e solidale.
In questi giorni sto leggendo Itaca per sempre di Luigi Malerba, il quale – nella nota finale – chiede se considerare Ulisse autore dei due poemi omerici non sia l’ipotesi più semplice e seducente. Dopo aver letto questa tesi mi sono detto che sì, non solo è l’ipotesi più semplice e seducente, ma – grazie a Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1, si parva licet – abbiamo la prova che si può fare militanza e narrazione allo stesso tempo e insieme ai compagni di viaggio intessere un canto.
Un canto che possa – chissà? – aiutare, sostenere e illuminare il cammino di tutte le altre lotte. Questo libro ha molte voci, ha stile, questo libro è un libro necessario, è una pietra miliare per chi lotta, per chi scrive, per chi fa entrambe le cose. Questo è un canto di confine.
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Il giorno X xxxxxx 2016 11:20, Xx Xxxx ha scritto:
Una riflessione su Bella ciao: la canzone è molto presente nel testo, i No tav ne hanno fatto un canto di battaglia, da cantare per farsi coraggio nei momenti più duri dello scontro, anche fisico, con gli “invasori”. Qualcosa di più di un “canto di lotta”, un uso che questa canzone non ha mai conosciuto, ché “canzone simbolo della Resistenza” divenne ben dopo la fine della guerra e di partigiani che la cantarono per farsi forza non ce ne furono. Anche a me Bella ciao non è mai piaciuta, così come scrivi tu, Roberto, e quel passaggio veloce in cui ne segnali però l’efficacia – «tutti la conoscevano, tutti potevano unirsi al coro in qualunque momento. E la prima strofa *funzionava*.» – mi suona particolarmente importante. Non so se è tua intenzione tornarci in altri parti del testo, ma qualche riga in più la dedicherei all’uso di questa canzone, al suo rafforzamento di significato nell’uso che ne ha fatto e ne fa il movimento No tav. Non intendo un’esegesi della canzone, ma se come ha scritto Bermani a proposito, Bella ciao rappresenta l’invenzione di una tradizione, i No tav ne hanno rafforzato il senso e, per una volta, facendone strumento della viva lotta. Spero di essermi spiegato, è che penso alla diffusione di questa canzone e al suo successo ben oltre i confini italiani e il fatto che abbia risuonato negli ultimi anni in contesti diversi (con valenze di significato diverse) – da Occupy alla campagna elettorale di Tsipiras, per fare due esempi al volo – e l’uso dei No Tav, il senso che assumono le parole della canzone quando sono da loro cantate, mi appare come l’unico caso in cui non risuoni un mero significato figurato.
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Il giorno X xxxxxx 2016 11:25, Xxxxxxxx Xxxx ha scritto:
È affascinante ed un po’ inquietante capire, mentre si legge, che la lotta No Tav si ricongiunge idealmente a cose solo lette sui libri, i Catari, Dolcino e Margherita, etc… storie di significato epocale; di contro, il Sì Tav si rifà alla tradizione di cose come il Vajont, tradizione epocale di tipo agghiacciante…
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Scritta No Tav – San Giuliano (foto di Luca Perino)
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Il giorno X xxxxxx 2016 12:04, Xxxxxx Xxxxxxxxx ha scritto:
La carica era arrivata fino sul ponte del Clarea, ma era iniziata molto prima, aveva superato la baita e si era attestata sul ponte. Come è scritto sembra invece che l’abbiano fatta sul ponte, mentre li si fermarono.
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Il giorno XX xxxxxx 2016 01:11, Xxxxxxx Xxxxxxxx x Xxxx Xxxxx ha scritto:
Hola da Barcellona, dove finalmente ritroviamo Internet. Grazie del regalo, è stata la prima volta che abbiamo potuto leggere la storia degli albori del movimento così nei particolari. Vorrei che demolisse una volta per tutte il mito che “i No Tav sono pagati dall’autostrada, per questo non si sono opposti”.
Abrazos!
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Il XX xxxxxx 2016 08:39, Xxxxxxx Xxxxxxx ha scritto:
Notevole come riesci a tenere insieme la cronaca precisa e i passaggi a Lovecraft, Giacu e le strategie che invocano l’Irrazionale.
Il passaggio da Rama agli UFO ai Cattolici a Padre Pio – il tutto sulla scia unificante degli Alleati Cosmici – è spiazzante e originalissima: mai trovata prima nella sterminata letteratura à la Kolosimo!!!
Poiché giustamente non ti dilunghi sul debunking, puoi affidare ai titoli di coda la segnalazione della guida Molotov al Monte Musinè – tanto più che nacque quasi casualmente come conseguenza imprevista del tuo infortunio sul Rocciamelone (che citi en passant).
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Il giorno X xxxxxx 2016 14:34, xxxxxxxxx ha scritto:
Anche se in ritardo ho letto tutti e tre i pezzi, per me funziona tutto. Solo un dubbio, sullo sgombero del Vernetto scrivi poco per restare concentrato sulle storie di Luca e Marco Bruno? Oppure pensi di mettere ancora qualcosa nelle pagine successive? Perché secondo me qualche riga in più ci starebbe. Nel caso ti giro un link del racconto di una ragazza che era scappata per un pelo ai poliziotti che all’epoca mi aveva molto colpito:
https://astereli.wordpress.com/2012/03/01/notav-caccia-alluomo-e-violenze-una-testimonianza/
Poi non so se può aver senso inserirla, ma la sera di quello sgombero c’è stata un’immagine surreale. Dopo che le ffoo avevano sgombrato l’autostrada e prima che iniziassero a inseguirci verso Bussoleno c’è stato un po’ di tempo (mezz’ora?) in cui siamo stati fermi alla rotonda dello svincolo, mentre dall’autostrada ci tiravano lacrimogeni. Non so se era fatto apposta oppure era un errore di mira, alcuni sono finiti in nel cortile di una casa dietro di noi, a un certo punto uno di quelli che ci abitavano è uscito, ha preso l’asino che teneva in cortile e l’ha portato via per non fargli respirare troppo gas, e quindi noi che eravamo lì, in mezzo al fumo di lacrimogeni, che non era troppo fitto ma sotto i lampioni dava un effetto stranissimo, e ci siamo visti passare in mezzo un vecchietto con un asino alla corda che lo portava via dal casino.
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Il giorno X xxxxxx 2016 10:19, Xx Xxxx ha scritto:
La lettura dev’essere “concentrata”, ci sono molti nomi di luoghi, date, facile perdersi qualche nesso, ma credo che sia un aspetto che *obtorto collo* caratterizzerà tutto il libro, ché raccontare venticinque anni di una vicenda collettiva, alla ricerca delle sue caratteristiche peculiari, necessariamente vuol dire narrarne luoghi e fatti. Potrebbe essere d’aiuto una cartina geografica della zona in cui si collocano i fatti per permettere al lettore di orientarsi, almeno geograficamente. Non so se è fattibile, ma sicuramente potrebbe aiutare; una cartina dei luoghi “No tav”
sarebbe il massimo, ma questa, a naso, mi sembra difficilmente tracciabile (dovendo tenere conto anche della dimensione temporale).
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Allungo lo sguardo verso Ovest. C’è il traffico del rientro giornaliero, sono sul furgone, in coda alla solita rotonda, e attendo di poter passare. La luce ingannevole del crepuscolo cancella la profondità e mi rivela la presenza di un pioppo tremolo al di là dell’incrocio. Ora è alto esattamente come il Rocciamelone.
È inverno, sono in macchina con Wu Ming 1 e Michele Lapini, stiamo andando a Chiomonte a visitare il cantiere, parliamo di Battiato. Wu Ming 1 accenna il ritornello de L’animale: Ma l’animale che mi porto dentro/non mi fa vivere felice mai/si prende tutto, anche il caffè/mi rende schiavo delle mie passioni…
Si interrompe e dice: «Quel “anche il caffè” è fantastico. È un piccolo dettaglio quotidiano, ma se non ci fosse, il “tutto” che lo precede suonerebbe vuoto, astratto, invece messo lì, “anche il caffè” dà vita, segnala che ciò di cui si canta ti può riguardare».
È una mattinata di inizio ottobre. Una settimana fa è arrivata in mailing list la bozza definitiva di Un viaggio che non promettiamo breve. Io decespuglio e penso. A un tratto mi viene in mente che mi sono dimenticato di raccontare a Wu Ming 1 delle bocce quadre.
Lo sgombero del 27 giugno 2011 è alle nostre spalle. La controparte si è fortificata in Clarea, ma il movimento non molla. È in piedi un turn over che garantisce ogni notte la presenza di militanti a ridosso delle reti. Noi della Valsangone e della Collina Morenica ci andiamo il venerdì. Si arriva su, mangiamo, beviamo, chiacchieriamo, esploriamo, teniamo allenate le guardie, ogni tanto si canta. Una delle mie occupazioni preferite, però, è giocare a bocce quadre.
Il gioco delle bocce appassiona tutta Italia, ma il nostro è un territorio accidentato e a volte un campo liscio e in piano, è un lusso. Le bocce quadre sono nate per risolvere questo problema: si tratta di cubi di legno, li l senza dover andare a recuperarli a fondo valle.
Le irregolarità del campo di gioco, sassi, ghiaia, buche moltiplicano le variabili da tenere in conto per avvicinarsi al boccino. È uno spasso, un gioco che somiglia alla vita.
In quelle notti, nella luce livida delle torri-faro, proprio a ridosso delle reti, in tanti si sono sfidati a bocce quadre.
«Quanto è importante questo aneddoto?», mi chiedo mentre faccio il pieno al decespugliatore. Certo è un dettaglio trascurabile se confrontato alla presa di Venaus, alla Libera Repubblica della Maddalena o a una marcia di ventimila persone. Però quanto è rivelatore del carattere del movimento, della sua forza, della sua fantasia, del suo buon umore?
Un viaggio che non promettiamo breve è un grande libro e non manca di narrare gli snodi fondamentali della storia dei No Tav, quelli che si elevano maestosi come il Rocciamelone, ma tutti questi eventi sono tenuti insieme da una fitta maglia di pioppi tremoli, di caffè, di bocce quadre.
È una storia di esseri umani in lotta, una storia valsusina, raccontata in modo che ognuno, ovunque, possa sentirsi toccato.
Tutte le fotografie sono di Luca Perino, queste e altre si possono visualizzare nella sua Raccolta album fotografici riguardanti l’opposizione al TAV Torino – Lione). Ringraziamo Luca per la disponibilità.
Omnia sunt communia! Il coraggio della Valsusa e il nostro, nell'onda d'urto del «colpo globale» #WM1ViaggioNoTav - Giap
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[…] ■ Dulcis in fundo. Non è un segreto: Un viaggio che non promettiamo breve è stato letto e discusso a puntate, per buona parte del 2016, nella mailing list di Alpinismo Molotov. Ebbene, oggi sul blog di AM è apparsa una testimonianza collettiva sul lavoro di quei mesi: un cut-up della lunga discussione sul libro intervallata da commenti successivi all’uscita. Titolo: Si parte e si torna insieme. In cordata per un viaggio che non promettiamo breve. […]
mafuta
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“Leggo con un continuo senso di necessità; è come se, finalmente, una miriade di storie trovassero la giusta collocazione in un Disegno più grande.”
Ecco.
E’ esattamente così!