La prima parte dell’intervista si può leggere qui.
Alpinismo Molotov: Nella mailing list di AM si è discusso di lupi a più riprese. Una delle discussioni riguardava un caso di cronaca. L’estate scorsa a Ormea, su una bacheca del parco del Marguareis è stata appesa una testa di lupo mozzata. Abbiamo trovato un articolo sul Secolo XIX in cui si ipotizza si tratti di un avvertimento in vista dell’allargamento del parco. Recentemente, in questo intervento di Francesca Marucco, abbiamo sentito che ad auspicare la salvaguardia del lupo sono soprattutto escursionisti, ambientalisti e studenti. I cacciatori hanno una posizione più sfumata, mentre è decisamente negativa quella dei pastori. La salvaguardia degli ambienti naturali e degli animali che li abitano è in conflitto con la sopravvivenza delle persone che vivono in montagna di attività non legate al turismo e all’escursionismo? Uomo e lupo possono convivere?
Luca Giunti: Devo dare una risposta articolata. Parto dalla testa mozzata sul Marguareis. In tutto il mondo quando si comincia a ipotizzare che si possano fare dei parchi o delle forme di tutela di qualche tipo c’è una componente che si arrabbia. Non è successo solo sul Marguareis, è successo anche sul nuovo parco del Monviso: alcuni comuni non ci sono voluti entrare e hanno fatto una campagna molto forte contro. La cosa che mi ha colpito che a far la campagna contro erano due giovani sindache, mi sarei aspettato che una generazione più giovane della mia, in particolare donne, avesse una maggiore sensibilità su questi argomenti e invece sono contrarie.
Non credo però che quello lì fosse un avvertimento di tipo mafioso in senso stretto. Succede spesso coi lupi. In Toscana non c’è da aprire un nuovo parco, ma situazioni dello stesso tipo, cioè di lupi bracconati e poi lasciati impiccati, appesi, davanti alla sede di un comune, di un parco, davanti alla forestale, oppure su un guard rail ogni tanto succede. Non credo fosse un avvertimento di tipo mafioso, anche perché – e la gente del posto lo sa – non si tratta di allargare un parco, si tratta di fare una ristrutturazione di tipo amministrativo, il parco resta così com’è, da due enti diventano uno. Qui è già stato fatto: di quattro parchi, Avigliana, Orsiera, Val Troncea e Salbertrand che avevano ognuno il proprio consiglio di amministrazione ne è stato fatto uno solo, ma i dipendenti, la palinatura dei confini, le azioni sul territorio sono rimaste esattamente le stesse. Invece di quattro presidenti ce n’è uno solo.
Alpinismo Molotov: Quindi era interessato il tono del giornalista.
Luca Giunti: Lo dico senza critica, il lupo più di altri animali ha un incredibile impatto sul nostro immaginario collettivo. Se io sono un articolista e scrivo lupo nel titolo avrò più visualizzazioni. Magari non avrò tutti like, ma i contatti sono tanti. Posso mettere lupo nel titolo e poi mettere qualcos’altro nell’articolo, ma l’importante è che ci sia lupo nel titolo. Il giornalista non è quello che racconta le notizie, ma quello che se può provoca un po’ di discussione. Costruisco un dibattito che magari non ci sarebbe stato.
Il lupo è un animale conflittuale, non è pacifico, né pacificatore, è uno che arriva e mette in discussione. La cosa che intriga me è che non mette in discussione solo il pastore, mette in discussione anche l’ambientalista, anche il verde. Io poi non mi considero né l’uno né l’altro, mi considero uno che di mestiere fa il guardaparco. Per dire, posso pensare che la caccia non sia una cosa buona, mi piacerebbe pensare che venisse regolata in un altro modo, però è una legge dello Stato, lo Stato ha stabilito che la selvaggina è patrimonio indisponibile, per cui tu la selvaggina non la tocchi, te la rende disponibile a certe condizioni, una di queste condizioni è la legge sulla caccia. È chiaro che ognuno di noi ha una sua posizione da cittadino, ma nel mio mestiere c’è una legge, un regolamento, tu lo rispetti, io verifico che lo rispetti e ho finito. Del fatto che a me piaccia o non piaccia andare a caccia è indipendente e sta su un altro livello. Quindi che a me piaccia il lupo sta su un altro livello rispetto al fatto che come mestiere devo andare in giro a raccontare cose sul lupo, spiegare alcuni aspetti normativi e fare ricerca. Faccio ricerca anche sul gambero di fiume, ma nessuno mi chiede di fare una conferenza sul gambero di fiume, anche se a me piacerebbe tantissimo. Il lupo tira, non c’è scampo, ed è un animale conflittuale. A me piace che sia un animale conflittuale perché costringe tutti a ripensare come si sta in montagna, quali sono i nostri rapporti, a guardarci dentro e domandarci che tipo di rapporto vogliamo avere con la natura.
Noi oggi nella “questione lupo”, dal punto di vista storico, abbiamo davanti un’occasione che non si è ancora verificata nella storia dell’umanità: abbiamo le conoscenze scientifiche e le competenze sociali e politiche per trovare una strada per convivere, bisogna vedere se troviamo la volontà. Convivere non vuol dire che andiamo d’amore e d’accordo. Io convivo con il mio vicino di casa, anche se ogni tanto fa delle cose che non mi piacciono, però ci diciamo buongiorno e buonasera. Mi dà un po’ fastidio questa cosa per cui debba essere tutto buono…
Alpinismo Molotov: … privo di asperità…
Luca Giunti: Siamo pieni di asperità. La maturità, l’adultità, la responsabilità è conviverci, cercare di superare, tenerla al livello giusto. Ci sono delle asperità, ma il mondo va avanti su un altro livello. Ci sono più punti di contatto alti che asperità basse, vediamo di incontrarci, poi studiamo le asperità e vediamo di conviverci. In questi anni siamo in una situazione storica eccezionale. Nei secoli passati era o lupo o presenza umana sul territorio, tertium non datur. C’erano dei momenti di sovrapposizione, ma presenza umana diffusa e capillare sulle colline, le montagne e sul territorio significava riduzione degli orsi, dei puma, delle tigri. La realtà è speculare ovunque sia. Tutti noi vorremo proteggere la tigre, ce ne sono pochissimi esemplari al mondo. Un conto è se ne ragioniamo io e te qua, ma prova ad andare in India dove ogni tanto la tigre entra nei villaggi e si mangia un paio di bambini. È difficile dire a quella mamma lì: dai, proteggiamo la tigre.
Anche gli elefanti fanno un sacco di danni, ammazza delle persone, ma dell’elefante noi abbiamo un’idea di bellezza. Il rapporto con la natura non è così disneyano come spesso si crede. Nella questione specifica del lupo, con tutto quello che sappiamo oggi sulla sua biologia e la sua storia, con tutto quello che sappiamo oggi sulle tecniche che ci possono aiutare a ridurre il conflitto, cioè ridurre la sua predazione sulle pecore, che è certamente una cosa costosa (la società tira fuori quattrini), prima di tutto in termini di tempo, perché da un controllo di un paio d’ore, passi a un controllo 24 ore su 24, perché sennò in quell’ora che le lasci libere viene il lupo. È costoso, disagevole, scomodo, una rottura di scatole – a nessuno di noi piace cambiare le sue abitudini – nessuno lo mette in discussione, ma sappiamo come fare a ridurre quel tipo di conflitto, abbiamo la conoscenza. Quello che secondo noi ci manca è la volontà politica (nel senso greco del termine) da parte di tutte le categorie di fare un passo in avanti per mettere in pratica questo tipo di conoscenze. Se l’obiettivo è quello di ridurre i conflitti e migliorare la convivenza siamo a un livello più alto, io la vedo così, e quindi tendo lì. Poi se lungo il cammino ho delle asperità le supero, ma non mi ci fermo se il mio obiettivo è andare lassù.
Alpinismo Molotov: Sì, l’esperienza del movimento No Tav secondo me è questo.
Luca Giunti: Sì, io ci vedo una quantità enorme di analogie.
Alpinismo Molotov: Se guardi anche solo la composizione politica, sociale delle persone che fanno parte del movimento, uno si chiede come possono andare insieme i Cattolici per la vita della valle e gli anarchici? Dopodiché è il fatto di posizionare il traguardo su un livello più alto che fa sì che si possa percorrere il cammino insieme.
Luca Giunti: È interessante quello che tu dici, le prospettive che aprono questo tipo di ragionamenti. Una delle cose che secondo me, guardando il movimento No Tav, aiuta a tenere lassù il livello e a superare le asperità è che la storia è lunga e negli anni le persone si sono conosciute, hanno avuto la possibilità di incontrarsi in tante occasioni di tutti i tipi e si è costruita una forma di rispetto reciproco e di autorevolezza, quindi si abbassa tantissimo il rischio che quando io dico una cosa tu stia pensando che io in realtà ne penso un’altra. Abbiamo avuto un percorso comune nel quale siamo stati reciprocamente testati. Questo percorso nel caso del lupo non c’è, non è ancora stato fatto.
Quando io faccio un certo tipo di affermazioni sul numero dei lupi, l’interlocutore di là crede che io abbia delle altre informazioni e non le voglia dire, che racconto delle bugie. I dati ci dicono che in Italia i lupi sono circa duemila. Tanta gente è convinta che siano molti di più e che noi lo sappiamo e non lo vogliamo dire. Quando saranno passati i 25 anni del movimento No Tav, ci saranno state molte più occasioni di fare dei percorsi insieme e quindi, pur partendo da differenti posizioni, c’è una forma non dico di rispetto, ma di riconoscimento, magari facciamo un passo in avanti.
Faccio un altro paragone. Te lo dico partendo da chi mi ha fatto fare questo pensiero ormai tantissimi anni fa: sono stati dei bambini. Progetto con una scuola elementare, iniziano le storie sul ritorno dei lupi. Io faccio tutto il discorsino: i lupi sono stati sterminati, mancavano gli habitat, mancavano le prede, qualcuno li ammazzava direttamente. Un bambino alza la mano e dice: “Maestra, ma allora è come con i curdi”.
Era il 2000 o il 2002. Mascella che cade di tutti gli adulti. Lui dice: “Maestra, lei ha detto che scappano perché c’è chi gli distrugge la casa, l’habitat, non hanno più niente da mangiare e qualcuno gli spara”. Cacchio. I lupi sono come i curdi, come i richiedenti asilo. Questa cosa del lupo come profugo io da allora ce l’ho lì fra i miei pallini. I lupi vengono affrontati culturalmente e intellettualmente spesso con le stesse categorie con le quali affrontiamo i profughi, i migranti. Nessuno di loro se ne sarebbe andato dalle Alpi se non lo avessimo ammazzato noi, se non gli avessi tolto le prede, distrutto la casa, cioè l’habitat. E tutti loro una volta che hanno delle occasioni perché pensano di avere un destino migliore da un’altra parte se ne vanno. Pensano di avere un territorio più bello di quello dove sono e di trovare un compagno o una compagna con cui mettere su famiglia.
Alpinismo Molotov: Ci sta.
Luca Giunti: Alcuni soggetti come quelli di ieri sera, [la sera precedente, durante una conferenza sul lupo al rifugio Selleries, Luca aveva avuto uno scambio acceso con dei pastori (N.d.R.)] con i quali capita di interagire quando parli del lupo, se guardi bene, ti accorgi che hanno un atteggiamento che spesso potresti togliere la parola lupo e sostituirla con il sinonimo, anche se non è un sinonimo, clandestino. Siamo pieni di clandestini, siamo pieni di lupi.
Finché il clandestino, il profugo, il migrante se ne sta in Siria, magari mi chiede una colletta… oppure Emergency mi dice che apre laggiù un ospedale e mi chiede 50 euro, io gliele do volentieri. Il problema è quando il clandestino viene qua e mi rompe le palle qua e mi disturba la mia comodità qua, questo è il punto. Il lupo è uguale: finché se ne sta là a mangiare i caprioli va bene, ma se li mangia qui è diverso. Io esco al mattino presto e trovo un capriolo sbranato davanti casa e mi impressiono. Quello che conta è la mia impressione non il fatto. Non me lo far vedere. Perché negli ultimi periodi diventa così importante una fotografia? Nelle ultime settimane è stata pompata tantissimo la foto di uno o due bambini polverosi e sanguinanti tirati fuori dalle macerie di un bombardamento ad Aleppo. Io sono un fotografo, come sai, e dò un occhio all’efficacia di queste immagini. Sono efficacissime: prendono quella realtà e me la sbattono davanti.
Lupi e clandestini, lupi e profughi vengono affrontati con lo stesso atteggiamento, secondo me. A me piacciono perché mi mettono in crisi. Profughi e lupi: arrivano e ti mettono in discussione. Ti mettono davanti uno specchio e ti chiedono dov’è il tuo ambientalismo? La tua apertura al resto del mondo? Se la tua vita borghese, occidentale, viene così facilmente disturbata da un piccolo aspetto.
Io mi trovo a essere influenzato dalla mia storia, come tutti. Sono genovese, sono nato al mare, ho imparato a nuotare prima che a camminare. Mio nonno, come tutti i nonni: ciuf, ah sì, tanto nuota. All’epoca avevo due o tre anni e non capivo, ma appena ho cominciato a capire e si gironzolava in barca, con una barchetta, a 50 metri da riva, mio nonno ha detto: se c’è qualcuno in acqua che ti chiama e ha bisogno di aiuto ci vai. La gente di mare questa cosa ce l’ha attaccata ai peli: Vai, lo tiri su, lo aiuti, gli dai una mano. Primo: li salviamo, li mettiamo in condizione, poi discutiamo delle asperità, ma prima li portiamo qua, sennò ci dichiariamo reciprocamente che non siamo esseri umani. Si può fare. Cerchiamo di essere coerenti. Andiamo a votare no al referendum sulla costituzione perché la costituzione ci piace tanto? Ci sono scritte delle cose nella costituzione che sarebbe carino mettere in pratica, non solo dire “ah che bello”.
Alpinismo Molotov: Può essere che le persone che sono contrarie alla salvaguardia del lupo, oltre a un pericolo nell’immediato vedano un pericolo nel futuro: c’è il rischio che i lupi diventino troppi?
Luca Giunti: No. Non esiste in campo scientifico, in campo naturalistico, la possibilità che i predatori diventino troppi. Le aquile non possono mai diventare più delle marmotte. Gli squali non possono essere più dei tonni e i tonni non possono essere più delle sardine. Se stiamo parlando in linea teorica, esiste la possibilità che i lupi che sono naturalmente predisposti a essere flessibili, adattabili, possano raggiungere livelli numerici più significativi di quelli che abbiamo adesso e magari riuscire a sostenersi non solo con le prede selvatiche e qualche domestico, ma ad esempio anche con le discariche umane. Lo dico non perché me lo sto sognando, ma perché è stato documentato in altre nazioni, ai bordi dell’Europa. Ma questo succede anche con i grifoni. I grifoni sono ormai ragionevolmente frequenti come avvistamento in valle, i primi che abbiamo trovato che erano individui un po’ dispersi, un po’ strani, li abbiamo trovati sulla discarica di Mattie. Che il numero di lupi possa diventare altissimo non può essere una prospettiva né a medio, né a breve, né probabilmente a lungo periodo.
Quello di cui secondo me dobbiamo renderci conto è che il territorio italiano lo abbiamo fatto trasformare in un territorio per gran parte selvaggio, quasi wilderness. Abbastanza sulle Alpi, tantissimo sugli Appennini. Tutto l’appennino ha raggiunto dei livelli di selvaticità insospettabili cinquanta anni fa.
Negli ultimi anni ha avuto un po’ di successo il trekking, l’andare a piedi, in particolare sulle vie francigene. Molte di queste vie francigene che dovevano finire a Roma scavalcavano l’appennino con selciati e ponti, ma un sacco di gente che si azzarda a farlo, se non è passato qualcuno prima a pulire, ti dice che puoi fare anche quaranta chilometri senza incontrare nessuno e rischiando di perderti perché sono crollati alberi. L’altro elemento che bisogna capire è che ovunque in questo universo, con le regole assegnate a questo universo, la natura non ha mai vuoti e se tu lasci uno spazio, la natura lo riempie. Non lo riempirà con le cose che piacciono a te, ma con quelle piacciono a lei. Abbiamo abbandonato le coltivazioni nelle montagne, le prime cose che arrivano dopo sono cose che a noi non piacciono: le runse (rovi, in piemontese). La natura non lo lascia il vuoto, arrivano le runse. Il naturalista o il botanico ti diranno che è solo questione di tempo. Dopo le runse arriveranno due betulle e qualche frassino, però ci vorranno almeno 15 anni, poi, dopo le betulle e i frassini, arriverà qualche faggio, ma ci vorranno 50 anni e, fra un secolo e mezzo, se non facciamo niente, probabilmente l’ambiente circostante sarà uguale a quello che c’era prima che arrivassero i primi coloni a segare gli alberi.
La natura se li va ad occupare gli spazi, non resta inoperosa. Occupa degli spazi pazzeschi: pensate alle piante che crescono in mezzo al cemento, alle aiuole, le radici che spaccano i marciapiedi. Noi costruiamo delle gabbie pazzesche, ma la natura esce fuori lo stesso, ci mette del tempo, fa cose che non ci piacciono, ma arriva. L’unica alternativa è che quello spazio lo occupiamo noi. L’avevamo occupato fino a sessant’anni fa, l’abbiamo lasciato libero e lo occupa qualcun altro. Frassini, caprioli, lupi. Ieri sera uno di questi con i quali un po’ si discuteva l’ha data come prospettiva sicura. Lui dice che siccome viviamo in un tempo di assoluta crisi, la gente torna sulle montagne. Io gli ho detto: quando la gente tornerà sulle montagne, la condizione del lupo dovrà cambiare. Magari torneremo a sparargli e a ucciderli, magari gli mangeremo così tante prede che non avrà più prede, gli taglieremo così tanto il bosco che non avrà più casa dove stare e quindi ci ritroveremo nella situazione di un secolo fa. Forse succederà, io non lo vedrò, ma è possibile. I lupi in Italia sono duemila, ammettiamo che le cifre siano sbagliate per difetto e, anche fossero tremila, un errore del 50%, potranno al massimo diventare 4000, 5000, ma non possono diventare 50mila o cinquecentomila. Non sta nella natura delle cose. Poi trovo paradossale incentrarsi così sulle cifre: l’ISPRA, l’istituto nazionale per la protezione ambientale, certifica che ci sono 800mila cani vaganti in Italia. Io comincerei a preoccuparmi degli 800mila cani vaganti, poi occupiamoci dei duemila lupi.
Il lupo suscita conflitto. Io sono stufo di questa cosa che il lupo è tanto buonino, quello è Lupo De Lupis. Il lupo è uno stronzo per certi versi: mangia pecore, uccide i suoi consimili se appartengono a un altro branco e gli entrano in casa. Però questo è il mondo naturale. Funzionano così.
Alpinismo Molotov: Funzionano un po’ come noi.
Luca Giunti: Tantissimo come noi. Anche noi tendiamo ad ammazzare gente che ci entra in casa o comunque a guardarla con sospetto.
Alpinismo Molotov: Ha senso e ha un’utilità pratica tutelare il selvaggio?
Luca Giunti: Bella domanda. Anche lì c’è una sterminata letteratura della quale sicuramente io ne conosco solo una piccola parte. In realtà bisognerebbe rispondere con altre domande. Come lo vogliamo tutelare il selvaggio? Il selvaggio si tutela lasciando che rimanga selvaggio, lasciandolo là a evolversi in assenza di intervento umano. Anche questo è interessante, perché è una roba che mette in crisi. Faccio degli esempi pratici. Quasi tutti i parchi statunitensi, che hanno estensioni più grandi dei nostri, sono formati con delle zonizzazioni. Decidiamo che un’area è parco, ma il parco ha anche ragioni turistiche e ricreative e quindi lo facciamo a cerchi concentrici. La parte esterna è già parco, ma è il posto dove arrivano i turisti, ci sono i parcheggi, le rivendite dei souvenir, i bed & breakfast e ci arrivi in macchina. Poi facciamo una zona più interna dove ci sono sempre alcuni servizi per turisti, ma cominciamo a lasciare le macchine fuori, ci vai solo a piedi o in bici. Poi c’è una zona più interna che ha ancora i sentieri, ma non ha più strutture, se vuoi ci vai, ma al massimo ci campeggi, poi c’è una fascia dove non si entra e ci entrano esclusivamente ricercatori e guardaparco per ragioni scientifiche e infine un’altra centrale dove non entra nessuno, nemmeno per fare ricerca. Bella idea. Viene giù un fulmine e parte un incendio nella parte centrale: che cacchio facciamo? In quel contesto lì un incendio è un evento naturale. Lo andiamo a spegnere? Lo lasciamo partire? Ammazzerà animali, cambierà la struttura della vegetazione. Una parte dice: mi dispiace, è un pezzo di evoluzione naturale, cancellerà una parte della foresta, lascerà gli spazi per un altro tipo di foresta e, fra duecento anni, ritornerà lo stesso tipo di foresta. Qualcun altro ti dirà che lì in mezzo farà fuori gli scoiattoli, linci, bisonti e costringe una serie di cose a spostarsi, quindi sarà meglio limitarlo. Benissimo, posizione più che condivisibile, attenzione però, che quella selvaticità l’abbiamo persa.
È bello discutere della selvaticità, ma vuol dire creare aree dove l’intervento umano non c’è. Io e alcuni miei colleghi siamo convinti che basterebbe ridurre la quantità dei nostri interventi. Noi siamo homo faber, abbiamo una gran voglia di fare cose: questo fiume è disordinato, mettiamolo a posto. In realtà, dopo tanti anni che facciamo questo lavoro e seguiamo questo tipo di dinamiche ci accorgiamo che tante volte se non facessimo niente sarebbe meglio. Anzi, se lavorassimo per sottrarre sarebbe meglio. Se da qualche fiume togliessimo qualche insediamento umano sarebbe meglio.
Certo che vogliamo un ponte ogni cinque chilometri per non fare giri troppo lunghi, ma da un certo punto di vista è meglio togliere un ponte e fare un giro un po’ più lungo. Quella della selvaticità è un’idea occidentale, ottocentesca. Ci sono scritti di Thoreau, di Waldo Emerson. Il principio che informa la nascita dei parchi americani, al contrario dei nostri, è un principio di questo tipo: stiamo avendo degli impatti, dicono, isoliamo delle zone in cui non facciamo impatti per le future generazioni. Lasciamo lì, vedranno loro cosa fare. Ora l’ho semplificata, ma il principio è questo.
In Europa noi abbiamo un principio differente: in un dato territorio noi limitiamo gli interventi umani e proteggiamo qualche specie. Il primo parco nazionale italiano è il parco del Gran Paradiso e nasce per proteggere lo stambecco e deriva da una riserva di caccia del Re e quindi anche mentalmente, come imprinting, è una specie di riserva. Quindi sei un ospite che viene a godere di un bene che altrimenti ti sarebbe stato precluso, posso farti pagare un biglietto, come se tu pagassi un museo. L’altro aspetto è che per avere un briciolo di senso un’area wilderness deve avere un minimo di estensione abbastanza vasta e in Italia, se non proprio in Europa, queste estensioni non ce le abbiamo.
Oggi è considerata area wilderness il parco nazionale della Val Grande, in Piemonte. È considerata area wilderness perché è tornata da sé area wilderness. La Val Grande 150 anni fa era una qualsiasi valle alpina: abitata, lavorata. Ha subito uno spopolamento e un abbandono più forte rispetto ad altre zone, una ventina di anni fa qualcuno si è accorto che a furia di non farci niente era ritornata un’area wilderness. Nella tipologia del Parco Nazionale della Val Grande c’è proprio la parola wilderness e quindi il modello di gestione e di eventuale utilizzo, va in quella direzione lì: quindi riduco il numero dei turisti, non ci costruisco nessun tipo di rifugio dentro, altrimenti la mia idea di selvaticità va a farsi benedire. Ora faccio il provocatore: bell’idea, bellissima, io sono uno che ha delle proprietà in Val Grande, posso andare a tagliare la legna? No? Ma la costituzione tutela la proprietà privata, come la mettiamo? Mio bisnonno aveva lì due case e ci andava a caccia, posso andarci io? Questo tipo di ragionamenti a me piacciono molto, perché sono ragionamenti naturali. La natura non ha un equilibrio statico, la natura riformula continuamente l’equilibrio. È area wilderness? Sì, però… Faccio degli interventi? Sì, però… Facciamo un pezzettino e poi vediamo.
Sull’idea di selvaticità però ci sono anche degli altri addentellati: io devo essere pronto è aperto a vedere venire fuori da quella selvaticità qualsiasi cosa, anche delle cose che a me non piacciono. Devo essere pronto, se accolgo un profugo, ad accoglierlo al 100%, e magari non mi piace il suo dopobarba. Il dopobarba è una battuta. Ma gli odori contano tantissimo. Un sacco di persone che hanno vicini che arrivano da una tradizione diversa ti dice che se apre le finestre e sente quell’odore di robe da mangiare gli fa schifo. La cosa divertente è che i primi dagos, i primi italiani immigrati negli Stati Uniti, venivano accusati della stessa cosa dalla gente del posto, perché mettevamo le cipolle all’aperto.
Alpinismo Molotov: Ho condiviso per dieci anni il furgone con due rumeni e so perfettamente cosa sia l’aglio.
Luca Giunti: Ecco, quella era un’asperità, ma comunque facciamo delle cose insieme e quindi reciprocamente ci sopportiamo le puzze. Se da un’area wilderness escono cose che non ci piacciono? Robe antipatiche, sciami di vespe, zecche. La natura non è Walt Disney o almeno non solo, la natura ha cose che pungono, che mordono, che danno prurito: cosa faccio? Entro nell’area che ho dichiarato selvatica perché quel pezzettino della selvaticità non mi piace. Va bene, ma la selvaticità va a farsi benedire. O prendo tutto il pacchetto…
Alpinismo Molotov: Ok, ma oltre a essere una scelta politica l’idea di lasciare una zona selvatica, oltre a essere, come dicevi a proposito degli Stati Uniti, una possibilità che io lascio ai miei posteri, ha delle valenze pratiche? Se io mi tengo quella selvaticità, la mia vita, la società, il pianeta migliorano?
Luca Giunti: La risposta è sì, però devi fare la tara sul fatto che fai la domanda a una persona che alla natura ci ha dedicato la vita. Premesso che non vorrei fare un ragionamento esclusivamente pratico o economicista, però ci sta, anche qua ci sono fior di studi su quelli che vengono chiamati servizi ecosistemici, cioè quanto PIL, quanto servizio la natura ci dà. Sono calcoli, discutibilissimi, perché è una roba difficile da calcolare e ognuno dà un valore un po’ diverso all’ossigeno purificato, alle acque purificate. E poi c’è un altro tipo di servizio ecosistemico che è il riposo per gli occhi e per la mente che ci dà la natura. Guarda che bel contesto è questo, benché sia assolutamente artificiale, però abbiamo l’erba, l’ombra dei cedri, non saremmo così rilassati in una stanza di un carcere…
Alpinismo Molotov: o anche solo in ufficio con la luce al neon…
Luca Giunti: Esatto, e noi utilizziamo questo servizio ecosistemico senza nemmeno rendercene conto. Tra l’altro viviamo in un periodo di cambiamenti climatici, con il caldo che aumenta: la quantità di caldo che viene ridotta dal fatto di stare dentro un bosco e avere intorno un po’ di alberi è impressionante. Ci sono oltre 4 o 5 gradi di differenza. Tutti questi studi, pur cambiando i parametri, danno valori impressionanti. I servizi naturali valgono decine di volte il PIL mondiale. Ognuno ha le sue fisse. Io sono fissato con l’acqua. In questi giorni si parla di questo miriofillo che infesta il Po. C’è una cosa che non viene detta: quella pianta si trova bene nelle acque stagnanti. Allora c’è qualcosa che non funziona: il Po è un fiume, non è una pozza, se stagna vuol dire che ha poca acqua. I corsi d’acqua hanno un’incredibile capacità di autodepurarsi, purché tu gli lasci l’acqua dentro. Ci metteranno settimane o mesi, ma si autodepurano, l’acqua è un solvente eccezionale, basta che ce ne sia abbastanza. È vero che siamo nella stagione secca, ma il Po dovrebbe avere il triplo dell’acqua, il quadruplo, ma gliela abbiamo presa per un sacco di altre cose, se aprissimo le paratie una bella fetta di questa pianta infestante scomparirebbe. Il fiume rende svariati servizi ecosistemici.
C’è un altro aspetto che riguarda la selvaticità che viene continuamente citato quando si parla di difendere la biodiversità. A me non piace tanto, lo trovo un atteggiamento occidentale, utilitaristico, economicista, però la gran parte dei farmaci che noi conosciamo hanno derivazione di origine naturale. Il farmaco più venduto al mondo è l’aspirina, acido acetilsalicilico e deriva dalla corteccia del salice e lo sapevano già gli antichi che quando non stavano tanto bene masticavano striscioline di corteccia di salice. Noi ovviamente abbiamo cominciato a sintetizzarlo, ma il principio è del salice, una pianta comune. C’è un interessante filone di ricerca che conosco su una molecola che aiuta a combattere il cancro che viene dal tasso, taxus baccata. Molta comunità scientifica sostiene che una delle castronerie che facciamo quando soffochiamo la biodiversità e, soprattutto nelle zone tropicali, la uccidiamo senza conoscerla, è che ci precludiamo la possibilità di scoprire cose che ci servono.
È un atteggiamento che non mi piace perché è un atteggiamento di tipo utilitaristico, ma ammetto che esiste questa possibilità nel mondo degli insetti e nel mondo delle erbe, delle piante minori. Gli alberi più o meno li conosciamo tutti, ma delle piante, soprattutto le epifite, quelle che crescono sulla cima degli alberi, solo da qualche anno si è cominciato ad approfondirne la conoscenza. Se io sego la foresta amazzonica sego degli alberi che conosco, ma uccido anche tutto quello che hanno in cima e non l’ho ancora nemmeno studiato. Magari c’è una molecola che trasforma le pietre in oro lassù.
Il campo degli insetti è sterminato, si stima di conoscere circa un milione e mezzo di insetti diversi, il mondo scientifico pensa che almeno altrettanti e forse molti di più non li abbiamo nemmeno visti. Molti di loro sono continuamente studiati come metro di paragone. Alcuni amici del Politecnico dicono che la tela del ragno viene continuamente studiata. La capacità meccanica della tela del ragno è impressionante. Sarebbe bello produrla, ma non ci riusciamo. Il ragno fa una cosa ancora più bella, non solo la produce, ma quando ha finito se la risucchia dentro, smonta i pacchetti delle molecole e la tiene pronta per riutilizzarla. È come fare un ponte, far passare, poi smontarlo e avere le molecole pronte per un altro ponte.
Se parliamo di questo tipo di servizi, non serve un naturalista per capire che la natura ne produce una quantità enorme. Non dimentichiamo che tutto quello che mangiamo è natura. Poi c’è sopra tanta cultura, ma è un altro discorso, altrimenti mangeremmo pilloline. La pasta, che identifica la nostra cultura culinaria, è un prodotto naturale, la componente di origine è una spiga. Il riso, che sfama tre miliardi di persone, è una roba naturale. Ho una maglietta di cotone, la cintura di cuoio, sto fumando del tabacco seduto su una panca di legno. Stringi stringi dipendiamo dalla natura. Anche l’automobile va avanti grazie a un prodotto di origine naturale, sintetizzato finché vuoi, ma dentro c’è il carbonio bloccato qualche milione di anni fa da un servizio fatto dalla natura. Qualche milione di alberi hanno catturato il carbonio atmosferico e l’hanno piantato lì sotto. Quel legame lì l’ha inventato la natura, mica noi. Bisogna esserne consapevoli. Oggi, se non sei consapevole è colpa tua. I mezzi per informarsi ci sono.
Alpinismo Molotov: L’ultima domanda lupesca è: qual è la situazione del lupo in Val di Susa?
Luca Giunti: Ci sono tre branchi, bisogna usare con cautela questa parola perché uno pensa chissà che numeri, ma un branco è una famiglia. Un branco è nella zona di Bardonecchia e quindi il vallone di Rochemolles, la Valpelda, il vallone del Frejus, si infila nella Val Fredda, nella Valle di Fenils e sborda ogni tanto in Francia tra la Valle Stretta e il vallone del Nevache, viene a prendere di qua verso lo Chaberton, sia il versante italiano che quello francese.
I lupi hanno un territorio che possiamo stimare in quattrocento chilometri quadrati, un rettangolo di quaranta per dieci. Un po’ stanno qui, un po’ stanno lì, un giorno lo girano tutto, poi per tre giorni stanno fermi.
Un altro branco gravita nella zona del Gran Bosco di Salbertrand, ma va anche sul versante di fronte, Levi-Molinari, Grange della Valle, qualche volta sfiora i confini dell’altro branco. Lo Jaffreau, la Testa del Ban potrebbero essere considerati le aree di contatto fra i due branchi, ma va anche verso l’Assietta, il Gran Bosco, un pezzo di Sestriere. Poi ce n’è un altro basso fra Sant’Antonino e il vallone del Gravio e qualche volta si spinge fino al Col Bione e al colle Braida.
Ce n’è un altro che da qualche anno viene monitorato e che sta a cavallo della linea del Moncenisio che però non si capisce bene dove stia. Cio,è si capisce dove sta, ma c’è in mezzo un confine nazionale, al lupo dei confini non gliene frega niente. Bazzica un po’ di qua, un po’ di là, a volte sul Rocciamelone, vallone del Sevine.
La risposta quindi è: ci sono tre branchi più uno transfrontaliero. A parziale completamento della risposta di qualche minuto fa aggiungo che questi tre branchi sono qui da 25 anni. Ovviamente non con gli stessi componenti. Il branco di Bardonecchia diversi anni fa ha avuto una femmina bravissima dal punto di vista riproduttivo che ha fatto ogni anno diversi cuccioli, poi è morta e per qualche anno il branco non si è riprodotto, ora è ritornato a riprodursi. Però è dal 1995 che contiamo almeno una riproduzione l’anno di lupi in Valle di Susa e i branchi sono rimasti tre, non sono diventati cinque, dieci. La Val Susa ragionevolmente, come territorio, può tenere tre branchi, quattro con quello del Moncenisio, se dovessero stringersi forse arriviamo a cinque, ma non c’è spazio per altri branchi di lupi.
Alpinismo Molotov: Un lupo che muore di vecchiaia quanto vive?
Luca Giunti: Se tutto gli va bene, ma dev’essere un lupo o una lupa eccezionale e molto fortunato, vive 12 o 13 anni, è molto più probabile che muoia intorno agli 8 o 9 anni.
Alpinismo Molotov: Quanto incidono gli episodi di bracconaggio sulla mortalità dei lupi?
Luca Giunti: La risposta più corretta è che non lo sappiamo. Per definizione l’episodio di bracconaggio è un episodio nascosto. Abbiamo alcune stime supportate da osservazioni fatte in giro per il mondo, in Italia e in Piemonte. Si calcola che il 20% delle morti del lupo siano imputabili al bracconaggio, ci sono studiosi che si spingono al 25%. Poi c’è un altro 20%, e quindi si arriva al 40%, che è imputabile sempre a cause umane e sono gli incidenti.
In Val Susa più che da altre parti, in particolare in una zona che si chiama Serre la voute che vuol dire stretto. Lì ci passano autostrada, ferrovia e statale e non dimentichiamoci che ci passa un fiume (in realtà bisognerebbe dire, ci passa il fiume e poi tutto il resto) e lì la valle si stringe. In inverno, quando le prede scendono perché in quota c’è la neve, su quelle strade lì si concentrano un bel po’ di animali selvatici e non solo lupi. La Val Susa conta una settantina di incidenti all’anno contro ungulati selvatici. Per fortuna sono sempre piccoli incidenti, certo fan girare le scatole, perché sono duemila euro di danni alla macchina quando becchi un cinghiale o un cervo. Dentro questo numero c’è anche un certo numero di investimenti di lupi. Esiste una teoria, che non è ancora confermata, secondo la quale almeno una parte di questi investimenti forse sono dovuti al fatto che gli animali erano stati avvelenati, e quindi, intossicati e un po’ ubriachi, non erano in grado di reagire prontamente all’avvicinarsi di un mezzo, ma non è una teoria provata, è plausibile, ma non abbiamo le prove. Da qualche anno, anche per il progetto Life WolfAlps si è focalizzato l’aspetto legato al bracconaggio e in particolare alle esche avvelenate e quindi anche se si trova un animale investito dall’automobile gli si fa l’esame tossicologico.
Alpinismo Molotov: L’avvelenamento incide di più del bracconaggio con armi da fuoco?
Luca Giunti: Possiamo fare delle stime con ampi margini di errore perché un lupo ucciso a fucilate non lo troviamo proprio. Se il cacciatore lo uccide, se lo porta anche a casa perché magari gli fa piacere appenderselo, ma poi lo deve tenere nascosto. Se invece gli spara e lo ferisce, magari il lupo va a morire chissà dove e nessuno lo trova più. I numeri in questo settore hanno margini di incertezza altissimo. In realtà, comunque, si ritiene che dei tre fattori di bracconaggio (trappole, bocconi avvelenati e fucilate) le trappole siano la parte meno significativa, l’avvelenamento ha un po’ di ripresa, ma l’elemento che incide di più sono le fucilate.
Alpinismo Molotov: Secondo te come andrebbe regolamentata la caccia?
Luca Giunti: Oggigiorno sul lupo non ci sono gli elementi per aprire la caccia, neanche abbattimenti mirati. Non perché sia contrario in linea di principio o ideologicamente, ma perché chi l’ha fatto ha dimostrato che è inefficace, costosissimo e a volte controproducente. Se io voglio asportare un branco di lupi o ridurre il suo effetto sui domestici dovrei essere molto sicuro di ammazzare i giovani e non gli adulti. Questo pone un problema: già è difficile andare a trovare un lupo, poi vederlo e riconoscere se è un giovane o un adulto è un casino, magari sto fuori una settimana e il primo lupo che vedo gli sparo. Nei casi in cui si è fatta una cosa di questo tipo si è visto che uccidendo un adulto, che è quello che porta un po’ di ordine e disciplina nel branco, gli altri, senza ordine e disciplina, per mangiare si sono rivolti alle prede più facili, cioè alle pecore e quindi si è aumentato il danno invece che diminuirlo. Oggi non ci sono i numeri, il lupo dovrebbe diventare molto più numericamente elevato e dovrebbe fare molti più danni. Ma se il territorio della Val Susa ha tre branchi e io asporto un branco a Bardonecchia non pensiamo di aver risolto il problema: nel giro di tre o quattro anni torna un branco a Bardonecchia.
Se un domani si arrivasse a un punto in cui bisogna sparare ai lupi, io credo che dovremmo farlo noi, l’ente pubblico che si è speso per la protezione del lupo. Questo è il mio punto di vista. La prima ragione è che non avendo la mentalità del cacciatore non mi interesserebbe tirare giù un esemplare che non sia quello che abbiamo deciso di tirare giù. La seconda ragione è politica, se tu sei l’ente che negli anni si è speso nella protezione del lupo, devi fare vedere che ti occupi anche dei problemi, devi prendere tutto il pacchetto. Non puoi fare le cose belle e quando c’è un problema chiamare il killer esterno. Fai vedere che ti dispiace, ma lo fai. Non credo però che succederà nell’arco della mia vita lavorativa.
Il piano nazionale sul lupo è lungo 150 pagine e la parte che si occupa delle deroghe sull’uccisione del lupo è mezza pagina. Chi vuole lo trova sul sito del ministero dell’ambiente, se lo studia tutto e poi discutiamo. Nonostante se ne parli non la vedo come una prospettiva concreta. La deroga è l’ultimo passaggio di una serie di passaggi che devono essere realizzati prima di arrivare lì. Questi passaggi sono impegnativi e lunghi da realizzare. Monitorare per esempio, bisogna conoscere per bene la popolazione dei lupi.
Questo è importante da dire, il Piemonte sta bene dal punto di vista della conoscenza del lupo, da anni un nucleo di persone professioniste ci lavora. Abbiamo un po’ di margine di errore, ma abbiamo informazioni buone. La stessa cosa c’è in Toscana, in Emilia. In altre regioni si è lontani da questo livello di conoscenza. Nell’ultimo articolo scientifico pubblicato dividono le popolazioni italiane in appenninica e alpina. Di quella alpina danno un range di numero in una forchetta abbastanza ristretta, ma in quella appenninica la forchetta è amplissima: fra 1100 e 1700 lupi. Uno dice: come è possibile che con tutti i soldi che diamo a questi ricercatori siano così imprecisi? Il fatto è che l’appennino tocca diverse regioni e alcune regioni hanno una bella mole di dati e altre no. Il piano di azione nazionale di gestione dice che, per gestire, per prima cosa bisogna conoscere. Una forchetta di 600 su un valore di 1700 è troppo ampia, ma per conoscere qualcosa sui lupi in una regione in cui se ne sa poco ci vogliono quattro o cinque anni. Contrasto al bracconaggio? Ci vuole tempo. Interventi di mitigazione? Reti, cani da guardia e rimborsi? È di nuovo un’azione che richiede quattro o cinque anni.
A valle di tutto questo, se in un posto molto localizzato, non a caso in giro per l’Italia, all’Alpe Tour sopra il Moncenisio (non in tutto il vallone del Moncenisio, non in tutta la Val Susa) se proprio quell’alpe lì dovesse avere un problema di cronicità di attacchi del lupo, prendiamo in considerazione l’idea di andare a intervenire lì. Da qui ad andare in giro ad ammazzare i lupi ce ne corre.
Di questo dobbiamo parlare, se siamo seri. Il politico che va in un’assemblea di allevatori e dice “la regione si impegnerà per aprire la caccia al lupo”, mente sapendo di mentire. Non è nel suo potere e quando anche si potesse fare, si dovrebbero fare talmente tante cose prima che forse lo realizzerà l’assessore di due legislature dopo.
Bussoleno, 28 agosto 2016
La foto presenti nel post sono di Luca Giunti.
Il lupo è un clandestino. Intervista a Luca Giunti su #AlpinismoMolotov, seconda parte - Giap
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[…] la prima puntata, su Alpinismo Molotov prosegue la più articolata e sorprendente riflessione sui lupi che possa capitarvi di […]
La dea del sicomoro
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A me piacerebbe tantissimo leggere qui una intervista sul gambero di fiume, un animale misteriosissimo che non ho mai visto. Credevo fosse “stato estinto” come il lupo, ma per mangiarlo, non per impedire che mangiasse le pecore e talvolta i pastorelli. Per la prima volta dopo decenni di rappresentazioni del lupo vittima, del lupo buono perseguitato dagli umani cattivi, o del lupo bello perché bandito, dannato e maledetto, qui si legge che il lupo è stato e può diventare anche un pericolo per gli uomini a determinate condizioni e non necessariamente quelle di proteggere i propri cuccioli in un malaugurato caso, come l’orsa di Pinzolo, ma proprio per abitudine predatoria dell’animale in sé. Mi sembra un atteggiamento raro e onesto e penso quindi che sarebbe assai interessante anche un pezzo sui gamberi di fiume.
La dea del sicomoro
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Mi pare che l’uso delle discariche da parte dei lupi sia stato documentato per l’Abruzzo da Boitani negli anni’70-’80. Dove vivo, una grande città, i gabbiani hanno pare scoperto il ristorante dell’immondizia e e si sono trasferiti in massa, benché non ci sia il mare. Han fatto fuori una serie di altri uccelli più piccoli che si erano insediati prima. Una cosa mai vista.
Un’altra cosa che sarebbe appassionante approfondire è quella della lana classificata come rifiuto e degli alpeggi. Oggi i negozi propongono soltanto vestiti di poliestere e scarpe di gomma, entrambi sgradevoli. Probabilmente raccogliere cuoio e lana dispersi in mille piccoli luoghi lontani tra loro è considerato troppo costoso rispetto a lavorare scarti del petrolio come le fibre sintetiche di cui ci si può approvvigionare in pianura da pochi grandi luoghi di raccolta. Eppure ciò che viene costruito dalla natura è in genere meravigliosamente adatto a svolgere il suo ruolo, ad esempio tenere caldo o isolare dall’esterno un organismo vivente.
Certo conoscere può servire ad elaborare un migliore piano di incontro, purché gli interessi non siano troppo confliggenti. Difficile ad esempio, tra piccoli allevatori alpini e grandi produttori di pianura, cioè là dove le forze economiche cominciano a diventare davvero grandi – poi magari quegli allevatori sono fornitori della grande industria che è generalmente il destinatario privilegiato dei benemeriti “fondi UE”.
Rimangono zone risicate ai margini, lupesche, direbbe l’articolo, e non si sa se e come potranno davvero durare, né a quali condizioni.
La dea del sicomoro
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In conclusione una domanda: in seguito a quale situazione sia pure ipotetica potrebbe essere necessario abbattere dei lupi? Certo sarebbe giusto che se ne occupasse l’ente pubblico. Ma la ragione sarebbe? Un’epidemia? Un’aggressione, o parecchie? O cosa?
LUPARO
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Nei primi anni 90 nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio Molise avvenne da parte di un ” lupo confidente ” fuggito dall’area faunistica di Civitella Alfedena l’aggressione ad un bambino, il giorno stesso fu abbattuto l’esemplare da un guardaparco,la decisione presa dall’epoca direttore Prof Franco Tassi, fu immediata e senza dubbi: l’animale che attacca l’uomo, per tutela della specie stessa (in questo caso il lupo) va abbattuto. Nonostante nel PNALM il numero di lupi è fortunatamente alto ed i branchi sono molto consistenti, non sono mai stati registrati altri casi di aggressione ad esseri umani. Come è ben scritto da Luca Giunti nell’articolo sopracitato, se si crea un buco la natura lo riempie con quello che essa preferisce, se io elimino un branco, un altro prenderà il suo posto.
Quindi l’idea dell’abbattimento selettivo serve solo per placare gli animi di allevatori ottusi ed ipocriti. Io vivo con allevatori caprini, ovini e bovini montani, sono negli appennini e vi assicuro che da noi i lupi fanno danno, ma non esistono quasi ungulati a parte i cinghiali, preda molto scomoda per il lupo, ed ancora come spesso accade sulle Alpi, il pascolo diurno non è custodito o peggio custodito da cani di ogni forma e dimensione, ma completamente inadatti alla difesa del bestiame.
Si vuole tamponare a basso costo il problema lupo? Benissimo, che si reintroducano i sistemi atavici di pastorizia, che in primis comprende l’uso del PASTORE ABRUZZESE come cane da guardiana affiancato da cani di piccola taglia (i cani d’allerta), se i Sanniti millenni fa svilupparono questo tipo di cane era per i seguenti motivi: È BIANCO tutto ciò che è bianco e che si muove nel gregge va bene, tutto ciò che non è bianco e si muove è PERICOLO, la velocità di controllo nella pastorizia è basilare, sono cani oltremodo devoti al proprio branco, hanno innato il senso del controllo, non troverete mai PASTORI ABRUZZESI avere lo sguardo non rivolto al gregge, non sono cani di attacco ma da DIFESA strutturalmente molto voluminosi e dal passo a sobbalzo con coda spumeggiante e l’abbaio chiaro e forte, sono l’opposto del lupo, ma così deve essere, non devono attaccare ma FARSI NOTARE, si deve capire che sono lì, che il gregge non è solo, che non attaccheranno ma daranno battaglia se attaccati.
Nel 1992 il Prof. Tassi, promosse il progetto ARMA BIANCA, bellissimo simbolo del progetto un Tao creato da due figure: un lupo ed un Pastore Abruzzese.
Il vero problema è che l’uomo dimentica il passato troppo velocemente, questa carenza di memoria storica è drammatica, invece di custodire con gelosia le memorie del passato,le cancelliamo ed ogni volta ripartiamo da zero con tutti i costi e le difficoltà del caso.
La dea del sicomoro
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Segnalo questo articolo da un blog francese: i lupi, in aumento anche in Francia, sarebbero ormai presenti nei dintorni di Parigi. L’ente ufficialmente addetto al monitoraggio nega che la presenza sia certa, ma le aggressioni al bestiame sono in aumento ovunque e se fosse riconosciuta la responsabilità del lupo sarebbe necessario rimborsare gli allevatori.
Sbatti l'orso in prima pagina - GognaBlog
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[…] in passato scritto attorno a Le conseguenze del ritorno, titolo di un saggio di Luca Giunti che si occupa della ricomparsa di quest’altro predatore nell’arco alpino, dopo che ha risalito […]