Per coloro che sono sempre alla ricerca di letture incentrate su montagne e conflitto, di storie che raccontino il vivere contemporaneo sui monti così come la memoria di cosa abbia significato farlo nel passato, un punto di riferimento è certamente rappresentato dalla rivista Nunatak. Pubblicazione autoprodotta che circola nelle reti di distribuzione alternative, il primo numero di Nunatak è stato pubblicato nell’inverno del 2006, arrivando con la pubblicazione dell’edizione della primavera appena trascorsa a inaugurare il corso del suo nuovo decennio. Nell’editoriale del primo numero così veniva presentato il punto di vista da cui si sarebbe poi sviluppato il lungo percorso di ricerca all’interno delle pagine della rivista:
Siamo convinti che la montagna sia una zona di “confine” dove ancora è possibile trovare accoglienza e sviluppare quel conflitto necessario per svincolarsi dal dominio e dal cosiddetto “progresso” che hanno trasformato le nostre vallate, distrutto le nostre culture, imposto brutture e disastri in nome del turismo e della merce (magari per il prestigio effimero di accogliere le Olimpiadi Invernali, o vedere una valle tagliata in due da un treno “altamente veloce”), consapevoli però del fatto che anche qui, in qualche modo, ci si può imbattere in meccanismi di consumo, di produzione e di profitto. Anche qui prospera il patriarcato, il razzismo e l’intolleranza. Anche qui pervade la mentalità del lavoro come unico fine della propria esistenza e tante altre caratteristiche negative della nostra società.
Non si tratta qui di essere pienamente in sintonia e d’assumere in toto questa visione, ma di coglierne la ricchezza in un panorama culturale in cui il dibattito intorno ai temi della montagna tende all’appiattimento. Per questo, consideriamo Nunatak un’esperienza importante che ci auguriamo possa continuare ancora a lungo il cammino intrapreso. Al collettivo di Nunatak abbiamo chiesto di poter pubblicare su Alpinismo Molotov l’editoriale del numero 42, il primo superata la soglia dei dieci anni, ché ci è parso al contempo prendere atto della strada fin qui percorsa e rilanciare il percorso di ricerca che ha fatto di Nunatak un punto di riferimento per molte e molti di noi.
Per chi ancora non la conoscesse, Nunatak si può richiedere inviando un’e-mail all’indirizzo nunatak@autistici.org, mentre a questo link è possibile scaricare liberamente tutti i numeri pubblicati dall’inverno 2006 all’inverno 2014.
Editoriale
Dieci anni fa iniziava il cammino di Nunatak. Tra salite e discese, slanci e frenate, siamo ancora in marcia: nonostante tutto, questo possiamo dirlo, non ci siamo fermati mai. A dieci anni dalla partenza, cogliamo l’occasione per lanciare uno sguardo di ricognizione. Come quando, sul sentiero, si raggiunge una sommità, un colle, o un semplice tornante panoramico, e ci si ferma giusto il tempo di uno sguardo d’insieme su ciò che ci circonda, oltre che sul percorso fatto e su quello che resta da fare. Uno sguardo che è anche occasione per riepilogare, e ravvivare, le ragioni che ci hanno spinto a intraprendere il viaggio. E queste, per quanto riguarda Nunatak, sono scritte nel suo nome, che richiama la montagna come spazio di resistenza, spazio di rifugio vitale. Un rifugio che non ha nulla della fuga, quanto della retrovia in cui si conservano e rifocillano le forze necessarie al contrattacco. Luogo in cui sperimentare spazi di libertà e autonomia, per dilagare a valle contro i signori della piana, per moltiplicare quelle “embrionali forme viventi” che, con il ritiro della “glaciazione”, ripopoleranno il pianeta.
È con negli occhi questa prospettiva che rivolgiamo lo sguardo verso Occidente, oltre quella linea di frontiera che la nascita degli Stati nazione, Italia e Francia, ha tracciato sullo spartiacque delle nostre montagne, dividendo comunità un tempo unite, oltre che dal territorio, dalla stessa lingua, cultura, legami famigliari, rapporti di scambio ecc.
E ciò che scorgiamo oggi “oltrefrontiera” non può che rallegrarci: nuovi fratelli e sorelle si incamminano sui sentieri della montagna libera, ribelle e nemica di ogni frontiera, con in mano un nuovo “Nunatak” in lingua francese. Non si tratta, come è giusto che sia, di una semplice versione francese della rivista, ma di un progetto autonomo, nato dall’incontro della nostra redazione con compagni e compagne che su altri territori condividono gli stessi bisogni e le stesse pulsioni, ma calibrati sulle specificità dei luoghi in cui vivono. In questi anni di ricerca, di discussione e di confronto sulle vecchie e nuove traiettorie della resistenza sulle montagne del mondo, abbiamo continuato a elaborare ipotesi, a scoprire radici e affinità vicine e lontane, a cercare chi come noi pensa che sia possibile combattere la “società della merce e dell’autorità”. Il fatto che nelle terre di gloriose resistenze, dai Pirenei alle Cevennes alle Alpi “francesi”, germogli questo progetto, oltre a dirci che non siamo soli e a consentire l’intreccio di rapporti di reciproco aiuto, dimostra che i tempi sono maturi per tracciare nuovi, e speriamo fecondi, sentieri di libertà.
Anno dopo anno
s’allarga e cresce
la lotta per la libertà
nella mia terra
fra massacri ed agguati
intrecciati
amore e morte…
… ogni notte
un’irruzione
ogni notte
tintinnio di baionette
tonfi pesanti di stibali
sanno gl’indirizzi degli esuli
bruciate le case
cadute le pietre tombali
infranto il sonno dei figli
non resterà che un canto funebre
da cantare per ninna nanna
eppure si riaprono
ad ogni primavera
schiudono le corolle
lungo i pendii dei monti
sull’orlo dei crepacci
a grappoli fioriscono
torrenti di colori
sono i fiori del Newroz! [1]
Guardando verso Oriente, invece, vediamo incombere su tutto le fiamme che illuminano i monti del Kurdistan. È una fitta al cuore, non possiamo nasconderlo. Sono le fiamme degli incendi delle case e dei villaggi bruciati dall’esercito turco (spesso con elicotteri made in Italy). Non pochi tra noi hanno conosciuto quelle montagne e quei villaggi, ci sono passati o ci hanno vissuto, accolti come fratelli e sorelle. Oggi tanti di quei nostri fratelli e di quelle nostre sorelle sono là a combattere.
Tanti non ci sono più. Ciò di cui siamo certi è che non molleranno mai. C’è una rivoluzione in corso in Medio Oriente, una rivoluzione che parla di confederazioni tra popoli e di democrazie senza Stato, di autodifesa, di parità di genere e di abbattere le frontiere, innanzitutto quella tra l’uomo e la natura. Milioni di donne e uomini stanno combattendo, stanno morendo e vivendo per difendere questo esperimento rivoluzionario, assediati da tutti i lati, innanzitutto dalla complicità dell’Occidente, dei “nostri” governi democratici. Anche qui, se le fiamme che vediamo non sono solo quelle dello sterminio ma anche i fuochi dell’autodifesa e del contrattacco, lo dobbiamo alle montagne in cui la resistenza ha potuto rifugiarsi e riorganizzarsi prima di scendere a valle. Le centinaia di giovani che oggi, in Rojava (Siria) come in Bakur (Turchia), si organizzano in milizie di autodifesa popolare per proteggere e autogestire i propri quartieri e città, hanno alle spalle una forza materiale e un progetto politico di autorganizzazione che è stato elaborato, nutrito, sperimentato, sulle montagne in cui migliaia di attivisti e guerriglieri del PKK vivono – e combattono – da quarant’anni (a cavallo, anche qui, di frontiere artificiali).
Nel marzo di quest’anno, come ogni 21 marzo, queste fiamme si intrecceranno con i fuochi di Newroz. Il “Nuovo giorno”, solstizio di primavera, festa della vita che rinasce ciclicamente dopo la morte, in memoria di tutti i martiri che lottando – nelle carceri come sulle montagne – col loro sacrificio hanno permesso al popolo curdo di riacquistare la propria identità e dignità.
Un tempo anche le Alpi erano illuminate dai falò di primavera, antichi rituali contadini in cui si salutava il ciclo della morte e della rinascita, stringendo quel legame indissolubile che le comunità erano consapevoli di avere con la Madre Terra. Oggi è rimasto ben poco di tali riti, resi obsoleti dall’illusione tecnocratica di poter recidere impunemente tale legame. Qualcosa però rimane, nei roghi del carnevale come nei falò dei valdesi, tradizioni in cui si intrecciano significativamente i rituali di morte/resurrezione con la memoria degli episodi di resistenza e rivolta.
A ben guardare, dunque, se sui monti del Kurdistan le fiamme ardono più vive che mai, anche qui quei fuochi non si sono mai spenti del tutto. A noialtri spetta soffiare sulle braci, alimentare le fiamme, e rispondere al segnale. Affinché l’incendio dilaghi, fino a risvegliare i timorosi e a demolire i palazzi dei novelli tiranni.
[1] Versi della poesia Newroz Cicekleri (I fiori del Newroz) composta in carcere negli anni ‘80 dal rivoluzionario curdo Ali Bicer.