Partenza: Col Du Petit Moncenis, m 2.184 s.l.m.
Vetta: Rocca d’Ambin, Torino, m 3.378 s.l.m.
Distanza: km 22 circa (andata e ritorno)
Dislivello: m 1.300 circa
Tempo di percorrenza: h 4 circa il sabato e
h 9 circa la domenica (h 3 di salita, h 6 di discesa)
Introduzione
STILLIVED: Fine agosto, fine estate. Estate, questa sconosciuta. Un luogo della mente più che un tempo reale, un’illusione di riscatto da un lunghissimo tempo impiegato a fare cose che non vorresti fare, e allora arriva l’estate, e nella sua attesa e nella sua durata un’aspettativa, e in quella, in realtà, un vuoto. Ma in montagna l’aria è rarefatta, ti svegli insieme al sole, ho puntato la sveglia un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, e fuori dal rifugio il silenzio è pungente, il freddo assordante, no, non vorrei dormire un’altra ora.
Che la montagna, come l’estate, possa considerarsi un riscatto da quel tempo è del tutto discutibile. È principalmente fatica, ore di cammino verso una meta che è nuovamente un’illusione, il sole picchia, la terra viene giù sotto i piedi, quel passaggio, no, io di lì non ci passo.
Sabato
ROBGAST69: Appuntamento alle 13 all’uscita dall’autostrada, alla fine siamo in sette: io, Diserzione, Stillived, Fiorella, Ezio, Paola e Chiara. All’ultimo momento malanni vari ci hanno tolto due partecipanti lasciandoci con una formazione ridotta, a maggioranza femminile e maggioranza di non (ancora?) alpinisti molotov.
FIORELLA: Prima delle vacanze estive Robgast69 mi racconta di AM e mi propone di partecipare alla prossima uscita: la Rocca d’Ambin. Non ho potuto rifiutare per due ragioni: la prima, galvanizzante per me che ho scoperto il piacere delle passeggiate in montagna da pochi anni, era la possibilità di arrivare sopra i 3.000 metri e vedere l’effetto che mi avrebbe fatto, la seconda era perché solo pochi mesi prima avevo scoperto con altri amici la bellezza delle escursioni in gruppi numerosi (prima di allora solo in 2 o 3 persone). All’appuntamento collettivo mi fa subito piacere scoprire che su sette persone quattro sono femmine; pazzesco direi, visto che di solito mi ritrovo a constatare con il mio compagno quanto ancora il vivere la montagna sia una prerogativa maschile.
ROBGAST69: Riduciamo le macchine a due e partiamo; un’ora e mezza di viaggio e siamo al punto di inizio della camminata, il Col du Petit Moncenis. La nostra meta è la Rocca d’Ambin, la cima più alta del massiccio dell’Ambin, quello sotto cui alcuni sconsiderati vorrebbero scavare un tunnel di km 56 per far passare la nuova ferrovia per il TAV Torino-Lyon, una linea costruita accanto ad una rimodernata nell’ultimo decennio ed utilizzata per meno di metà della sua capacità.
Una destinazione poco appariscente la nostra, dal basso la si può vedere solo da lontano, perché nascosta da altre cime, e non la si direbbe la punta più alta del massiccio. Poco appariscente e poco frequentata, probabilmente per via dell’avvicinamento piuttosto lungo: il percorso che abbiamo scelto è il più breve possibile in termini di tempo, ma comunque per la salita a passo standard servono quasi 7 ore. Guardandolo su una carta il nostro tracciato sembra disegnato apposta per irridere i confini, in due giorni passeremo dall’Italia alla Francia e viceversa almeno una decina di volte.
FIORELLA: Nel tragitto in auto, quasi all’arrivo, costeggiamo il lago del Moncenisio, che mi lascia a bocca aperta: dalla grandezza sembra un mare, con l’azzurro così carico di cielo e di freddo che si fa fatica a staccargli gli occhi di dosso.
Poco dopo lasciamo l’auto e iniziamo la passeggiata di avvicinamento al rifugio Vaccarone, dove dormiremo, il che mi permette di conoscere un po’ meglio gli altri partecipanti. Costeggiamo un torrente alla nostra destra, che scorre lungo un ampio pianoro e sulle cui rive si affacciano cespugli di ontani. E sempre sulla destra, più in alto, imponente e un po’ aspro e spigoloso per me, il massiccio dell’Ambin. Chissà domani come andrà, chissà cosa proverò. Chissà se arriverò in cima.
ROBGAST69: Lasciamo le macchine e ci avviamo, il primo tratto è un lungo trasferimento, prima a saliscendi e poi su un falsopiano. Ci lasciamo affascinare dal paesaggio verdissimo e cerchiamo di individuare la nostra destinazione, sfuggevole allo sguardo, su di una cresta lunga e frastagliata. In poco meno di due ore raggiungiamo il Lago delle Savine (oggi stranamente di uno sgradevole color marrone) e ci fermiamo per una piccola pausa vicino ad una tabella ed una scultura in ferro che segnalano che proprio qui l’esercito di Annibale si sarebbe fermato qualche giorno prima di scendere verso Roma. Su questo percorso nel 1689 è passato anche un altro “esercito”, del tutto diverso. Poco meno di mille tra valdesi e ugonotti che cercavano di raggiungere la val Pellice da cui erano stati esiliati tre anni prima, a seguito dell’editto di Nantes. Anche loro, compiendo il “Glorioso Rimpatrio”, nel valicare il Col Clapier attraversarono un confine, però, nonostante il senso di marcia sia lo stesso, noi usciamo dalla Francia mentre loro vi entravano. Mentre scrivo queste righe Twitter è pieno di immagini di profughi in marcia da Budapest verso l’Austria, e non posso fare a meno di vederli simili ai valdesi nell’incamminarsi verso un futuro sperabilmente meno carico di soprusi, anche se diversi nel cercarlo lasciando le loro terre anziché tornandoci.
Poco dopo il colle facciamo due avvistamenti metallici. Il primo è una catasta di fil di ferro arrugginito, residuo delle bonifiche postbelliche, comunque incomplete, come si vede dai molti pali da recinzione ancora in piedi. Un piccolo ricordino bellico che riporterà inconsapevolmente a casa @diserzione, conficcato in uno scarpone.
Il secondo avvistamento invece è più moderno, si tratta di un bivacco dal profilo esagonale. A prima vista stonato, ma facendoci l’occhio non così sgradevole.
FIORELLA: Dopo il lago delle Savine e una breve sosta superiamo il Col Clapier e scendiamo in un altro pianoro, guadiamo a piedi nudi (ottimo per ridare vita alle gambe!) un altro torrente e iniziamo la salita al rifugio di circa un’ora e mezza. Qui le mie parole si fanno quasi a zero, perché la mia capacità di chiacchierare, camminare, respirare e non ingolfare non è ancora molto molotov!
ROBGAST69: Dal Col Clapier si scende fino ad attraversare il Clarea, pochi chilometri a valle questo torrente lambisce il cantiere del cunicolo esplorativo per il TAV, un tunnel geognostico che il progetto voleva terminato entro la fine di quest’anno, ma che dopo quasi due anni di lavori è appena a metà. Dopo il guado il sentiero fa una serie di saliscendi lungo i quali discutiamo di navigatori satellitari, partendo dall’estesissimo uso di GPS che fa @diserzione, contrapposto al rifiuto totale di Ezio, che pensa che l’abuso di questo strumento contribuisca ad una tendenza ad essere sempre meno consapevoli di ciò che si sta facendo, sempre più guidati da strumenti il cui funzionamento ci è del tutto opaco. In proposito cito un mio ex professore di chimica delle superiori, che ci vietava l’uso delle calcolatrici concedendoci un’ampia tolleranza sugli errori di calcolo, perché voleva che fossimo in grado di determinare a mente se l’ordine di grandezza della risposta che dava lo strumento era sensato o meno; in pratica ci diceva di usare gli strumenti ogni volta che ci tornava utile la loro precisione, ma di non delegare mai loro il controllo. Un approccio con cui mi sono sempre trovato d’accordo.
Mentre parliamo il sentiero prosegue, prima aggirando un costone roccioso con una serie di saliscendi, e poi con una ripida salita in un canalone, al termine della quale la visuale, prima molto limitata, si apre su spazi decisamente più ampi. Tra le altre cose in vista anche il Gran Pertus, splendido esempio di POUV (Piccola Opera Utile Voluta, da contrapporre a GODII) e ottima meta per escursioni autunnali. Un’altra mezz’ora di cammino e arriviamo al rifugio.
FIORELLA: Al rifugio arriviamo che è praticamente ora di cena, giusto il tempo di riposare un po’ i piedi e di ammirare le montagne attorno a noi (prima fra tutte riconosco il Rocciamelone sulla valle di fronte alla nostra).
ROBGAST69: Il rifugio Vaccarone è piccolo, 15 posti più quelli del bivacco invernale, e decisamente piacevole. Prima di cena resta quasi un’ora, e dopo essermi sistemato ne approfitto per scegliere le pagine di Binario morto che voglio leggere domani in vetta. Si mangia con calma, senza i turni di altri luoghi malati di gigantismo, e poi si esce per una passeggiata sotto la luna. Un segnale indica il Lago dell’Agnello a 10 minuti, ci incamminiamo ma al buio perdiamo il sentiero, e dobbiamo rientrare senza averlo visto. Per oggi basta, si va a dormire.
Domenica
STILLIVED: Il primo giorno è passato inosservato, quasi senza ricordi, la salita è stata dura, quella fatica che morde le ginocchia, ne distingui nettamente i denti nella carne. La mente era completamente libera, non un pensiero in quel punto, solo un gioco di equilibri, un piede da un lato del passaggio, l’altro, una spinta impercettibile, a sinistra, quanto più in alto possibile, e poi di nuovo a destra, e ancora a sinistra. Non un pensiero, nemmeno un’occhiata all’intorno, solo la roccia impietosa e i passi leggerissimi.
Dopo la notte al rifugio, quel freddissimo risveglio assomigliava all’aspettativa dell’estate. Ci attendeva la parte tecnicamente più difficile, e poi la discesa. La notte precedente, dopo la cena, avevamo cercato invano il lago dell’Agnello, eppure dev’essere qui, è vicinissimo, ma il buio è un infame. La mente era ancora completamente vuota, pienamente in grado di affrontare la notte nella infantile e spensierata ricerca di un lago che, sì, potrebbe essere lì, forse un po’ più a sud. Un gran peccato non averlo raggiunto il giorno dopo, scendendo, con chi invece ha deviato da quella parte. Ma era un altro giorno e i risvegli pieni di attesa e di bellezza sanno vendicarsi.
ROBGAST69: Sveglia alle sette meno un quarto, avrei il compito di chiamare tutti ma solo due sono ancora sotto le lenzuola. Tra colazione e preparativi impieghiamo un po’ più del previsto, ma alle otto siamo comunque in marcia e il rifugio è già fuori vista.
FIORELLA: Si parte verso le 7.30 in un paesaggio lunare di rocce, pietroni e resti di ghiacciai, e a me viene da canticchiare “Virus” di Bjork.
ROBGAST69: Il primo tratto di salita è simile al finale di ieri, ma le rocce attorno vanno aumentando, e dopo una mezz’ora il sentiero si riduce ad una traccia nella pietraia, che aumenta di pendenza man mano che ci avviciniamo al colle dell’Agnello. Prendendo in mano una cartina di 10-15 anni fa nel punto in cui ci troviamo si vedrebbe segnalato il ghiacciaio dell’Agnello, oggi quello che ne rimane è solo un piccola chiazza tra il colle e la dorsale Niblè-Punta Ferrand. Un po’ di più è rimasto del vicino ghiacciaio del Muttet, ma anche in questo caso è andata persa più di metà della superficie.
STILLIVED: La salita non è più di quello che ci si aspettava, i muscoli bruciano, i polmoni non ne vogliono sapere. Ma la testa, la testa è pesantissima.
È questa che ti manda avanti, poi. Non tanto la maggiore o minore agilità, non tanto l’esperienza, che pure sono necessarie. È forse questo il primo limite davanti al quale mi ha posto la montagna, in questi pochissimi mesi di esperienza che ne ho: i pensieri devono essere sottili come l’aria che ti sferza il volto, è solo una questione di equilibrio tra due corpi, il suo, il tuo.
La salita procede lenta, la fatica che faccio è ingiustificata rispetto alla difficoltà del tratto fino a quel momento percorso, la rabbia mi fa stringere i denti, potrei farmi distrarre dai discorsi, non li sento neppure. Il sole, il sole è un assassino. Penso tutto il tempo al sole algerino di Camus, a quella luce violenta, che disegna ombre affilate sugli asfalti e sulle spiagge dei sud del mondo, che poi è quella dei luoghi in cui sono cresciuta, e che, sì, è diversissima da quella di montagna. Eppure io a questo penso, a quell’uomo che si lascia sedurre dalla follia del sole e a causa sua uccide.
«Camminavo lentamente verso le rocce e sentivo la mia fronte gonfiarsi sotto il sole. Tutto quel calore pesava sopra di me e contrastava il mio andare. E ogni volta che sentivo il soffio caldo sul viso, serravo i denti, stringevo i pugni dentro le tasche, mi tendevo tutto per vincere il sole e quella ubriachezza opaca che esso riversava su di me».
Sono arrabbiata, sì. Vorrei vincere la fatica e nello stesso tempo abbandonarmici, penso che sono perfettamente in grado di arrivare in cima e subito dopo che non è il giorno giusto, oggi no. Non sento più nulla, solo un ronzio nella testa e nelle orecchie, mi arrivano poche parole dei discorsi degli altri, non fanno altro che appesantirmi. Pian piano esercito su me stessa una pressione sempre meno sostenibile, è un lavoro a cui mi dedico con tutta la cura e la meticolosità di cui sono capace: voglio raggiungere la meta, no, in realtà non voglio affatto, ma ne sei assolutamente capace, non è questo il punto, e poi quale meta? La meta è forse la cima? È questo il senso dell’andare in montagna, collezionare delle cime?
Sono passate forse meno di due ore dalla partenza dal rifugio, a me sembrano otto.
«Erano già due ore che la giornata non avanzava, due ore che aveva gettato l’àncora in un oceano di metallo fuso».
Falla finita, sei una bambina, mi dico. Ragazzi, io mi fermo qui, dico loro.
ROBGAST69: Al colle facciamo una breve sosta, mentre Fiorella esulta per il suo primo valicamento di quota 3000, poi riprendiamo seguendo la cresta. Da qui il percorso è decisamente più esposto, e in alcuni tratti più difficile, vuoi per la pendenza vuoi perché il fondo è un ghiaione spesso instabile. Già dal primo tratto @stilllived decide di fermarsi, non si sente a suo agio su questo terreno e di strada ce n’è ancora parecchia, meglio ridiscendere i pochi metri fino al colle e fermarsi li ad aspettarci. Lasciarla a quella lunga attesa (alla fine saranno quasi 4 ore) non mi piace, ma insistere a spingerla avanti non avrebbe senso.
STILLIVED: Siamo al colle dell’Agnello, ci siamo fermati qualche minuto a riprendere fiato, uno di quei pochi momenti, quelli di pausa collettiva, in cui non mi sento in colpa a fermarmi in silenzio a guardare, in cui non ho il timore di rallentare il gruppo. Gli altri sono pronti a ripartire, il passaggio subito dopo il colle è stretto e accidentato, si incamminano uno dietro l’altro, li lascio passare, guardo il colle, è un posto terribile – ce ne sarebbe da dire sul significato di terribile – , esito, poi muovo un paio di passi dietro di loro, poi mi volto di nuovo a guardare quello che ci lasciamo alle spalle, poi ancora quello che c’è da affrontare. Non oggi, no. Ma la cima? Pensa alla cima, pensa alla sensazione di raggiungere il traguardo…
Oh, falla finita, sei una bambina, mi dico. Ragazzi, io mi fermo qui, dico loro.
Sì, sono sicura. Vi aspetto qui. Sì, sì, sicura, andate.
FIORELLA: Arriviamo al Colle dell’Agnello dove finalmente superiamo i 3.000 metri (3.090); il sentiero ha richiesto solo qualche punto un po’ più impervio da salire tra le rocce, da qui invece inizia il bello: concentrazione, respironi di auto convincimento, ma soprattutto l’opera di Ezio, che diventerà il mio punto di riferimento da seguire per imparare insieme alcuni trucchi per superare i ghiaioni e non farsi prendere dal panico mentre le pietre ti scivolano da sotto i piedi o per capire su quali lastre non appoggiarsi per non scivolare.
STILLIVED: Si allontanano, sento le loro voci ancora per poco, poi più nulla. Mi guardo intorno: pietre, e pietre, e ancora pietre. Una spiaggia di pietre, sufficientemente spaziosa per una sola persona, chiusa su due lati dalle pareti delle rocce, sugli altri due il vuoto e una vista sconfinata. È un posto accogliente. La mia esperienza escursionistica è piuttosto scarsa, ma la montagna così non l’avevo vista mai, così com’è quando la lasci da sola, quando la guardi di nascosto facendo attenzione a che non ti scopra, come il vicino che spia dalla finestra di fronte, scostando leggermente la tenda.
Mi sono seduta tra quelle pietre e ho aspettato. Il ronzio di qualche mosca, qualche rarissimo uccello, il vento, il vento che a tratti mi porta la voce degli altri, sono ancora abbastanza vicini ma ormai invisibili, il vento che sposta velocissimo le nuvole.
Mi sono seduta a guardare in direzione di ciò che ci eravamo lasciati alle spalle, subito sotto i miei piedi un abisso, in lontananza quel lago che questa notte si è nascosto, di fronte a me, oltre le nuvole leggere che continuamente si scompongono e si ricompongono, riconosco il profilo del Rocciamelone.
Vediamo, secondo le indicazioni lungo il percorso gli altri dovrebbero impiegare circa due ore ad arrivare in cima. Sono appena le nove. Facciamo che impiegheranno altre due ore a scendere. Facciamo che non mi aspetto di rivederli prima dell’una.
ROBGAST69: Noi sei invece proseguiamo, e subito troviamo il modo di complicarci la vita. Perdiamo di vista la traccia, molto poco evidente, e prendendo una strada apparentemente più facile in realtà ci troviamo a dover fare un passaggio su grosse rocce decisamente scomodo anche se breve. Scherzando Ezio dice che abbiamo realizzato una “variante di pregio”, io preferisco definirla una a-variante.
La traccia abbandona spesso la cresta per aggirare sporgenze rocciose, ora a destra ora a sinistra, e quindi ci porta a scavalcare continuamente un confine per cui si è anche combattuto, ma che camminando non si nota in nessun modo. Per buona parte del percorso dal colle alla cima non saremmo in grado di dire se ci troviamo in Italia o in Francia.
Il percorso non è particolarmente tecnico, ma nei tratti più ripidi il terreno si muove molto, e non è tutta ghiaia, ci sono anche pietre di dimensioni ragguardevoli, che quando iniziano a scivolare fanno parecchia strada prima di fermarsi. Finché si cammina su dei traversi non ci sono grossi problemi, quando bisogna risalire verso la cresta e ci si trova uno sotto l’altro la cosa diventa più pericolosa. E per me, che per eccesso di prudenza ho sovraccaricato lo zaino, anche faticosa.
STILLIVED: I pensieri in un posto come quello, in una situazione come quella, a dir poco esplodono. In altri racconti su AM qualcuno ha già ricordato quell’autoanalisi che è stato a volte, e che può essere, il racconto di montagna. Probabilmente non lo sarà anche questo, ma lo sono state quelle ore passate in completa solitudine, paradossalmente immobile, stare, senza bisogno di fare altro.
Questa storia dell’avere dei limiti è dura da mandare giù. Di averne parecchi, anche. Maggiormente trascurabili quelli fisici, quelle fauci che ti addentano le ginocchia quando ti arrampichi. Quel tipo di dolore passa velocemente, e senza lasciare traccia. Il senso di inadeguatezza è certo peggiore.
Quelle ore sono passate molto lentamente, ancor più di quelle che avevamo impiegato per arrivare al colle. Il sole comincia a picchiare, ma il vento soffia più forte, e mi spinge a cercare un posto più riparato: due giganteschi massi, inclinati come le falde di un tetto alpino, creano un piccolo spazio in ombra e protetto dal vento, grande abbastanza per sedercisi dentro con le ginocchia strette al petto. Ho pensato a lungo al significato che attribuiamo sempre alla cima, e al fatto che la facciamo coincidere con un traguardo. Soprattutto ho pensato a tutto quello che, nell’affannarsi a raggiungerlo, si perde lungo il cammino. Quella giornata in particolare prevedeva una tabella di marcia serratissima: l’obiettivo – eccolo, di nuovo, il traguardo – era raggiungere la cima e poi scendere, e non solo fino al rifugio, punto di partenza di quel mattino, ma ancora fino alle automobili, ripercorrendo anche il tragitto del giorno precedente. Ho pensato che non è questo il mio modo di andare in montagna. Ho pensato che fermarmi mi stava permettendo di recuperare tutto quel tempo perso nella fretta di arrivare, distratta dall’ansia di superare una prova.
ROBGAST69: Riprendiamo la cresta dopo aver aggirato uno spuntone di roccia più grande degli altri, e di colpo il colore del terreno cambia completamente, dal quasi bianco al quasi nero. Con questo sfondo arriviamo all’anticima, e qui per me iniziano i problemi. Sarà la stanchezza, la quota o chissà cosa, fatto sta che qui l’esposizione mi fa più effetto. Non sono propriamente vertigini (riesco ancora a mantenermi dritto senza bisogno di appoggi) ma quel senso di insicurezza nel proprio equilibrio che riconosco come primo stadio delle stesse. E così anche l’aggiramento dell’ennesimo roccione, su un ghiaione non diverso dai precedenti, diventa lento e faticoso. Raggiungo gli altri che mi aspettano su un colletto, davanti il percorso è come l’ultimo tratto, e alla cima mancherà ancora una mezz’ora.
FIORELLA: Dopo il colle la salita si svolge prevalentemente sul lato francese, su pietraie a mezza costa o su una larga cresta. L’ultima di queste mi mette più in difficoltà degli altri: attraversiamo a mezza costa uno stretto sentiero esposto la cui roccia è di un rosso intenso, quasi nero e penso sia stato proprio il cambio cromatico ad avermi agitata. Una volta superato mi chiedo se ce la farò a superare l’ultimo canalone per arrivare in cima, ne parlo con con @robgast69; si valuta di munirsi di corda e io chiedo a Ezio un consiglio. La sua risposta mi rassicura, dice che se sono arrivata fino a lì l’ultimo pezzo lo posso affrontare, alla peggio ci leghiamo con la corda. Così vado, non senza continuare a ripetermi frasi che tengano a bada la paura e mi diano coraggio e determinazione.
ROBGAST69: Mi prendo due minuti per pensarci: l’ultimo passaggio l’abbiamo fatto in discesa, quindi so che al ritorno sarà in salita, e dunque più agevole, ma quelli che stanno tra qui e la vetta saranno in discesa al ritorno, e se arrivano le vere vertigini gli altri dovranno portarmi giù quasi di peso. Decido che è meglio fermarmi, lascio la corda (che non verrà usata) ad Ezio e mi siedo ad aspettare.
STILLIVED: È passata appena un’ora, non arriveranno mai. Ho perso il conto delle sigarette fumate, sono in mezzo al nulla più assoluto. Lei, la montagna, è così che resta tutto il tempo, finché non la veniamo a disturbare.
Sento delle voci, no, non possono essere già di ritorno. Poi due figure all’orizzonte, nella direzione da cui noi stessi siamo arrivati, quasi sussulto, ero già stata completamente assorbita dal nulla. Mi salutano, riconosco i due uomini che avevano passato con noi la notte al rifugio. Mi chiedono come mai fossi lì:
– Ti hanno lasciata da sola?
– No, non mi hanno lasciata da sola, ho voluto restarci io da sola.
Di solito riesco ad essere più gentile di così, ma oggi, oggi no.
Proseguono per un’altra via, oltrepassano il colle e scompaiono nel vuoto alle mie spalle così come sono emersi da quello di fronte a me. Mi ritrovo a pensare ai colli, alla bellezza di quel colle in particolare, nelle sue sembianze di sella per giganteschi cavalli mitologici, alla bellezza dei colli in generale, nel valore che deriva loro dal fatto di collegare due valli, di essere il punto meno difficilmente raggiungibile stretto tra ostacoli insormontabili.
ROBGAST69: Sono incazzato. Sono incazzato perché questa uscita la stiamo organizzando da mesi, sono incazzato nero, perché in cima ci volevo arrivare, e sono ancora più incazzato perché volevo leggere le pagine di Luca Rastello che avevo scelto ieri, ma che non avevo evidenziato per non rovinare il libro. Certo, qualcuno leggerà qualcosa, e magari sceglierà anche meglio di me, però mi sembrava importante che fossero proprio quelle. Comunque ormai è fatta, indosso un pile perché c`è un certo vento freddo e mi sdraio sugli sfasciumi ad aspettare. Davanti a me una torre di roccia corrosa da venti e piogge mi nasconde il percorso che stanno facendo gli altri, alle mie spalle, sotto quasi duemila metri di questa fragile roccia, è previsto che debba essere scavato il tunnel del TAV. Mi viene da pensare a cosa potrebbe essere trascorrere quest’ora d’attesa là sotto, nella galleria, magari bloccati da un guasto, a 50° C (non è un’esagerazione, vedi punto 14). Per quanto su questa sella non mi senta propriamente a mio agio preferisco decisamente essere dove mi trovo.
FIORELLA: E così, superato senza l’uso della corda il canalone, difficile in realtà solo per l’ultimo passaggio su una pietra liscia e verticale (tralascio lo strapiombo che c’era sul lato italiano, perché a volte devo scacciare l’attrazione del guardar giù…), ancora pochi passi e la cima è lì! Tanto timore di non farcela e poi in pochi minuti siamo arrivati! Lasciamo spazio al momento dell’euforia, degli abbracci, della gioia, della commozione per me e dello stupore nel vedere in una volta, girando a 360° Monte Bianco, Gran Paradiso, La Barre des Écrins, le cime e i ghiacciai sul lato francese. Meraviglia a 3.378 metri!
Ci fermiamo però pochi minuti, giusto il tempo di scrivere sul diario di vetta e leggere qualche passaggio di “Binario Morto” , perché siamo proprio sul monte che dovrebbe essere trapassato dal TAV (trapassata dovrebbe essere ormai l’idea, più che il massiccio).
Si riparte per la discesa con l’adrenalina dell’essere arrivata fin lassù, dell’aver visto quello spettacolo indimenticabile, dell’avercela fatta grazie e insieme alle persone che erano con me e dell’aver salutato Luca Rastello quasi toccando le nuvole. Tutto ciò mi mette una tal carica da farmi dimenticare che durante la salita pensavo alla discesa con ancora più ansia.
ROBGASTt69: Un po’ prima delle undici e mezza sento le voci di chi sta tornando, e dopo pochi minuti li vedo arrivare. Mi dicono cos’hanno letto in cima, mi raccontano il tratto di strada che non ho percorso, e mi insinuano il dubbio di aver fatto male a fermarmi, dubbio che crescerà nei giorni successivi vedendo le foto che hanno scattato. Ripartiamo, e in meno di un minuto siamo oltre il passaggio che mi ha creato tanti problemi.
STILLIVED: Non ho niente con me che possa illudermi che il tempo passi più velocemente. I quarantanove racconti sono rimasti a casa, era necessario limitare al minimo indispensabile il peso da portarsi sulle spalle e poi, pensi che ci sarà il tempo di leggere? Sarebbe bastato a leggerne cinquantuno. Che ci sarà qui dentro? Un panino, ho già mangiato l’altro appena rimasta da sola, ci ho affondato i denti e tutta la rabbia che mi era rimasta addosso. Con questo telefono ci fai al massimo una telefonata, di certo non delle fotografie. Ho portato il taccuino e una matita, non sei sempre così stupida, dai.
Sono tornata a sedermi nel bel mezzo della sella, il Rocciamelone sempre lì di fronte a me, sotto di me il lago dell’Agnello. Ho cominciato a disegnare ciò che avevo davanti agli occhi, descrivendo in realtà quello che mi tormentava attraverso il filtro di quel paesaggio nudo.
Un altro limite è accettare il limite stesso. Non volevo fermarmi, provavo vergogna del mio limite, quello fisico, psicologico o qualsiasi cosa sia stata, che mi aveva torturata fino al colle e che mi avrebbe impedito di andare avanti senza impazzire. La vergogna, però, era forse solo dovuta alla stupida convinzione di dover raggiungere a tutti i costi un traguardo imposto. Un sentimento davvero misero, sì, eppure lo sforzo che l’accettarlo richiede è incredibilmente arduo.
Poi il traguardo, ammesso che sia giusto prefissarselo, non coincide necessariamente con la cima. No, almeno oggi no.
ROBGAST69: Proseguiamo verso il colle, sempre rallentati dalla franositá del terreno ma senza grandi difficoltà. Nel punto in cui in salita avevamo fatto la nostra a-variante riusciamo anche a non ripetere l’errore e scendere dal percorso segnalato. Al colle ritroviamo @stilllived, scendiamo ancora un po’ per toglierci dal vento poi ci fermiamo a mangiare, un panino, un po’ di cioccolata e poi di nuovo ripartiamo. Fino al rifugio seguiamo lo stesso percorso dell’andata, poi scegliamo un sentiero segnalato come “attrezzato” perché dovrebbe farci risparmiare una mezz’ora, sperando che il percorso non sia troppo tecnico. Fortunatamente il tratto attrezzato prevede solo un tratto di corda lungo poco più di una cinquantina di metri ed è realizzato principalmente per condizioni di umido, in cui la roccia del fondo del sentiero potrebbe diventare scivolosa; in una giornata di sole come oggi se ne può fare tranquillamente a meno.
FIORELLA: Si ripassa dal rifugio e si scende da un sentiero attrezzato con corda solo per il primo tratto e alternativo a quello dell’andata, fino a superare il Col Clapier e cominciare la lunga (-issima con la stanchezza del rientro) camminata di ancora più di 2 ore per il parcheggio.
ROBGAST69: Dopo il tratto attrezzato il sentiero torna facile, anche se ancora piuttosto esposto, e io decido di seguire il consiglio di un amico e provare ad usare i bastoncini. Dopo un’ora di esperimento li riporró nello zaino, perché quando si cammina ad andatura normale mi sono di intralcio, ma nel frattempo avrò scoperto che in tratti esposti mi aiutano a non sbilanciarmi troppo a monte, cosa che in questi passaggi mi succede spesso, e che mi è successa anche oggi quando mi sono incagliato.
Guadato il Clarea facciamo un’altra deviazione rispetto al percorso dell’andata, per andare a vedere da vicino il nuovo bivacco. Superato il fastidio per la spigolosità del suo profilo devo ammettere che in fondo non stona più di tanto, e all’interno lo spazio è usato benissimo, fa venire voglia di venire a trascorrerci almeno una notte.
Dal bivacco alle auto ci vogliono ancora quasi due ore, che sono faticose non per la difficoltà del percorso ma per il mal di piedi. A parte Ezio abbiamo tutti ridotto la loquacità, e i pratoni che avevamo tanto apprezzato all’andata hanno perso molto del loro fascino, ma alla fine raggiungiamo l’obbiettivo: poterci togliere gli scarponi. Giusto il tempo di acquistare qualche formaggio d’alpeggio e poi si parte verso casa, un ultimo sguardo al lago del Moncenisio e si torna a valle, attraversando un’ultima volta il confine Italia Francia, stavolta vicino al vecchio posto di frontiera abbandonato da anni. Nella speranza che in futuro ad essere abbandonati siano i confini stessi.
Foto di Robgast69 e Diserzione, disegno di Stillived.